SCANDALO
di MEDUSA. In questo numero leggerete di topi atipici, di menzogne a pagamento e pillole di cianuro, di produttori di film chimici e cinematografici.
Benvenuti, questo è il numero centocinquantasette di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di topi atipici, di menzogne a pagamento e pillole di cianuro, di produttori di film chimici e cinematografici.
#1 TETRAPALLE
Forse conoscete già la favola del topo con un enorme pene e quattro testicoli. A febbraio di quest'anno, sulla rivista Frontiers in Cell and Developmental Biology, è uscito un articolo scritto da tre ricercatori dell'Hong Hui Hospital e della Jiaotong University in Cina. Titolo: “Cellular functions of spermatogonial stem cells in relation to JAK/STAT signaling pathway”. Immagini allegate, queste:
Tenete a mente che non si tratta di rielaborazioni artistiche o illustrazioni divulgative: sono immagini di un paper scientifico, che dovrebbero quindi "parlare", mostrare qualcosa di importante, se non decisivo, e che sono state pubblicate su una rivista peer review (revisione dei pari, il principale metodo di controllo di qualità scientifica nato ormai centinaia di anni fa e che si sta dimostrando sempre più inadeguato a giudicare la qualità delle ricerche che vengono sottoposte oggi a scrutinio; è un discorso lungo, che riguarda anche il libero accesso alla conoscenza scientifica: vi lasciamo qualche link, alcuni articoli e approfondimenti).
Le fattezze priapiche e deformi del topo sono accompagnate da alcune didascalie incomprensibili: “testtomcels”, “diƨlocttal stem ells”, “iollotte sserotgomar cell”.
L'avrete capito, l'immagine è stata generata da un'intelligenza artificiale. Da Midjourney, in particolare, come d'altra parte viene chiarito anche nelle note dell'articolo. Evidentemente, ai ricercatori è sembrata una cosa normale illustrare il proprio lavoro con dei disegni senza senso. Nel paper ci sono anche altre illustrazioni che ricordano una miscela di Luigi Serafini e Rick&Morty: meno comiche, forse, ma non meno inappropiate e prive di significato:
Come è possibile che un lavoro di questo genere sia stato 1. pensato 2. eseguito 3. rivisto 4. approvato? è quello che si è chiesta la comunità scientifica nell'ultimo mese e mezzo. Ma un primo indizio è arrivato subito. È bastato controllare l’editore: le riviste del gruppo Frontiers Media pubblicano, secondo Nautilus, il 90% di quello che gli viene proposto, in maniera indiscriminata. Basta pagarli.
Secondo molti giornalisti di settore, quello di FM è ormai puro predatory publishing: un "modello di business" (o associazione a delinquere?) che prevede la pubblicazione (sotto compenso, appunto) di articoli scientifici su riviste specialistiche che però non forniscono la qualità e il controllo che un vero editore scientifico dovrebbe garantire. (Che le accuse a FM siano giustificate o meno possiamo dire che comunque, quando più della metà della tua pagina Wikipedia è dedicata al capitoletto "Controversies", forse è il momento di prendersi una pausa di riflessione).
L'immagine del topo è girata così tanto e così velocemente che ha costretto la rivista a ritirare in fretta l'articolo. Ma non è un caso isolato: l'intelligenza artificiale si è ormai infiltrata nel mondo accademico in profondità. La settimana scorsa, qualcuno su Twitter si è accorto che un articolo apparso sulla ben più rinomata ScienceDirect – il database online di pubblicazioni scientifiche pubblicato dal gigante editoriale Elsevier – iniziava con delle parole molto familiari a chi usa ChatGPT:
"Certainly, here is a possibile introduction to your topic:"
Una ricerca su Google Scholar mostra che le impronte dell'AI appaiono in decine di ricerche: ricorrono cioè in molti articoli di medicina, biologia, psicologia frasi come "As an AI language model..." oppure "to my last knowledge up to September 2021..." oppure "regenerate response" – le tipiche soluzioni con cui ChatGPT e altri modelli di AI condiscono i propri testi quando gli si chiede di elaborarne uno.
