INVASIONE
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di minion e genetica, di kurgan e società matriarcali, di Marija Gimbutas e Roberto Giacobbo.
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In questo numero leggerete di minion e genetica, di kurgan e società matriarcali, di Marija Gimbutas e Roberto Giacobbo.
Questa MEDUSA è un’intervista a Luca Misculin, ed è nata dopo l’ascolto di L’invasione, un audio documentario del Post realizzato da Misculin e Riccardo Ginevra. Al centro del progetto c’è un’indagine multidisciplinare (linguistica, archeologica, genetica…) intorno alla popolazione, o ai grappoli di popolazioni che circa cinquemila anni fa si diffusero su un territorio che si estende dall’India alla Spagna. Andavano in giro a cavallo, nello sconcerto generale; delle volte razziavano, tra massacri e sequestri, altre si mescolavano in pace. Parlavano una lingua di cui non abbiamo testimonianze dirette, e che è stata chiamata protoindoeuropeo.
Il protoindoeuropeo è alla radice della maggior parte delle lingue europee. L’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo, l’islandese, il lituano, il russo, eccetera, ma anche l’indi e il farsi. Il linguaggio veicolava una idea specifica di società (guerresca, sembrerebbe, a guida patriarcale), e quindi di miti che ricalcavano i valori di chi li tramandava. Come racconta L’invasione, addentrandosi in qualche incursione filologica, miti che sono sopravvissuti ai giorni nostri, sviluppandosi lungo i binari paralleli di culture che oggi ci sembrano nettamente distinte.
L’invasione l’hanno fatta delle popolazioni che parlavano un’altra lingua, vivevano altre usanze e si sono mescolate a chi c’era, e questo lungo processo è diventato noi, che facciamo le fotografie alle epoche e pensiamo di essere alla fine di qualcosa; e questo succede per le solite distorsioni di scala, che ci danno tanti affanni.
Nel nostro progetto non ci interessano le classifiche, non ne parliamo. Celebrare i risultati dell’Invasione diventerà allora l’eccezione alla regola. Vederlo per settimane in cima, tra i programmi più ascoltati in Italia, tra le interviste ai casi umani e i racconti di ammazzatine, ci ha fatto piacere.
Dalla concezione dell’idea alla realizzazione del progetto, quanto tempo è passato? Quali sono stati gli ostacoli principali?
Quasi due anni! L’idea mi era venuta poco dopo l’uscita del primo podcast di divulgazione storica a cui ho lavorato al Post, La fine del mondo. Ne parlai a Francesco Costa, che allora era il responsabile della redazione podcast, e mi diede il via libera. Poi però fra una cosa e l’altra sono stato assorbito da altre cose: nel 2021 lavoravo ancora a Colonne, la nostra newsletter su Milano, l’anno dopo ci sono state le elezioni politiche (e anche in quel caso ho curato una newsletter, 25/9). Nel 2023 poi sono salito sulla Geo Barents per il podcast La nave, sono stato in giro per reportage e altri viaggi di lavoro, e ho iniziato a sostituire saltuariamente Francesco dentro Morning. In tutto questo continuo ogni giorno a fare lavoro di redazione. L’ostacolo principale insomma è stato trovare il periodo giusto per concentrarmi quasi solo su questo. C’era poi un’altra difficoltà, almeno inizialmente.
Mentre la Fine del mondo aveva un taglio più archeologico, su cui bene o male me la sono cavata – alla triennale ho studiato lettere antiche, ma con un curriculum storico-archeologico – all’Invasione sapevo di non poterci lavorare da solo. A meno di prendermi, boh, sei mesi completamente sganciato dal lavoro di redazione? Al Post mi avrebbero ucciso. Con Riccardo ci conoscevamo dai tempi dell’università, lo ricordavo come un tipo brillante nonché decisamente più preparato di me sulla linguistica. Infatti oggi è diventato uno dei più talentuosi ricercatori nel suo campo: senza di lui questo podcast non sarebbe mai nato. Soprattutto nei primi mesi è stato piuttosto frustrante, per me, creare una base di conoscenze necessaria per scrivere con cognizione di causa di una vicenda umana enorme: ho dovuto riprendere nozioni di linguistica, archeologia, mitologia, storia e genetica che avevo studiato solo in parte una decina di anni fa. Mi capitava di sfogliare un paper e capire una parola su tre di quelle che leggevo. Riccardo è stato fondamentale nell’indirizzarmi verso i testi più rilevanti e attuali, e a fare fact checking di tutto quello che mettevamo insieme man mano. Fino al giorno prima che uscisse L’invasione non avevo idea di come sarebbe andato. Ma ero abbastanza sicuro del fatto che nessuno avrebbe potuto criticarci da un punto di vista accademico e scientifico.
