UMANITÀ
di MEDUSA. In questo numero leggerete di ICC e ICJ, di Gaza e diritto internazionale, di Roma e Berlino, innocenza e carneficine.
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In questo numero leggerete di ICC e ICJ, di Gaza e diritto internazionale, di Roma e Berlino, innocenza e carneficine.
Venerdì scorso la Corte internazionale di giustizia (ICJ), il più importante tribunale delle Nazioni Unite, ha ordinato a Israele di fermare l’attacco alla città di Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza che non era ancora stata invasa. Israele ha continuato il suo attacco.
Dieci giorni fa Karim Khan, il procuratore capo della Corte penale internazionale (ICC), il principale tribunale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, ha chiesto alla Corte di emettere un mandato di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, per il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, per il leader di Hamas nella Striscia, Yahya Sinwar, per il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, e per il capo delle brigate al Qassam, l’ala armata di Hamas a Gaza, Mohammed Deif.
Stando alle dichiarazioni di Khan, le accuse contro Hamas includono: sterminio, omicidio, presa di ostaggi, stupro e violenza sessuale durante la detenzione degli ostaggi. Le accuse contro Netanyahu e Gallant includono: l’aver provocato lo sterminio, l’aver usato la fame come metodo di guerra, compreso il rifiuto delle forniture di aiuti umanitari e l’aver deliberatamente preso di mira i civili durante un conflitto.
Gli Stati Uniti hanno subito definito la richiesta "oltraggiosa", rifiutando qualsiasi equivalenza fra il governo di Israele e Hamas, e sgonfiando il peso politico della mossa di Khan.
Israele è stata accusata, da molti, di avere compiuto atti di genocidio contro i palestinesi di Gaza. Dal punto di vista giuridico, la differenza tra sterminio e genocidio è complessa. Dopo mesi di dibattiti, oggi, come riporta Il Post, “diversi giuristi ritengono che la questione non sia completamente infondata: nel diritto internazionale, comunque, il crimine di genocidio ha caratteristiche specifiche e stringenti ed è molto difficile provarlo in un tribunale internazionale”. Nel frattempo Israele continua a considerare la sua campagna militare una legittima difesa.
Mai come negli ultimi mesi, il diritto internazionale è sembrato così impotente, anodino, incapace di imporsi. Mai come negli ultimi mesi, il diritto internazionale è sembrato salvifico, vigoroso, reattivo. Questa è la contraddizione che viviamo. La memoria e il giudizio che avremo di questi mesi dipenderà dal modo in cui questa contraddizione verrà risolta.
La Corte penale internazionale si è stabilita in Italia nel 1998: il trattato che l'ha istituita è chiamato lo "Statuto di Roma". Antonio Cassese, giurista e giudice, è stato uno dei primi e più accesi promotori dell'ICC. È stato il primo presidente del Tribunale penale per la ex Jugoslavia. Ha presieduto la Commissione d' inchiesta dell' Onu sul Darfur e il tribunale speciale per il Libano.
È morto a 74 anni nel 2011. Ha scritto molti libri, accademici o divulgativi, sui diritti umani e sul diritto internazionale. Collaborava con Repubblica. Nell'archivio del giornale si ritrovano ancora molti suoi articoli di quindici anni fa sulla necessità di uno Stato palestinese. Sempre su Repubblica, Cassese era molto citato da Adriano Sofri, che di questi temi, da altre prospettive e con altre visioni, si è sempre occupato. Quando è morto, Sofri ha ricordato Cassese come una persona che aveva voluto conoscere il male, “uscendo dal proprio mestiere di studioso e di professore, che non aveva mai abbandonato, a Firenze soprattutto, e alla Sorbona, a Oxford, alla Columbia di New York. Nomi illustri di università mescolati a quelli degli inferni di cui la terra è disseminata, il Cile e la Bosnia, il Darfur e la Cambogia”.
Cassese era convinto che l'umanità non fosse innocente, al contrario: l'uomo come gli altri animali è sensibile all' odore del sangue e cede all’entusiasmo della carneficina – scriveva Sofri, citandolo – perché il rifiuto dell'idea di fare del male agli altri è solo una sottile pellicola sulla coscienza dell'umanità.