Quindi, riassumendo: sempre più ricercatori usano l'intelligenza artificiale per scrivere parte del o tutto il proprio articolo, testi che, così costruiti, potrebbero non avere alcuna validità e legittimità scientifica perché, proprio come l'immagine di quel topo, anche i contenuti testuali generati da un’intelligenza artificiale sono – per ora inestricabilmente – pieni di errori fattuali, soprattutto quando si tratta di conoscenze altamente tecniche. Non solo questi testi non sono stati scritti da nessun essere umano, però: nessuno sembra neanche averli controllati, depurati, minimamente editati perché contengono, appunto, ancora i tic tipici dei generatori AI, frasi che sono state lasciate lì, per sciatteria, distrazione o per fretta, e di cui neanche i ricercatori esterni deputati al controllo di qualità dei paper né gli editor delle riviste si sono accorti.
Qui un altro esempio, sempre da Science Direct:
D'altra parte, il mondo dell'accademia è ormai da tempo schiacciato dall'imperativo publish or perish, dal precariato, dalla mancanza di tutele. E da metodi di valutazione incongrui, e da tempi e modi di pubblicazione punitivi (qui alcune interviste raccolte dal manifesto, due anni fa).
È un problema molto ampio, e l'uso dell'AI è solo un sintomo. In questi mesi, per esempio, la comunità scientifica sta cercando di venire a patti con quello che Nature ha chiamato "Lo scandalo della superconduttività": si è scoperto che uno dei laboratori di fisica più in vista e più promettenti al mondo produceva documenti, ricerche, articoli non riproducibili. In questi giorni molti dei loro lavori sono stati ritirati.
I team leader, a quanto sembra dalle prime indagini, chiedevano risultati a tutti i costi ai laureandi e ai post-doc del laboratorio, spingendoli a nascondere dettagli chiave degli esperimenti e facendo pressioni su tutti affinché pubblicassero dati, indipendentemente dai dubbi che potevano avere.
Scandali del genere sembrano sempre più frequenti, conseguenza naturale di un sistema estrattivo che divora le risorse, il tempo, la salute dei ricercatori. Per questo buona parte della comunità scientifica chiede nuovi modi di conoscenza, di ricerca, di pubblicazione, di diffusione.
Nel frattempo, il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire, e in questo chiaroscuro nascono topi mostruosi.
#2 L’INVENTORE DEL PRESENTE
Ecco un’idea per uno di quei libri che vanno bene e poi diventano un film a grosso budget, se siete dei produttori scriveteci pure.
La DuPont è un'azienda chimica fondata a Wilmington (nel Delaware) all’inizio dell’Ottocento da Eleuthère Irénée du Pont, un allievo di Antoine Lavoisier fuggito dalla Francia rivoluzionaria. Nel primo secolo della sua esistenza DuPont prospera vendendo polvere da sparo, nitroglicerina, TNT e altri composti mortiferi che si usano nelle guerre.
Nel 1928 viene assunto un chimico che si chiama Wallace Carothers. È un chimico che ricade nella casistica del genio novecentesco ormai caricaturale, quelli incorniciati negli altarini dei docenti, alla Oppenheimer, Alan Turing, eccetera.
Carothers, già da giovane, era depresso. Nell’orologio teneva nascosta una capsula di cianuro di potassio, per ogni evenienza. Nelle lettere che manda agli amici, Carothers non nasconde nulla della sua condizione, con quella lucidità e autoanalisi spietata che è propria delle coscienze severe: all’università – nonostante le sue crisi – non c’era poi nulla che gli mancava, ma la DuPont gli offre uno stipendio surreale, raddoppiandogli la paga. Accetta a malincuore e si trasferisce nel Delaware, già prefigurando il disagio che gli porterà l’aspetto performativo del suo nuovo lavoro, l’obbligo delle pubbliche relazioni.