Quale esclusione, nelle vostre ricerche, vi è pesata di più? Ci sono diverse letture, anche molto affascinanti, che avete dovuto escludere. Penso a Graeber e alle società matriarcali, ipotesi conturbanti ma non sempre salde. Immagino che abbiate discusso parecchio intorno alla presenza delle ricerche di Marija Gimbutas, per esempio; come presentarla e come ponderare il suo contributo.
Sì, abbiamo discusso parecchio di come parlare degli studi di Gimbutas. Da un lato le sue intuizioni sui kurgan, i mucchietti di terra che nascondevano singole tombe preistoriche fra Russia e Ucraina, si sono rivelate corrette e quasi premonitrici: a un certo punto c’era quasi solo lei, una ragazza lituana sopravvissuta al periodo sovietico e alla dominazione nazista, profuga con due figli piccoli, a sostenere che quelle tombe ospitassero persone che parlavano protoindoeuropeo. Dall’altro la sua tesi super affascinante di una società matriarcale e quasi egualitaria spazzata via dall’arrivo di malvagi uomini a cavallo oggi è stata molto ridimensionata. Spero che nel podcast si sia sentito, questo sforzo di dare a Gimbutas ciò che è di Gimbutas, nel bene e nel male.
Prima di mettermi a scrivere L’invasione ho letto Graeber, e sono rimasto fulminato, come credo sia capitato a quasi tutti. Nella scrittura del podcast ho cercato di integrare il suo approccio, più che le teorie che ci ho trovato. Soprattutto quello di dare dignità a tutte le persone di cui abbiamo parlato nel podcast, senza giudizi, senza gerarchie particolari. Una della tare più evidenti nella (poca) divulgazione storica che si fa in Italia credo sia proprio questo: parliamo soltanto di Impero romano, di Rinascimento, dell’età dei comuni e delle repubbliche marinare. Che incidentalmente sono i periodi che più titillano il nostro orgoglio nazionalista. Basta passare davanti alla vetrina di una libreria per accorgersene. Del resto l’ultimo libro di Aldo Cazzullo si intitola Quando eravamo i padroni del mondo. Eppure esistono un sacco di storie notevoli e rilevanti ancora oggi per capire quello che ci sta succedendo che aspettano soltanto di essere raccontate. Soprattutto, mi viene da dire, lontano dai periodi più esplorati.
Ho notato che avete fatto ricorso a molti ospiti stranieri. C’è una penuria di ricercatori in Italia, o è una coincidenza dovuta alle pubblicazioni e alle fonti?
In Italia ci sono pochissime persone che si occupano di questi temi, quasi solo archeologi e archeologhe, oltre a qualche genetista. Più in generale quasi nessuno prova a integrare prospettive diverse: nel gruppo di lavoro che si appoggia alle università di Copenhagen e Gothenburg per esempio ci sono archeologi, linguisti, genetisti, e lo scambio è continuo. Gli altri due poli più rilevanti sono il David Reich Lab dell’università di Harvard, guidato dal più celebre genetista che ha lavorato sul DNA antico (Reich appunto), e il Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, a Lipsia. Entrambi impiegano figure diverse, proprio perché per scendere in profondità siamo in un campo in cui bisogna avere una infarinatura di ambiti anche molto diversi dal proprio.
