RESOCONTO
di MEDUSA. In questo numero leggerete di incredibili letture e interviste eccezionali, di newsletter adorate e numeri che fanno proprio girare la testa.
Benvenuti, questo è il numero centosettantatre di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di incredibili letture e interviste eccezionali, di newsletter adorate e numeri che fanno proprio girare la testa.
A fine anno si tirano le linee, e per noi è sempre un momento estatico, nel senso di uscita-dal-sé: ho scritto io queste cose, ma davvero? E perché?
In realtà tutto si tiene. Dopo anni di lavoro si rischia di cadere in una superstizione, e cioè che si sia liberi di arbitrio, quando invece è tutto segnato. Ecco allora dei percorsi di lettura dove cerchiamo di aiutarvi a capire cosa abbiamo scritto quest’anno, cosa abbiamo in testa, e cosa abbiamo chiesto agli altri di scrivere per noi.
Questo 2024 si è aperto, in Italia, nell’area Padana, e in particolare a Milano (quella del tanto decantato modello cittadino), con emissioni inquinanti da record. Così a marzo, Alessandro Mantovani, insegnante e giornalista culturale, ci raccontava qui su MEDUSA la pessima qualità dell’aria e l’ancora peggiore qualità della risposta politica:
“Le lagnanze dei governatori del Nord, intenzionati a salvaguardare la produzione industriale, e il soprassedere del sindaco di Milano sulla gestione del tema a livello urbano, creano un’atmosfera di deresponsabilizzazione e trascuratezza che ricade sulla salute della cittadinanza”.
Per cercare una via per uscire dalla stasi, Mantovani partiva dalla fantascienza di Elysium (un film in cui pochi ricchi vivono in una lussiosa stazione orbitale al riparo dalle insidie di un pianeta al collasso) e citava poi le teorie di Byung Chul-Han sulla passività che avvolge il civismo nell’occidente moderno. Chiudeva così:
“Forse, oggi, è proprio grazie alle narrazioni distopiche che diventa possibile intuire su quale sistema sembra sia istradata la nostra realtà e, allo stesso tempo, scuotere di dosso la passività, rivendicare la possibilità di un futuro alternativo oltre i veleni nascosti nelle nubi”.
Il resto lo potete leggere su PM10.
A proposito di nuove strade da cercare: a maggio, abbiamo parlato di un libro ampio e molto ricco, una sorta di manuale che indica come, in epoca di crisi climatica, di saturazione umana, possiamo e dobbiamo trovare un nuovo sentimento della natura. Il libro si chiama Il senso della natura e l’ha scritto Paolo Pecere, scrittore e filosofo che citiamo spesso su MEDUSA. Pecere è stato ospite, nell’episodio SENTIMENTO, del nostro primo tentativo di MEDUSA audio: una chiacchierata via messaggi vocali.
Il libro è organizzato in sette “sentieri”, dove ogni capitolo rappresenta un segmento di una mappa esistenziale che spazia dall’urbanizzazione occidentale alla foresta amazzonica, passando per le Galápagos, l’Islanda e il Tibet. Pecere non si limita a descrivere un mondo in crisi, ma propone una filosofia del cambiamento: recuperare cioè lo spirito di meraviglia e responsabilità verso il pianeta che ci ospita e ci connette, districare i nodi di una modernità alienante e riscoprire un senso del sé che trascenda l’individualismo, in favore di un’armonia più grande, che abbracci la diversità e la fragilità del vivente. Una chiamata alla riconciliazione che è insieme poetica e profondamente etica.
È un’opera universo in cui è bello perdersi, un testo filosofico, politico, narrativo da tenere vicino, da riprendere e riaprire. La chiacchierata che abbiamo fatto, cerca di restituire almeno un accenno del piacere della lettura.
Ci sono state poi due MEDUSE di Nicolò che provano a esplorare la stessa dimensione: quella sotterranea, umida e buia. In PATATO, uscita a maggio, si racconta un’opera di Giuseppe Penone, artista piemontese che da mezzo secolo “indaga gli aspetti concreti della materia sino a svelarne”, come spiega l’artista stesso, “i fondamenti magici e fantastici”.
Spesso preferiremmo sperimentare i limiti del contenitore in cui scriviamo, e così facendo affidarci alla vostra pazienza, ma per carità di entrambi cerchiamo di limitare i nostri testi a qualche pagina. Nel caso di Penone avremmo inserito il racconto e la decostruzione di molte delle sue opere, guidati anche dall’ottimo Per crescita di buio, un saggio di Alice Iacobone.