Il suo amico Danilo Zolo, allievo di Bobbio, gli rinfacciava di essere stato a volte troppo indulgente con gli Stati Uniti, e meno vicino al mondo arabo e a quello latinoamericano di quanto avrebbe invece potuto essere. Gli riconosceva però di essere stato un realista e uno studioso rigoroso. Senza essere un estremista Cassese è stato un pensatore radicale: le sue idee e il suo lavoro hanno, per molti versi, rivoluzionato il mondo del diritto.
Negli ultimi mesi abbiamo recuperato alcuni articoli e libri di Cassese. Ve ne proponiamo uno, qui sotto: è un editoriale lucido, del 2008, pubblicato su Repubblica, in questo caso non parla di Palestina – erano gli anni del Darfur –, ma è un articolo che mette in prospettiva una serie di fatti e di eventi storici che è ancora utile leggere oggi.
TROPPI GENOCIDI SENZA UN COLPEVOLE
Da che mondo è mondo gli uomini si sono massacrati impunemente. Come diceva Belli, «cco le vite sce se ggiuca a palla/ come se quela puttana de la morte/nun vienissi da lei senza scercalla».
Per secoli la comunità degli Stati ha taciuto, fatta com'era di sovrani indipendenti, ciascuno interessato solo a perseguire gli interessi del proprio paese, e libero di trattare i propri sudditi a proprio piacimento: poteva rispettarli o massacrarli; era affar suo, e nessuno poteva obiettare alcunché. Perciò, quando nel 1904-5 la Germania sterminò un intero gruppo etnico, gli Herrero, in una delle sue colonie (il Sudovest africano, oggi Namibia) nessun altro Stato batté ciglio. Un barlume di indignazione collettiva appare nel 1915. Gli armeni erano stati ripetutamente sterminati nell' Impero Ottomano. Ma nel 1915, nel corso della Prima Guerra Mondiale, la loro quasi totalità era stata deportata, spogliata dei suoi beni e lasciata morire di stenti o massacrata.
Tre Grandi Potenze (la Russia, la Francia e la Gran Bretagna) inviarono una nota di protesta veemente in cui per la prima volta nella storia parlarono di «crimini contro l' umanità» e per la prima volta nella storia minacciarono di perseguire penalmente i leader e gli altri organi dell' Impero che si fossero macchiati di quei crimini. Ma fu un intervento interessato: l' Impero Ottomano era un belligerante nemico già moribondo, le cui ricchissime spoglie facevano gola agli occidentali, e inoltre le vittime erano cristiani sterminati da musulmani. Furono minacce verbali senza grande seguito. Certo, su pressione inglese gli stessi Ottomani tennero nel 1919-20 ben 63 processi contro gli autori di quei crimini, ma i pesci grossi nel frattempo erano scappati a Berlino. Soprattutto, le Grandi Potenze occidentali erano troppo prese dalla spartizione dell' enorme Impero per occuparsi di quei crimini. L' arrivo di Kemal Ataturk mise una pietra su tutto. La mancanza di qualsiasi reazione forte sembrò legittimare altri e più gravi eccidi. Non dimentichiamo una cosa: all' epoca, nella comunità mondiale nessun imperativo giuridico internazionale limitava la libertà assoluta di ciascuno Stato al proprio interno.
Direte: ma che facevano i giuristi? Si occupavano di cose «concrete» (trattati commerciali, mare territoriale, immunità diplomatiche). Quei pochi che si arrovellavano su cose più alte, come il greco Politis, erano in fondo «mandriani di pallide nebbie». La frase che Hitler avrebbe pronunciato il 22 agosto 1939 alla riunione di Obersalzberg dei vertici militari tedeschi, per giustificare la persecuzione degli ebrei («Chi ricorda oggi il massacro degli Armeni?»), vera o falsa che sia, ben rispecchia la mentalità imperante nella comunità internazionale tra le due Guerre Mondiali: massacra pure, tanto nessuno te ne chiede conto. Le cose cambiano con la svolta impressa da Roosevelt al secondo dopoguerra. Nel 1945 si decide di punire i leader nazisti anche per «crimini contro l' umanità» e nel 1946 il Tribunale di Norimberga pronuncia varie condanne contro i nazisti colpevoli della «persecuzione» degli ebrei. Quell'orribile sterminio viene ora considerato un «crimine contro l' umanità» ma punito solo in quanto collegato alla guerra, solo cioè perché perpetrato nel corso della violenza bellica. Nel 1948 ci si rende però conto che il deliberato annientamento di interi gruppi umani è - «qualitativamente» - qualcosa di più che un omicidio di massa. È un nuovo fenomeno in cui sull' antica propensione distruttiva degli uomini si innestano due fattori recenti: il nazionalismo e l' organizzazione burocratica dello Stato moderno. Ci si appropria allora di nuova parola, «genocidio», coniata nel 1944 da un ebreo polacco, Lemkin, per denotare questa nuova criminalità. E si adotta la Convenzione sul genocidio.