Nelle università italiane, come sapete, un approccio del genere è piuttosto raro e si lavora spesso a compartimenti stagni, o come minion di un singolo luminare. Nelle università anglosassoni poi ci sono molti più punti di contatto fra l’accademia e la divulgazione. Da noi la fa quasi solo Alessandro Barbero, che però mi sembra un unicum, per tante ragioni, e fra l’altro è stato a lungo osteggiato dai colleghi proprio perché ha sempre fatto tante conferenze non accademiche. Laggiù la divulgazione la si insegna anche in università: anche ai ricercatori più giovani, per esempio, viene insegnato come parlare con i giornalisti e come rendere una conferenza più interessante e divulgativa. Negli ultimi mesi ho scoperto un piccolo podcast di interviste a classicisti britannici e statunitensi, Toldinstone, ed è impressionante ascoltare quanto gli ospiti intervistati siano abili dal punto di vista divulgativo. Non sbrodolano, non si impappinano, non danno niente per scontato, non parlano in maniera assertiva come se fossero gli unici depositari di un sapere arcano, sono trasparenti riguardo quello che sanno e non sanno. Qui in Italia mi pare che l’assenza di voci autorevoli ma anche capaci di arrivare a tutti, nel dibattito pubblico, lasci campo libero ai ciarlatani. Non è un caso che nel Regno Unito la divulgazione sulla storia antica la faccia Mary Beard, mentre qui ha imperversato per anni Roberto Giacobbo.
Se L’invasione fosse stato un video documentario, dove avresti trascorso più tempo?
È una bellissima domanda. Mesi fa mi sono chiesto se avesse senso andare fisicamente in alcuni posti di cui parliamo, per arricchire il podcast con altri suoni, qualche descrizione in più, o delle parti più “calde”. Poi abbiamo scartato l’ipotesi, che avrebbe allungato di molto i tempi e forse non avrebbe aggiunto così tanto. Se L’invasione avesse preso una forma video mi sarebbe piaciuto mostrare com’è fatta la steppa eurasiatica: abbiamo provato a descriverla più volte, anche con dei riferimenti visivi, ma non sono sicuro che si sia capito che è un posto sostanzialmente inospitale per la presenza umana, tranne che per piccoli gruppi di pastori nomadi che avevano dei carri come case e vivevano di quello che trovavano e di quello che gli davano le loro bestie. E che proprio quella condizione, per una serie di coincidenze anche un po’ estemporanee, diede loro un vantaggio competitivo rispetto ai cosiddetti “antichi agricoltori europei”. Sarebbe stato molto interessante far vedere come sono fatti i kurgan, ma anche i vasi campaniformi o quelli fatti con le cordicelle.
Ma alla fine rimango convinto che il formato del podcast sia stato il migliore possibile per un racconto del genere, per varie ragioni. Soprattutto per il fatto che si basa in gran parte sulla lingua. Ascoltare parole che uscivano dalla bocca di persone vissute migliaia di anni fa è al contempo potente, evocativo ma anche importante per chi vuole riflettere sulla lingua che parliamo oggi, che penso siano più di quelli che crediamo. E poi spinge l’ascoltatore o l’ascoltatrice a fare un passo in più, a completare quello che sente lasciando andare l’immaginazione. Mi piace insomma che oltre a essere solido dal punto di vista scientifico – soprattutto grazie a Riccardo, che ha fatto un grande lavoro – sia anche un progetto con delle qualità eteree.
L’invasione riflette e si interroga sul significato di origine, provenienza, migrazione, identità culturale. Considerata l’ampiezza del pubblico raggiunto, qual è stata la ricezione, da questo punto di vista?
Ancora adesso non sono sicuro che si sia capito che L’invasione in fondo parla di migrazione, di persone che si spostano per cercare una vita migliore, di come sono state accolte e delle relazioni che sono riuscite a stringere con le persone che c’erano già, in un pezzetto di mondo che conosciamo bene. Ma penso anche che forse non è giusto dargli una definizione così ristretta, e che ciascuno possa tenersi stretto il pezzo che lo ha più incuriosito o stimolato: ad alcuni saranno piaciute soprattutto le parti in cui parliamo di mitologia – che abbiamo cercato di scrivere in modo che fossero il più lontane possibile dai podcast che oggi parlano di mitologia greca come se fosse un enorme oroscopo. Ho avuto diversi feedback positivi sulla quarta puntata, quasi tutta sulla genetica, e va benissimo così.
