TALPE
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di faraoni e bombardamenti, di Yahya Sinwar e Franz Kafka, di COP29 e Forensic Architecture.
Benvenuti, questo è il numero centosettantuno di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di faraoni e bombardamenti, di Yahya Sinwar e Franz Kafka, di COP29 e Forensic Architecture.
La città di Gaza viene menzionata per la prima volta negli annali bellici del faraone Thutmose III, inscritti nella parete del tempio di Karnak:
Anno 22, quarto mese della seconda stagione, giorno 25. [Sua maestà superò la fortezza di] Sile, nella prima campagna vittoriosa [che Sua Maestà intraprese per espandere] le frontiere dell'Egitto […] Anno 23, primo mese della terza stagione, giorno 4, il giorno della festa dell'incoronazione del re, entrato nella città “Che-il-Regnante-ha-Conquistato” Gaza (è il suo nome siriano). [Anno 23], primo mese della terza stagione, giorno 5: partenza da questo luogo […] Anno 23, primo mese della terza stagione, giorno 16, fino alla città di Yehem. [Sua Maestà] ordinò una conferenza con il suo esercito vittorioso...
Nel suo Macellerie, il giornalista Siegmund Ginzberg ipotizza che nel 1457 avanti Cristo, per difendersi dagli invasori, a Gaza si scavassero i tunnel. Se così fosse – versione su cui non ho raccolto prove definitive – i tunnel nella città “Che-il-Regnante-ha-Conquistato” sarebbero una tecnologia militare vecchia di almeno tre millenni e mezzo.
Mi interessa notare come il razzismo e il suprematismo non riescano a sopprimere alcuni tic della pratica militare, e con questo intendo che perfino in un conflitto impari come quello tra Israele e Hamas, un maggiore dell’esercito più potente e ricco – Ori Attar – di recente abbia dichiarato che i tunnel di Hamas “erano già sofisticati dieci anni fa. Ora saranno vere e proprie opere di alta ingegneria”. Lodare l’avversario glorifica il suo massacro?
Sotto la città di Gaza si diramano tunnel che diremo spartani, per i miliziani, e tunnel più curati invece, più profondi nel terreno e poco più larghi, destinati ai loro comandanti: oltre alla profondità, la differenza è che quest’ultimi sono piastrellati, come un gabinetto qualsiasi. Nascondono esplosivi telecomandati e pesanti porte d’acciaio, è vero: ma studiando la letteratura sulla rete sotterranea di Hamas “alta ingegneria” non è la prima definizione che viene in mente.
Ingegneria certo, magari non una bassa ingegneria, un’ingegneria… del sottosuolo. Nella Striscia in ventiquattro ore, nonostante i mezzi limitati e le condizioni di lavoro impossibili, possono essere scavati e rinforzati dai dieci ai quindici metri di tunnel. Grande parte delle finanze di Hamas viene destinata alla costruzione e alla manutenzione di questa rete. Yahya Sinwar, il capo di Hamas umiliato e involontariamente glorificato da quel video israeliano, dove un sessantenne mutilato, armato di un bastone, si difende da droni e carrarmati, nel 2021 aveva ricordato che sebbene il nemico dichiarasse di “avere distrutto cento chilometri di gallerie, […] i tunnel che abbiamo nella Striscia superano i cinquecento chilometri”.
È probabile. Delle città della Striscia, Rafah è la capitale dei tunnel, per motivi geografici (è asfissiata tra Egitto e Israele) e geologici (è fondata da su arenaria compatta, leggera e secca, facile da scavare) e di conseguenza socioeconomici: Eyal Weizman, il fondatore di Forensic Architecture, scrive che diverse famiglie di Rafah “detengono quasi un monopolio sul ‘mercato’ dei lavori di scavo in tutto il resto della Striscia di Gaza”.
Le bombe MK-84/GBU-31 pesano poco meno di una tonnellata, sono grosse mezzo metro e sono lunghe tre. Sono di fabbricazione statunitense e tornano utili all’esercito israeliano, grazie alla loro capacità di penetrare il terreno per dieci metri di profondità, se necessario. Questa capacità di penetrazione deriva da un intervallo, una frazione di secondo che ne ritarda l’esplosione.
L’esercito israeliano ricorre alle bombe MK-84/GBU-31 per sventrare la rete di tunnel cucita da Hamas negli ultimi quarant’anni, tunnel che si sviluppano soprattutto secondo due assi: Est-Ovest (E-O) il primo, verso il confine egiziano, e NO-SO il secondo, perpendicolare al confine israeliano.
Forensic Architecture è un collettivo di architetti, programmatori, registi, archeologi e altro che collabora con realtà come Amnesty International e Human Rights Watch.
