PAGA
di MEDUSA. In questo numero leggerete di cervelli di plastica e fianchi sformati, di scrittori piemontesi e artiste newyorchesi, di diritto internazionale e foreste spacciate.
Benvenuti, questo è il numero centosessantanove di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di cervelli di plastica e fianchi sformati, di scrittori piemontesi e artiste newyorchesi, di diritto internazionale e foreste spacciate.
#1 SO LONG
La oggi beneamata e affollatissima intersezione tra scienza, arte e tecnologie sarebbe un posto completamente diverso, di sicuro più noioso, se non fosse esistita Lillian Schwartz.
Schwartz è morta sabato, a 97 anni, nel suo appartamento di Manhattan.
È stata una pioniera dell'uso creativo dei computer. Da artista, era partita con sculture e acquerelli, poi alla fine degli anni Sessanta aveva ottenuto una residenza ai Bell Labs, all'epoca laboratori d'avanguardia per le tecnologie informatiche. I computer di quegli anni giravano ancora grazie alle schede perforate. Schwartz usava nastri magnetici, filtri fotografici, vernici, e pattern prodotti da quei rudimentali macchinari. Continuerà per decenni a sperimentare con software e materiali, e con computer sempre più evoluti.
Negli anni Ottanta, Schwartz, forte delle sue abilità tecniche, elaborò una teoria che fece a lungo discutere: si convinse cioè che la Monna Lisa di Leonardo da Vinci ritraesse proprio Leonardo da Vinci. I due volti erano sovrapponibili. Poi la comunità degli storici dell'arte ha stabilito che le prove non erano sufficienti; i due volti, nonostante questo, sono ancora sovrapponibili.
I suoi lavori sono stato esposti al Museum of Modern Art, il Whitney Museum of American Art, il Metropolitan Museum of Art e il Festival di Cannes. Ma, come ricorda nel suo necrologio il New York Times, fu solo nel 2016, quando aveva 89 anni, che Schwartz tenne la sua prima mostra personale in una galleria a New York, al Magenta Plains nel Lower East Side.
Cosa ci piacerà per sempre delle opere di Schwartz? La giocosità delle animazioni, i colori e le forme psichedeliche dei pattern che creava. Il modo in cui ha forzato la macchina a produrre qualcosa di inaspettato e, in termini informatici, completamente vacuo. La nostalgia per un'età cibernetica fausta, che non ha mantenuto le sue promesse.
#2 DIRITTO DI NIENTE
A maggio, avevamo dedicato una MEDUSA ad Antonio Cassese, giurista e giudice, scomparso qualche anno fa. Cassese è stato il primo presidente del Tribunale penale per la ex Jugoslavia, e ha presieduto anche la Commissione d’inchiesta dell' Onu sul Darfur e il tribunale speciale per il Libano.
Avevamo riproposto un suo vecchio articolo, “Troppi genocidi senza un colpevole”. Anche se non parlava di Gaza e Palestina – era un pezzo del 2008, erano gli anni del Darfur – ci sembrava un articolo utile da rileggere oggi.
Scrivevamo di Cassese, ovviamente, partendo dall’attualità. Ci chiedevamo quale fosse lo stato di salute del diritto internazionale davanti ai crimini di guerra di Israele.
Mai come negli ultimi mesi, il diritto internazionale è sembrato così impotente, anodino, incapace di imporsi. Mai come negli ultimi mesi, il diritto internazionale è sembrato salvifico, vigoroso, reattivo. Questa è la contraddizione che viviamo. La memoria e il giudizio che avremo di questi mesi dipenderà dal modo in cui questa contraddizione verrà risolta.
Negli ultimi giorni stiamo leggendo un libro che su questi temi cerca di fare il punto: Giustizia universale? Tra gli Stati e la Corte penale internazionale: bilancio di una promessa, di Chantal Meloni. Matteo l’ha intervistata su Lucy.
Dal punto di vista del diritto la situazione è disastrosa. Il diritto internazionale umanitario, che è il corpo del diritto che regola i conflitti armati, e che quindi contiene le regole della guerra, per così dire, è stato violato in modo grave e ripetuto: sono stati registrati una quantità di crimini di guerra, in questi mesi, senza precedenti nei conflitti moderni.
E stiamo parlando di crimini gravissimi, oltre che molto estesi. Prendiamo le cose che elencava lei prima: la quantità deliberatamente alta di civili morti e di feriti gravi, il fatto che il novanta percento della popolazione di Gaza, due milioni e quattrocentomila persone, sia stata sfollata e non abbia più un posto dove andare, non abbia accesso al cibo, il fatto che manchi tutto, dall’acqua alle cure mediche, e che tutti gli aiuti umanitari siano stati bloccati o comunque fortissimamente limitati… queste sono tutte tecniche di guerra. Tecniche medioevali, qualcosa che non avremmo più dovuto vedere, e che sono chiaramente vietate da tutti gli strumenti internazionali. Ma nonostante questo, la reazione delle istituzioni non è stata sufficientemente forte.