Carothers e la sua squadra di ricercatori decidono di concentrarsi sulla ricerca di nuovi polimeri (semplificazione estrema) e arrivano presto ai primi risultati, come il cloroprene, la base del più noto neoprene: un materiale che utilizziamo in qualsiasi ambito, dalle mute subacquee agli strumenti musicali agli stivali. Arrivano presto altre scoperte, sempre maturate nell’affanno e nel torpore del chimico, che sembra infilare una scelta sbagliata dopo un’altra: abbandona l’appartamento dove convive con alcuni colleghi, che per qualche motivo a lui ignaro riescono a godersi il prestigio e i benefici della loro posizione, e compra una casa per i genitori, e ci si trasferisce. Dopo pochi mesi, l’atmosfera in casa si fa pesante.
Intanto, nei laboratori della DuPont, Carothers e gli altri scoprono la possibilità di nuovi materiali. Nel 1935, insieme a Gerard Berchet e George Graves (e collaboratrici e collaboratori i cui nomi non ci hanno raggiunto) arriva alla sintesi di un nuovo materiale, il nylon. Non c’è più bisogno della seta naturale, e si possono inventare mondi che prima non esistevano. Alcuni osservatori arrivano a dire che l’intervento americano sul fronte europeo della Seconda Guerra Mondiale, così massiccio, è stato reso possibile anche dalla progettazione di migliaia e migliaia di paracadute di nylon. Dal nylon, nel giro di pochi anni, si arriverà ad altri prodotti, tutti brevettati e di proprietà di DuPont:
– il Mylar che poi diventerà più noto come PET. La bottiglia PET è stata brevettata da DuPont nel 1973.
– la Lycra delle calze
– il Kevlar che rinforza i mezzi militari e i giubotti antiproiettile
– il Teflon delle padelle antiaderenti (memorizzare questa informazione: la sua struttura è simile a quella dei PFAS)
– tantissimi altri neologismi sconosciuti ai profani, ma che ci circondano in ogni aspetto della vita quotidiana.
L’enorme, mostruoso guadagno che DuPont raccoglierà nei decenni successivi si basa sulle visioni di un chimico gravemente depresso, angosciato dalla traduzione del lavoro accademico in risultati commerciali. Il 1937 inizia con la morte di sua sorella, l’evento lo strazia. A fine aprile Carothers si chiude in una stanza di hotel, con la sua pillola e un limone, per accelerarne l’azione. Sette mesi dopo la compagna partorisce il loro primo figlio.
# 3 I PFAS, LE MICROPLASTICHE, LA PLACENTA E NOI
Alcune di queste informazioni le ho raccolte da una newsletter che si chiama The Polymerist, il progetto un chimico che si chiama Tony Maiorana. Da bravo chimico, di recente anche Maiorana si è dedicato al ritorno di una storia che ci aveva colpito per ovvie ragioni (finora gli avevamo dedicato soltanto la CABALA di qualche numero fa): sono emersi nuovi risultati inquietanti intorno alla questione delle microplastiche che fanno ormai parte dei nostri organismi.
Per chi se la fosse persa, iniziamo da un riassunto della situazione. Tutto è iniziato nel 2020, con la pubblicazione dei risultati di una ricerca italiana che segnalava la presenza di microplastiche nella placenta di 4 partorienti. All’inizio di quest’anno invece una ricerca pubblicata su Toxicological Sciences ha analizzato 62 campioni di placenta umana, e la presenza di microplastiche è stata rilevata in tutti i campioni. Le concentrazioni del materiale vanno dai 6,5 ai 790 microgrammi per grammo di tessuto: dopo il polietilene, il PVC e il nylon sono le plastiche più comuni nei campioni analizzati. Secondo Matthew Campen (University of New Mexico), che ha condotto la ricerca, la crescente concentrazione di microplastiche nei tessuti umani potrebbe spiegare l'aumento di alcuni problemi di salute, tra cui le malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD), il cancro al colon nelle persone sotto i 50 anni e la diminuzione del numero di spermatozoi. Nel 2021 uno studio di Environmental Science & Technology ha rilevato che le persone affette da IBD presentavano, rispetto alla media di microplastiche nelle feci, quantità superiori al 50% dei campioni di soggetti non–IBD.