I palazzi crollano quando scade la condizione di equilibrio: la ricerca di Forensic Architecture parte dalla forma distrutta per arrivare alle cause scatenanti. Tra gli strumenti di Eyal Weizman e i suoi collaboratori c’è la sequenza topografica, lo studio delle grandi strutture come nella scuola fotografica di Düsseldorf; qui l’analisi si concentra però sulla morte del progetto, sulle architetture sventrate e i crateri; al posto della contemplazione, il tentativo di ricostruire l’accaduto attraverso le testimonianze delle vittime e l’uso del calcolo e della modellistica.
Attraverso l’esame dei fatti, delle perizie balistiche e delle forme collassate, le persone di Forensic Architecture – attive dal 2010, su casi sparsi per tutto il pianeta, e ogni anno più impegnate – negli ultimi anni stanno mettendo in fila i crimini di guerra dell’esercito israeliano.
Nel loro lavoro a Gaza, ormai decennale, hanno imparato a riconoscere le casistiche della distruzione. Il fuoco continuo dell’artiglieria costruisce cumuli di macerie, gli esplosivi piazzati sulle colonne portanti invece trasformano i palazzi in “pancake” a strati; un’altra anti-struttura tipica viene definita Piramide di Gaza, ed è la risultante di due fattori: il bulldozer Caterpillar D9, la cui azione viene impacciata dalle pale troppo corte, e i palazzi a tre piani che tipicamente ospitano le famiglie palestinesi. Il bulldozer arriva soltanto alle colonne più esterne, che abbattute portano il tetto a collassare sui lati, lasciando così intatto il colonnato centrale.
Nella topologia elencata da Forensic Architecture trovo e quindi riconosco lo spazio dove si infila il drone che ha raccolto gli ultimi momenti di Yahya Sinwar: “quando un proiettile di carrarmato viene lanciato su un palazzo storico squarcia la facciata lasciando dei grandi buchi circolari”.
Questa dedizione per gli spazi negativi potrebbe portare odori morbosi, scadere nella pornografia del dolore. Il lavoro di Forensic Architecture invece nasce dalla prospettiva di un architetto israelo-britannico bersagliato dall’attuale governo di Israele, minacciato di morte (in occasione di una conferenza a Gerusalemme nel 2014), respinto dagli Stati Uniti: “essendo impossibile rifuggire dai nostri privilegi, scegliamo di usarli contro il regime che ce li garantisce”.
L’obiettivo di Forensic Architecture è pervertire l’uso per cui sono stati progettati “gli attrezzi del padrone” (e quindi collaborare con ex consulenti militari, esperti di munizioni e bombardamenti, di tutto quello che è detto warfare), sapendo che quegli attrezzi “magari non raderanno al suolo la casa del padrone”, ma possono farlo impazzire. Maneggiando questi attrezzi, dall’ottobre dell’anno scorso Forensic Architecture sta dettagliando l’estensione della tragedia, la violenza della carneficina e la disperazione dei civili palestinesi con un rigore che non ha paragoni nel panorama informativo.
Un esempio: se Weizman e soci hanno scoperto qualcosa sui tunnel, prima che arrivassero i reportage di quest’anno, più o meno pilotati dagli occupanti, è anche grazie ai racconti dei soldati israeliani come Eitan Fund, che nell’agosto del 2014 si è trovato a perlustrare la rete sotterranea alla ricerca di un suo pari grado, il tenente Goldin.
Fund ha descritto il tunnel come completamente buio, alto fino alla testa, rivestito di cemento e con fili elettrici che lo percorrevano in tutta la sua lunghezza. Per avanzare, i soldati hanno usato le torce elettriche e hanno iniziato a sparare in avanti. Fund ha quasi perso l'udito a causa del riverbero. Dopo ‘tre o quattrocento metri’, Fund ricorda di aver raggiunto un incrocio a T. Lì, i soldati hanno trovato tracce di sangue, insieme ad alcuni indumenti e all'equipaggiamento personale di Goldin. Due ore dopo, Fund è rientrato nel tunnel per recuperarli. La svolta a destra della T, che portava verso il confine israeliano, era bloccata da una coperta. Dietro, c'era una pila di borse militari con equipaggiamento pronto per la battaglia, cibo e acqua. Fund ha ordinato a due soldati di rimanere all'incrocio. Insieme a un altro soldato, ha iniziato poi a correre nel ramo sinistro che porta a Rafah. Ha notato un'altra biforcazione. Dopo qualche minuto, un altro gruppo di soldati è entrato nel tunnel e ha gridato loro (la radio non funzionava sottoterra) di uscire immediatamente. Fund si è quindi girato e ha iniziato a correre indietro. Secondo i suoi calcoli, l'incursione nel tunnel è durata poco più di trenta minuti. Quando è arrivato l'ordine di uscire aveva potuto percorrere meno di un terzo di un tunnel lungo duemilacinquecento metri. Goldin e i suoi rapitori erano probabilmente ancora nel tunnel, solo più avanti.