Il diritto internazionale, quindi, ha fallito? Qui l’intervista completa.
#3 LA PLASTICA NEL CERVELLO E NEI TESTICOLI E OVUNQUE
Ogni tanto torniamo con qualche aggiornamento sulle microplastiche, e al destino nei nostri organismi contaminati dalle leghe di polimeri sintetici. Oggi vi proponiamo un lungo reportage del Guardian consigliato a chi legge l’inglese, firmato da Douglas Main.
Proviamo a raccontarne le parti salienti. Si inizia dalla novità degli ultimi mesi, emersa da uno studio del National Institutes of Health (un’agenzia del Dipartimento della Salute degli Stati Uniti) che essendo ancora in fase di peer review citeremo solo di passaggio, per passare poi agli altri, pubblicati e revisionati: sembra che il cervello, di tutti gli organi campionati, sia “uno dei tessuti più inquinati dalla plastica”. Si parla di grammi di plastica nel cervello.
L’articolo raccoglie testimonianze di varia lunghezza e precisione da parte di diversi specialisti del settore, compresa Bethanie Carney Almroth, ecotossicologa dell'Università di Göteborg, che rispetto alla situazione emersa negli ultimi anni dichiara: “It’s scary”, fa paura, è spaventosa.
Nel lavoro giornalistico di Main si può in effetti leggere un crescendo obiettivamente preoccupante, che infila le informazioni raccolte da una serie di studi realizzati per la prima volta. C’è quindi lo studio sui campioni di midollo osseo, dove dei 16 campioni esaminati (NB qui e più avanti: in questi studi non si tratta di milioni di individui, ma di numeri contenuti) tutti – nessuno escluso – contengono tracce di polistirene, e quasi tutti di polietilene, “utilizzato negli involucri per alimenti, nei flaconi dei detersivi e in altri prodotti per la casa”.
Poi c’è quello sui 45 pazienti sottoposti a interventi all’anca o al ginocchio, a Pechino, dove sono state rilevate “microplastiche nel rivestimento membranoso di ogni singola articolazione dell'anca o del ginocchio esaminata”.
Il 15 maggio Toxicological Sciences (Oxford) ha rilevato microplastiche nella totalità dei 23 testicoli umani e 47 testicoli canini analizzati ad hoc, scoprendo che “i campioni provenienti dagli esseri umani avevano una concentrazione quasi tripla rispetto a quelli dei cani”. Nel caso dei cani, all’aumento delle particelle di polietilene sembra corrispondere un peso inferiore dei testicoli.
Nel frattempo, un’equipe cinese pubblicava uno studio che mostra piccole quantità di microplastiche nello sperma di 40 campioni analizzati (il 100% dei partecipanti). Una ricerca italiana del 2023 ha rilevato invece 6 campioni positivi su 10.
Il 19 giugno uno studio dell’International Journal of Impotence Research (titolo uscito da un romanzo di DeLillo), ha rilevato la presenza di particelle di plastica nel pene di quattro uomini su cinque “sottoposti a protesi peniene per il trattamento della disfunzione erettile”.
Ranjith Ramasamy – che è ricercatore, urologo presso l'Università di Miami, e l’autore principale dello studio – si è dichiarato preoccupato per le “conseguenze a lungo termine dell'accumulo di microplastiche in tessuti sensibili come gli organi riproduttivi” (qui un articolo della BBC, tra i tanti pubblicati, sul lento declino della fertilità maschile).
Potrebbe valere la pena iniziare a parlare più seriamente delle microplastiche.
#4 COMODINO
Martedì è uscita una nuova puntata di Comodino, il podcast del Post dedicato ai libri, alla letteratura, all’editoria. A condurlo sono Ludovica Lugli e Giulia Pilotti, che ci hanno invitato a dare un breve contributo, in chiusura della puntata, intorno al rapporto tra emergenza climatica e letteratura.
Ai microfoni di Comodino, riassumendo in qualche minuto una questione molto articolata, siamo tornati di nuovo sulla letteratura italiana del dopoguerra: libri della crisi, al bivio di mondi nuovi che non verranno, indagini dello spaesamento. Abbiamo citato i soliti nomi, all’impronta. Tra i tanti non citati mancava Beppe Fenoglio, sulla cui opera abbiamo scritto finora poco o niente.
#5 LA PAGA
Una lettura di questi giorni è stata proprio La paga del sabato, di Fenoglio, la prima novella scritta dallo scrittore non ancora trentenne, e respinta all’epoca da Vittorini per questioni interne; interne si intende all’estro dell’editor, che sapeva difettare di logica.