Ecco, parliamo di alcuni effetti delle microplastiche sulla salute. Nelle ultime settimane si è diffusa la notizia di nuovi studi, sempre di mano italiana, sull’effetto delle microplastiche nel sistema circolatorio. Quindi titoli come: Le microplastiche sono arrivate nelle nostre arterie, oppure Microplastiche, ora sono anche nelle arterie, ma anche Scoperta plastica anche nel grasso delle arterie ostruite: rischio di infarto, ictus e morte.
Prima di tutto: non sono titoli così assurdi. Sono stati scoperti dei minuscoli pezzi di plastica nelle nostre arterie, e a dire il vero anche nel latte materno, nei tessuti polmonari ed epatici, nell’urina, nelle feci e nel sangue. È un fatto. Ma quali sono i rischi effettivi? A questa domanda purtroppo non possiamo ancora rispondere.
Nella sua newsletter, Maiorana (che ricordiamo non essere un medico, ma un chimico) ha condiviso alcune riflessioni sull’entità dei dati presentati dalla ricerca. L’obiettivo non è certo sminuire l’effetto della scoperta, che è angosciante e tetra, ma cercare di dare una dimensione alla faccenda:
Partiamo dai numeri, li prendiamo dal pezzo di Wired:
I ricercatori hanno coinvolto 257 pazienti sottoposti a endoarteriectomia per malattia asintomatica dell'arteria carotidea (vaso che porta il sangue al cervello), una procedura nella quale sono state rimosse le placche aterosclerotiche, ossia i depositi di grasso nelle arterie, e successivamente esaminate con un microscopio elettronico per cercare la presenza di micro e nano plastiche. Dalle analisi, i ricercatori hanno osservato che più della metà dei pazienti aveva depositi di grasso contaminati con minuscole particelle di polietilene e cloruro di polivinile, Pvc, tipologie di plastica molto comuni, utilizzate per i sacchetti, contenitori per cibi e bevande. Nel dettaglio, il polietilene è stato rilevato nella placca dell'arteria carotide in 150 pazienti (il 58% circa), mentre il Pvc in 31 pazienti (12% circa).
Ecco, a quale massa corrispondono queste particelle di PVC e altre plastiche? Citiamo da The Polymerist:
I risultati principali dello studio hanno mostrato che il 58% sottoposti ad analisi presentava 21,7 ±24,5 μg di polietilene per milligrammo di placca. Significa che circa il 2% della placca era costituita da polietilene nel 58% della popolazione dello studio. Inoltre, il 12% dei partecipanti presentava 5,2 ±2,4 μg di cloruro di polivinile per milligrammo di placca. Questo significa che circa lo 0,5% della placca era costituito da cloruro di polivinile nel 12% della popolazione analizzata.
Per quanto il paper evidenzi che i soggetti che presentano queste sostanze nelle arterie possano incontrare rischi maggiori rispetto a chi non le presenta, gli autori stessi dello studio ricordano che i loro risultati non collegano direttamente le micro e le nanoplastiche alla causa di infarti o ictus: “è importante notare che i nostri risultati non provano la causalità”.
Continueremo a informarci su questa storia. Per chi è interessato e vuole approfondire, un libro che vi consigliamo è La plastica dentro di noi di Antonio Ragusa.
La prima banca dati completa sulle materie plastiche – PlastChem, ideata da un gruppo di ricercatori norvegesi e svizzeri – ha catalogato 16.000 sostanze chimiche.
L’anno scorso, un rapporto ambientale delle Nazioni Unite aveva stimato che esistessero “soltanto” 13.000 sostanze chimiche associate alla plastica.
Secondo le stime a disposizione, oggi i tassi di riciclaggio della plastica a livello mondiale non superano il 9%.
Scomponendo questa percentuale si scopre che in realtà è il 15% dei rifiuti plastici a venir raccolto per essere riciclato, ma che il 40% di questo 15% viene comunque scartato dal processo di riciclo a causa della sua bassa qualità.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 426,16 ppm (parti per milione) di CO2.