I soldati hanno lasciato il tunnel intorno alle 10:30. Alle 10:47 è iniziato il bombardamento. Le grosse bombe a scoppio microritardato (come le MK-84/GBU-31) “attraversano tutti i piani di un edificio e esplodono sotto alle loro fondamenta”. Al posto del palazzo, un enorme cratere conico.
Nel cielo invece, una nube caratteristica. Anche quella censita e archiviata dal team di Weizman, secondo i criteri di una pratica che viene definita nefoanalisi, mutuata dagli studi metereologici e applicata alle tracce delle bombe. Attraverso questa nefoanalisi è stato possibile individuare il luogo esatto dell’esplosione, e ricostruire l’accaduto grazie a delle testimonianze dirette. L’equipe di Weizman ha raccolto la testimonianza di Mohammed Abu Duba, un ragazzo uscito a cercare il padre e il fratello Munir, dopo che non erano tornati da un viaggio per recuperare gli oggetti della loro casa, vicino al campo di battaglia.
Chiamai il telefono di Munir e lo sentii squillare. Ringraziai Dio. Riconobbi la sua suoneria, era nelle vicinanze. Guardai in giro e ho visto... era stato gettato su un cavo ad alta tensione.... Se non fosse stato per la camicia, non l'avrei riconosciuto. Corsi da lui e lo staccai dal filo. Entrambi cademmo a terra. Lo guardai. Aveva il viso e la mano sinistra bruciati e tutte le dita erano tagliate, tranne una: l'indice. Lo abbracciai. Spensi il suo cellulare. Continuai a tenere mio fratello tra le braccia.
Mi chiedevo dove fosse mio padre. Mi guardai intorno e lo trovai gettato a circa sei metri di distanza, senza testa. Corsi verso mio padre, ma prima di raggiungerlo caddi e svenni. Cercavo di raggiungerlo ma non ci riuscivo. Ho chiamato aiuto ma non c'era nessuno. Ogni volta che cercavo di portarlo in braccio, cadevo. Sono caduta a terra e ho perso conoscenza. Ogni volta che mi svegliavo lo vedevo e svenivo di nuovo.... Pensavo di essere in un sogno, e che non fosse successo niente di tutto questo.
Alla tana come spazio di difesa perseguitato dalle dimensioni superiori Diego Marcon, artista che lavora con il video, ha dedicato una delle sue ultime opere. Si chiama Dolle, e nonostante la durata – mezzora circa – si aggiunge ai lavori dell’artista concepiti in forma di anello, siano loop brevi o meno. La tana è abitata da una famiglia di talpe, la scena racconta un momento intimo del suo ménage: mentre il padre e la madre fanno di conto, ossessivi e circolari, le due talpine dormono nei loro letti ben rintuzzati, protetti da lenzuola fresche e vecchie coperte di lana, ruvide quanto basta e orlate con cura.
Chi conosce la poetica di Marcon non si sorprenderà scoprendo che uno dei due figlioletti è malato. Il suo rantolo affannato, soffocante, è solo una delle minacce e dei presagi oscuri che di ogni tana sono elementi architettonici, strutturali. Sopra nel mondo qualcosa scalpiccia, ogni tanto fruga, si dibatte; la tana è lo spazio negativo della morte, e le sue pareti sono armate dall’assillo della sopravvivenza.
Ho chiesto allora a Marcon come abbia lavorato sulla costruzione di una tana, quali fossero gli elementi scenografici imprescindibili, o da evitare. “Lavorando alla scenografia avevamo in mente moltissimi degli spazi animali antropomorfizzati di decenni di rappresentazioni per bambini, dall'illustrazione al cartone animato. Abbiamo anzitutto disegnato lo spazio in bozzetti a mano, per poi iniziare a modellarlo in 3D. In dialogo con Pierluigi Laffi, il direttore della fotografia, e il reparto degli animatroni, abbiamo poi definito le dimensioni che doveva avere, in relazione sia alla cinepresa che (e soprattutto!) a quelle dei robot...”.