In quella MEDUSA invece ci si concentra su un’opera che si chiama Patate, e che risale al 1977. Più di tutte forse l’opera che meglio esprime la ricerca ossessiva del suo creatore, quella dell’opera d’arte come forma che cresce. Penone la spiega così:
“L'idea era riuscire a produrre una scultura nel sottosuolo, senza il mio intervento diretto, sfruttando la forza generatrice presente nel suolo. Realizzai in resina circa cento negativi di parti diverse del mio volto. Scavai poi delicatamente attorno alle piantine di un campo di patate scoprendo i piccoli tuberi che si stavano formando e posai accanto a loro un negativo del mio volto. Li avvolsi con della carta e li ricoprii di terra. Associai così tutti i calchi del mio volto ad altrettanti tuberi in crescita documentando con una serie di fotografie la mia azione. Le patate prescelte avrebbero dovuto assumere le forme del mio volto realizzando, nella mia intenzione, un autoritratto scomposto”.
L’altra MEDUSA sotterranea è senza dubbio TALPE, e anche qui l’arte si arrovella sulla questione umidiccia, e cioè come si può raccontare una tana? Uno spazio negativo che ci offre rifugio? TALPE parte però dall’attualità: dal labirinto di tunnel scavato nella terra asciutta di Gaza e della Striscia, dove in ventiquattro ore, nonostante i mezzi limitati e le condizioni di lavoro impossibili, possono essere scavati e rinforzati dai dieci ai quindici metri di tunnel.
Citavamo quindi Forensic Architecture, un collettivo di architetti, programmatori, registi, archeologi e altro. Del loro lavoro ci ha interessato il sabotaggio delle loro competenze, ovvero di come ragionando su quello che sanno (le condizioni di equilibrio che tengono in piedi un palazzo, nozioni di balistica e strumenti satellitari) mostrano al mondo tutta la distruzione che viene nascosta, censurata, sotterrata.
La ricerca di Forensic Architecture parte infatti dalla forma distrutta per arrivare alle cause scatenanti: l’analisi si concentra sulla morte del progetto, sulle architetture sventrate e i crateri. Attraverso l’esame dei fatti, delle perizie balistiche e delle forme collassate, le persone di Forensic Architecture negli ultimi anni stanno mettendo in fila i crimini di guerra dell’esercito israeliano.
“Nel loro lavoro a Gaza, ormai decennale, hanno imparato a riconoscere le casistiche della distruzione. Il fuoco continuo dell’artiglieria costruisce cumuli di macerie, gli esplosivi piazzati sulle colonne portanti invece trasformano i palazzi in “pancake” a strati; un’altra anti-struttura tipica viene definita Piramide di Gaza, ed è la risultante di due fattori: il bulldozer Caterpillar D9, la cui azione viene impacciata dalle pale troppo corte, e i palazzi a tre piani che tipicamente ospitano le famiglie palestinesi. Il bulldozer arriva soltanto alle colonne più esterne, che abbattute portano il tetto a collassare sui lati, lasciando così intatto il colonnato centrale”.
Anche in questo caso per capire il buio, camminarci, abbiamo chiuso quella lunga newsletter scambiando due parole con un artista, Diego Marcon, che nel suo Dolle ha costruito una tana per proteggere una famiglia di talpe: mentre il padre e la madre fanno di conto, ossessivi e circolari, le due talpine dormono nei loro letti ben rintuzzati, protetti da lenzuola fresche e vecchie coperte di lana, ruvide quanto basta e orlate con cura.
Intorno, nel buio, un ordito di rumori oscuri, qualcosa scalpiccia nel mondo sopra, qualcosa fruga, si dibatte… Cose che non è dato vedere, la vista dopotutto può rincuorarsi di questa caratteristica: chiudi gli occhi e il mondo scompare, spegni una luce… le orecchie invece sono aperte al mondo, più difficile sabotarle, proteggersi dalle fantasie.
A ottobre, in AUTOBIOUCRONIA, Carlo Mazza Galanti – scrittore e insegnante – è tornato a scrivere di Emmanuel Carrère in occasione della pubblicazione di Ucronia, un saggio giovanile dello scrittore francese, un libro breve e stimolante, pubblicato in patria agli esordi, negli anni Ottanta. Sono pagine diverse da tutto quello che Carrere avrebbe poi scritto:
“Con i se e i con i ma non si fa la Storia, come ben sappiamo: ma si possono fare delle fiction. Intorno alla metà del milleseicento Pascal ne scrisse una brevissima destinata a enorme successo: ‘Se il naso di Cleopatra fosse stato più corto tutta la faccia della terra sarebbe cambiata’. Nel 1876 un letterato francese, Charles Renouvier, inventò un nome per questo genere di invenzioni storiografiche – ucronia – una parola capace di coniugare carattere derivativo (è ricalcata sull'Utopia di Thomas Moore), originalità e una qualche eleganza, e che perciò è diventata una etichetta di genere e si usa oggi con una certa frequenza. Un secolo dopo, un terzo scrittore francese, Emmanuel Carrère, ha pubblicato un saggio dedicato all'ucronia”.