Forse la più preziosa, anche per me. Come accennavi prima, nel vostro lavoro vi siete barcamenati tra tante discipline, specialmente linguistica, archeologia e genetica appunto. Nel momento della scrittura, qual è stata la strategia adatta a sistematizzare queste linee di ricerca?
Abbiamo lavorato tanto sul linguaggio e sulla struttura delle puntate. Quando provi a fare divulgazione il confine fra sintesi e banalizzazione è sempre sottile. Abbiamo cercato di non dare niente per scontato, esattamente come facciamo ogni giorno sul Post, ma senza rinunciare a scendere in profondità: è possibile che la prima puntata abbia scremato il pubblico che forse si aspettava un podcast meno “tecnico”, e più in linea con i prodotti divulgativi sulla storia antica che circolano oggi. Misteri misteriosi, poche parole specialistiche, molta azione. Comprensibile, nel senso che forse potevamo essere più bravi e rendere ancora più accattivanti e quindi più digeribili la prima e la seconda puntata (sono quelle che hanno richiesto più lavoro, in termini di tempo, per avviare il racconto senza appesantire troppo). Ma complessivamente sono abbastanza soddisfatto. Credo esista una linea al di sotto della quale le vicende complesse finiscano per essere diluite, per quanto tu sia bravo e autorevole nel raccontarle: su questo forse sono salafita ma credo per esempio che le spiegazioni frontali di due minuti su Instagram sull’inflazione, sui ribelli Houthi o sulla deforestazione in Amazzonia, senza nessun link, senza nessuno strumento per approfondire uscendo da Instagram, stiano facendo più male che bene al nostro dibattito pubblico.
L’invasione non è il tuo primo podcast, e neanche il primo a carattere divulgativo. Come sta influenzando il tuo lavoro di giornalista, questo ruolo di divulgatore?
Forse è tutto nella mia testa, ma vedo una certa continuità con le cose più strettamente giornalistiche che faccio, dall’edizione del weekend di Morning basata sui giornali europei, alle trasferte in giro per l’Europa, passando per un lavoro che cerco di portare avanti da qualche anno sulla migrazione (che emerge solo d’estate, per via della situazione contingente nel Mediterraneo, ma prosegue anche quando fa più freddo). In fondo sia nel mio lavoro di tutti i giorni sia quando mi capita di fare divulgazione storica parlo di persone, delle cose che fanno, del modo in cui queste vicende si inseriscono in un contesto più ampio e influenzano e incrociano la nostra vita quotidiana. In entrambi i casi poi, il mio obiettivo rimane quello di dare più strumenti possibili a chi legge o ascolta per conoscere il mondo che ci circonda. Nel breve-medio termine prenderò una mezza aspettativa per iniziare a scrivere un libro che mi porterà via tanto tempo, credo: non vedo l’ora di studiare e di vedere i posti di cui vorrei scrivere. Poi ci saranno le elezioni europee, e subito dopo mi aspetta un’estate piena di eventi in giro.
Per quanto riguarda i podcast ho in mente due idee. A una delle due tengo particolarmente e mi piacerebbe uscisse nel 2025. Non riguarda la storia antica né la migrazione, ma un periodo e una vicenda italiana che da anni penso sia raccontata in maniera superficiale. Spero di trovare il tempo di lavorarci, in mezzo a tutto il resto.
Secondo un report di Altraeconomia, le nuove auto messe in vendita nell’Unione europea si allargano in media di 1 centimetro ogni 2 anni.
Nel 2018 la larghezza media era di 177,8 centimetri: nel 2023 ha raggiunto i 180,3 centimetrii.
Nel 2010 i SUV pesavano per circa il 9% sul totale delle vendite delle 6 maggiori case automobilistiche europee.
Nel 2022 questa percentuale è salita al 47%.
Secondo il Vias Institute di Bruxelles, a un aumento di 10 centimetri dell’altezza del frontale dei veicoli coinvolti in incidenti con pedoni o ciclisti corrisponde un aumento del 30% della mortalità.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 422,07 ppm (parti per milione) di CO2.