Dimenticavo in effetti una precisazione. Le talpe di Dolle non sono né creature CGI né fantocci animati da un attore, tipo mascotte. Sono robot programmati per ogni espressione, della dimensione di un bambino, abbandonati nella penombra. “Come avrai notato dal film, l’unica fonte di luce è una stufa accanto al letto di Babbo-Talpa, oltre al chiaro di luna che entra da una finestra ricavata dal fondo di una bottiglia. In questo modo ogni inquadratura risulta vignettata, i bordi dell'immagine – soprattutto nei campi larghi – sono immersi nell'oscurità. Questo secondo me rendeva la tana qualcosa… sottoterra, uno spazio ricavato da una materia scura, in cui accadono cose che non è dato vedere”.
Cose che non è dato vedere, la vista dopotutto può rincuorarsi di questa caratteristica: chiudi gli occhi e il mondo scompare, spegni una luce… le orecchie invece sono aperte al mondo, più difficile sabotarle, proteggersi dalle fantasie. Viene in mente l’uso del campo sonoro di Glazer nella Zona di interesse, dove il lager non viene mai mostrato davvero, solo i suoni atroci che salgono dai muraglioni. Marcon è devoto al linguaggio dell’horror, tra gli altri, e ha lavorato sulla tana come uno spazio uditivo quanto visivo. “Tutto questo nel film si traduce in un ricco uso del fuori campo, di suoni di eventi che accadono al di là dell'immagine – idealmente, al di là della tana, al di fuori della tana, sopra, sotto, attorno alla tana”. Leggi qualsiasi testimonianza degli ostaggi nascosti nei tunnel di Gaza e leggerai di esplosioni distanti, poi più vicine, pareti che tremano e scricchiolano, passi nel buio.
“Ho iniziato a leggere Kafka piuttosto tardi, il primo libro di Kafka che ho letto è stato Il castello – che ho letto quasi a trent’anni, e resta anche il mio preferito”. Parliamo di Kafka perché è stato lo stesso Marcon a portarmi alla lettura di quel racconto, “La tana”, dove l’umanotalpa parlante sviluppa nella paranoia gli spazi del suo rifugio, si arrovella, perlustra e ripercorre la teoria delle stanze che sono insieme un ricovero e un sarcofago. “Quel racconto l'ho letto poco dopo, in una raccolta della Garzanti... L'idea delle talpe che contano in una tana sottoterra mi è venuta nell'estate del 2020, mentre con Lorenzo Cianchi e Valentina Bigaran coloravamo le maschere prostetiche di un altro mio film. Avevo riletto “La tana” qualche mese prima, in primavera, perché un’amica cercava racconti con protagonisti animali e mi era tornato alla mente... Il racconto non ha quindi influenzato in maniera diretta il film, anche se sicuramente era fra i pensieri quando ho sviluppato l'idea di Dolle (come forse un po’ tutto Kafka, o Kafka in sé)”.
Non solo cunicoli e budelli, la tana kafkiana ha bisogno anche del cervello, la sala centrale dove ci si prepara all’eventuale assedio. La sala dovrebbe rispondere alla logica dell’architettura sotterranea, eppure è modellata dal corpo cieco.
Mentre tutto il resto è più un lavoro della mente concentratissima che del corpo, questa piazzaforte è il risultato del lavoro più difficile del mio corpo in tutte le sue membra. […] Per un lavoro simile però non ho che la fronte. Con la fronte quindi mille e mille volte, giorno e notte, mi sono gettato correndo contro il terreno, ero felice quando colpendolo sanguinavo, perché era una prova che la parete stava iniziando a consolidarsi e in questo modo, come forse mi si concederà, mi sono ben meritato la mia piazzaforte.
Soltanto il sangue riesce a dare la dignità che la talpa insegue a qualsiasi costo. La dignità che dà senso alla fatica spinta ogni giorno, mentre nessuno ti vede. Nel mondo di sopra, invece, quelli ti corrono sul tetto, annusano, calcolano, fanno buche.
Nel punto intermedio di questa guerra prospettica tra Israele e Hamas il piano dei civili resta schiacciato. È il piano terra, quello delle rovine, delle piramidi, dei vuoti conici. I civili attaccati a una vita di cui noi non possiamo capire niente.
È iniziata in questi giorni la COP29, che si tiene in Azerbaijan (un paese che mira ad aumentare di oltre il 30% nel prossimo decennio la propria produzione di combustibili fossili).
Sabato 16 novembre, in occasione della giornata globale “di azione per fare pressione sulla COP”, a Roma ci sarà il 1° Climate Pride, una parata nazionale per la giustizia climatica planetaria a cui hanno già aderito decine di associazioni.
La partenza è alle ore 15, da Piazza Vittorio.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 422,80 ppm (parti per milione) di CO2.