Mazza Galanti spiega perché tra queste pagine si riesce a intuire, in nuce – quasi un interpretazione "figurale" come si dice in teologia –, il Carrère degli anni a venire, il suo ostinato narcisismo ma anche “il bisogno d'immaginarsi diverso, di essere un altro, di vivere la vita di un altro”.
Qualche mese prima, il numero di luglio, PORCILE, curato da Matteo, era dedicato a un altro scrittore che ci piace molto: Ernesto Sabato.
“Sabato era uno scrittore tenebroso, nevrotico, angosciante. Leggere Sabato è come leggere Lovecraft, o Edgar Allan Poe… Al tempo stesso quello di Sabato però è un gotico metafisico, un gotico latino. Orrore e incanto, magia bianca e nera insieme.
Sabato era un pessimista severo. Che il mondo sia orribile è una verità che non necessita dimostrazioni, dice il protagonista di Il Tunnel, il suo primo romanzo. Ma Sabato aveva anche una solida fede nella letteratura. La letteratura come unica vera indagine per le passioni, gli amori, le follie, le cose orribili del mondo, i lati più sotterranei, inconoscibili e inconsci della nostra vita terrena”.
A settembre, nei giorni del festival 2084 con cui abbiamo collaborato anche quest’anno, abbiamo intervistato Katja Petrowskaja: un’autrice di Adelphi già prima di scrivere la sua prima riga. Nata a Kiev nel 1970, cresce ucraina in una famiglia di insegnanti sopravvissuta a una storia di migrazione e diaspora, a cavallo tra Impero Asburgico e Unione Sovietica, filantropia utopica e repressione sistematica.
Attraverso l’uso di un tedesco imperfetto la sua storia familiare è diventata la materia letteraria di Forse Esther, l’esordio del 2014, la ricostruzione vaga delle sue origini tra Polonia e Austria, Russia e Ucraina, tra l’identità ebraica e la mutilazione di questa (prova urlante ne è il suo cognome, russificato in tempi rivoluzionari); un esordio che nel giro di pochi mesi la inserisce tra le voci più interessanti dell’ultimo decennio.
A Forse Esther è seguito il suo secondo libro, La foto mi guardava. Una raccolta di immagini trovate, celebri o autoprodotte, che insiste sugli stessi archi del romanzo autobiografico: l’identità apolide, l’amore nelle terre dimenticate, la nostalgia di case distrutte.
Nella MEDUSA che abbiamo chiamato INTRUSA abbiamo parlato dei suoi libri e delle sue pratiche di scrittura.
Un altro filo del 2024 di MEDUSA è senza dubbio la ricerca intorno al suono. A gennaio nella newsletter INVASIONE abbiamo chiacchierato con Luca Misculin che, nel suo lavoro curato assieme a Riccardo Ginevra, ha ricostruito, attraverso gli strumenti del podcast, le radici del protoindoeuropeo, la base della maggior parte delle lingue europee. L’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo, l’islandese, il lituano, il russo, eccetera, ma anche l’indi e il farsi.
Un linguaggio distante, che veicolava una idea specifica di società (guerresca, sembrerebbe, e a guida patriarcale), e quindi di miti che ricalcavano i valori di chi li tramandava.
A luglio invece abbiamo chiamato David Toop (compositore, scrittore e artista) che quando può si rifugia a Londra, circondato dai suoi strumenti e dai suoi dischi. Nicolò ci ha chiacchierato nei giorni in cui usciva Sonar, un audio documentario che deve molto alle ricerche di Toop.
In SUONO quindi si può leggere di capodogli e centrali elettriche, di Pauline Oliveros e Oneohtrix Point Never, di bivacchi hi-tech e sabbie canore. Ci ha detto Toop, tra le altre cose:
“Ho avuto l'opportunità di vederla esibirsi, di parlare e cenare con lei [Pauline Oliveros, NdA]. Sì, era una persona intensa [powerful], era una persona forte. Non avrebbe potuto fare tutto quello che ha fatto senza essere così forte, sai, lavorare a quelle idee e svilupparle nell’ambiente molto, molto maschile degli anni Cinquanta e Sessanta. E ha sviluppato questa idea, che ha avuto un'enorme influenza, del Deep Listening. Sì, anche se è stata soltanto una delle tante cose che ha fatto.
Oliveros ha portato avanti l'idea di un'estetica femminista applicata alla musica. […] Ha avuto una serie di intuizioni innovative e sorprendenti insomma, ed è bello vederla sempre più riconosciuta per tutto questo.