La paga del sabato uscirà soltanto alla fine degli anni Sessanta, postumo, come buona parte della produzione di Fenoglio. È un bellissimo romanzetto senza difetti, si direbbe “di impianto neorealista” se nel caso di Fenoglio la formuletta non si facesse ancora più goffa, se non insolente; perché i posti e i tempi sono certamente un paese contadino e l’Italia del Dopoguerra, ma i personaggi e i fatti psicologici sono più grandi del contenitore, e il libro parla oggi come ieri, nel nostro mondo che non ha più niente dell’altro.
Ettore è un partigiano ventiduenne affetto dal famigerato disturbo da stress post-traumatico, solo che non sono certo anni di diagnosi e psicoterapia, e gli strumenti per curarsi la vita sono pochi e arrugginiti e affilati. Ogni conversazione con la madre, angosciata dal figlio sfaccendato che le urla come alle serve, può ugualmente portare alla tragedia, o ai baci sul collo:
Stava a cucinare al gas, lui le guardò i fianchi sformati, i piedi piatti, quando si chinava la sotttana le si sollevava dietro mostrando i grossi elastici subito sopra il ginocchio.
Ettore l’amava.
Ettore deve trovarsi qualcosa da fare, per mantenere le sigarette, la famiglia e magari la ragazza, ma in guerra ha comandato venti uomini e non può ridursi alla betoniera, o a recitare la parte del contabile nell’azienda del cioccolato. Inizia il contrabbando allora, con due soci, il boss e lo scemo. Ricattano, rubano, spacciano. Ma soltanto superata la metà del libro viene fuori cos’altro li unisce, dopotutto: qualche anno prima, quando per sopravvivere non avevano tempo per la depressione, i tre erano partigiani.
Cosa può cambiare allora, la vita di un traumatizzato?
Una domenica che si trovano senza niente da fare i tre vanno in montagna, a una commemorazione, e vi lasciamo con questo passaggio:
Quando smontarono a Valdivilla, lui aveva le orecchie piene d'onde, ma l'aria della collina glielo fece passar presto, e poté prender gusto a fumare una sigaretta. Sulla strada si girò ai quattro punti cardinali, ma non gli faceva nessun effetto ritrovarsi sulle colline della sua guerra. Se proprio si sforzava, poteva vedere sul ciglio d'una qualunque di quelle tante colline alzarsi e camminare un uomo in una strana divisa e con un'arma sottobraccio, gli rassomigliava perfettamente, ma in definitiva era un altro, e Ettore non era per interessarsi troppo a un altro. Si voltò dalla parte di Bianco e Palmo, a quei due sí che aveva fatto effetto ritrovarsi sulle colline, perché si muovevano con scatti infantili, puntavano il dito dappertutto e avevano gli occhi piccoli e lustri e Ettore poteva leggerci il barbaro sentimento che quelli erano stati tempi felici e che il destino sarebbe stato ingiusto se non gliene riservava un altro pezzo prima di morire. Ettore era impressionato per sé e per loro, si domandava come facevano quei due a non essere niente cambiati da allora mentre lui era cambiato tanto da non riconoscersi piú, cominciò a dirsi che forse era perché loro non l'avevano fatto bene il partigiano, non ci avevano messo tutto, non ci si erano esauriti, ma questa conclusione andava a rompersi contro Bianco, e allora lui la cambiò, si disse che era perché loro non avevano avuto, dopo la guerra, la persona o il fatto o il ragionamento che ci mettesse una pietra sopra. Lui aveva avuto Vanda.
La prossima settimana si aprirà a Cali la CBD COP16, la Conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità (quella sui cambiamenti climatici invece, più chiacchierata negli ultimi anni, si terrà a Baku dall'11 al 22 novembre 2024: i telegiornali la chiameranno COP29).
A metà novembre si terrà invece un vertice del G20 a Rio de Janeiro.
Colombia e Brasile sono guidati da due leader attenti alla riduzione della deforestazione, Gustavo Petro e Lula. Secondo il World Resources Institute, tra il 2022 e il 2023 il Brasile ha registrato una riduzione del 36%, la Colombia del 49%.
Entrambi i Paesi si sono impegnati a ridurre a zero la deforestazione netta entro il 2030.
Ma Petro e Lula hanno idee molto diverse sullo sfruttamento del petrolio e del gas. Petro sta rifiutando di firmare nuove licenze per l'esplorazione petrolifera e tentando – finora senza successo – di convincere altre nazioni amazzoniche a bloccare l'estrazione di combustibili fossili dalla foresta pluviale. Al contrario, Lula vuole che il Brasile espanda la sua produzione per diventare il 4° produttore mondiale di petrolio.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 422,34 ppm (parti per milione) di CO2.