Quando l'ho intervistata per Oceano di Suono, infatti, non era circondata dalla stessa reputazione. Oggi è diventata una figura centrale quando si parla di ascolto, e di come si possa sviluppare un'etica attraverso la propria pratica di musicista. Fare musica riguarda il modo in cui hai scelto di vivere, e il modo in cui intrecci relazioni con le altre persone; anzi, non solo con le persone, ma anche con gli oggetti, i ricordi e le altre credenze.
Fare musica non è solo un'attività professionale, o sperimentazione. È un'attività etica”.
Ci sono state poi le tante MEDUSE rizomatiche che quest’anno hanno raccolto in ogni numero una manciata link, storie o piccoli racconti – impulsi apparentemente sconnessi ma uniti da un disegno più grande, per quanto spesso fosse visibile soltanto nelle nostre teste.
Tra le altre cose, in NOVITÀ raccontavamo di: Tiger Tateishi, artista e illustratore. Di Železnogorsk, una città della Russia che si trova nel Territorio di Krasnojarsk, e della sua incredibile bandiera. Di allucinazioni ipnagogiche. Dell’Hotel Michelangelo di Milano e del suo ruolo durante la pandemia.
In POWERPOINT raccontavamo dei metodi di rinoplastica del IV secolo a.C.. Del naso di Tycho Brahe. Della rivoluzione cognitiva del PowerPoint. Di un racconto di John Cheever che si chiama “Una radio straordinaria”.
In LEGNETTI, dell’utopia dei miliardari. Di Violenza invisibile, un saggio di Adriano Zamperini. E di imprenditori che smerciano ghiaccio artico.
Nella MEDUSA FRINIRE scrivevamo di Lapidi di Yang Jisheng. Della nostra quotidiana fuga dall’algoritmo. Delle tattiche di seduzione e di evoluzione dei grilli. Di Schiavi di New York di Tama Janowitz. Di Tourism in the Climate Change Era di Marco Zorzanello.
Nel numero intitolato SCANDALO, della truffa scientifica che ruota attorno alle illustrazioni del topo con un enorme pene e quattro testicoli. Della vita unica e tragica del chimico Wallace Carothers. Delle microplastiche nei nostri corpi.
In SAGOME invece abbiamo consigliato una manciata di libri: Coventry di Rachel Cusk. Una quasi eternità di Antonella Moscati, e anche il suo Patologie. Siamo tornati su Schiavi di New York. Abbiamo spiegato perché Io che non ho conosciuto gli uomini non ci ha fatto impazzire. Abbiamo parlato bene di Cittadino Cane di Giordano Meacci e I pericoli di fumare a letto di Mariana Enriquez.
Abbiamo dedicato UMANITÀ alle questioni di diritto internazionale, davanti al genocidio a Gaza. E sul tema siamo tornati anche in PAGA, dove abbiamo scritto poi brevemente della morte dell’artista Lillian Schwartz, delle ultime ricerche sulle microplastiche, oltre che della Paga del sabato di Fenoglio.
In CICALECCI siamo tornati di nuovo, inevitabilmente, su Gaza. E abbiamo poi parlato dei negoziati sul clima tenutisi a Baku, in Azerbaigian, e di Riyadh e della Saudi Aramco. Ma abbiamo anche provato a distrarci raccontando i trent’anni di colonna sonora di Donkey Kong Country e i fumetti di George Wylesol.
Scrivendo di protoindoeuropei, dicevamo che l’invasione l’hanno fatta delle popolazioni che parlavano un’altra lingua, vivevano altre usanze e si sono mescolate a chi c’era, e questo lungo processo è diventato noi, che facciamo le fotografie alle epoche e pensiamo di essere alla fine di qualcosa; e questo succede per le solite distorsioni di scala, che ci danno tanti affanni. NOCCIOLI, una MEDUSA uscita a settembre, parla proprio di queste distorsioni: di novelle miracolose che giocano con il tempo profondo, di sciamane venerate per settecento anni, e scomparse nel nulla preistorico; alla fine la cultura, sembrerebbe, si costruisce decidendo cosa ignorare.
È l’unica macchina del tempo che siamo riusciti a mettere in moto. Macina tutto, però. Qualcosa poi viene fuori, delle ossa, statuine, pendenti. Si tira fuori un sasso, e quel sasso è una selce, serviva per cucire, o forse per uccidere.
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Senza contare il libro che abbiamo effettivamente scritto nel 2021.
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Quest’anno dopo sette anni è la prima volta che i mercoledì di MEDUSA coincidono con il 25 dicembre e poi con il 1° dell’anno. Ci siamo chiesti che fare, abbiamo deciso così: il prossimo numero uscirà l’8 gennaio, ma nel frattempo manderemo qualche MEDUSA EXTRA! riservata a chi ci sostiene.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 424,90 ppm (parti per milione) di CO2.