Si crea così un nuovo armamentario giuridico per combattere contro chi, per fanatismo nazionalistico-ideologico-religioso, intende uccidere esseri umani solo perché sono nati all' interno di un gruppo discriminato (come dirà nel 1999 un tribunale tedesco nel caso Jorgic, nel genocidio «la vittima non viene colpita come essere umano, ma solo come membro di un gruppo da perseguitare»). Nel 1948 si fa anche un' altra cosa importante: si slega il genocidio dalla guerra e lo si condanna anche se commesso in tempo di pace. Tutto risolto, dunque? No. La Convenzione è piena di ombre e di lacune. Ne indico una sola. Nel 1948 l' ONU diede per scontato che in futuro nessuno Stato come tale si sarebbe macchiato di genocidio, perché quel crimine era suscettibile di essere commesso solo da singoli individui od organi statali. Si obbligò dunque gli Stati a prevenire e punire il genocidio perpetrato da privati o da organi statali (anche di vertice), dimenticandosi di obbligare anche gli Stati a non macchiarsi essi stessi - come apparati di governo di quel crimine. Con la conseguenza, assai ingenua, di demandare il compito di punire il genocidio ai tribunali dello Stato in cui il crimine sia stato commesso - ignorando che i giudici non puniscono i propri leader politici e militari per crimini siffatti.
Sono passati da allora sessanta anni: nessun tribunale statale ha punito i leader nazionali. E la Convenzione è stata applicata tra Stati solo l' anno scorso, quando la Corte internazionale dell' Aja ha condannato la Serbia per il massacro di Srebrenica (ma solo per aver omesso di «prevenire» il genocidio perpetrato da Mladic). Per fortuna le cose vanno meglio a livello internazionale penale: sia il nuovo Tribunale penale dell' Aja sia quello del Ruanda hanno processato e punito decine di leader militari e politici per atti di genocidio nell' ex Jugoslavia e in Ruanda. Ma ciò non basta. Tanto più che si assiste a due fenomeni opposti e sconcertanti. Da una parte la parola «genocidio» è stata svuotata del suo significato specifico, per denotare qualunque omicidio di massa. È diventata una parola «passe-partout», una «parola magica» usata ed abusata nella falsa credenza che, designando essa il massimo disvalore, basti evocarla per far scattare la reazione della comunità organizzata: è stata usata a torto da Sartre nel 1966 a proposito della guerra statunitense in Vietnam, da molti storici a proposito dei misfatti dei Khmer Rossi in Cambogia (1975-79), nel «processo» a Ceausescu nel 1989 e in quello, celebrato dall' Etiopia in contumacia nel 2007, contro Mengistu; e Bush e Powell si sono illusi che, pronunciandola, si ponesse fine agli eccidi del Darfur.
Dall'altra, si è creato un complesso armamentario giuridico internazionale, fatto di divieti rigorosi per impedire ai Governi di sterminare gruppi nazionali, etnici e religiosi. Ora abbiamo «le parole per dirlo» e gli strumenti formali e istituzionali per lottare contro il genocidio ed altri massacri. Ma quegli imperativi non riescono a calarsi nella realtà, come ben dimostra il Darfur. Dobbiamo dunque disperare? Non dimentichiamo che la comunità internazionale attuale poggia su una grande contraddizione: i Cinque Grandi detentori del potere di veto nel Consiglio di sicurezza dell' ONU e delegati a tutelare la pace e l' ordine internazionale sono anche i maggiori produttori ed esportatori di armi nel mondo: con una mano sollecitano la pace, con l' altra fomentano le guerre. Così, appena ci sono in gioco interessi strategici, energetici o geopolitici di uno dei Cinque Grandi, gli stermini continuano indisturbati. E gli Stati preferiscono costruire muri per separare gruppi nazionali, etnici e religiosi, invece di gettare ponti per unirli. Per non perdersi d' animo occorre puntare sulla società civile internazionale: che continui ad indignarsi e a protestare contro gli stermini.
Sulle morti a Gaza non ci sono ancora numeri certi. Le stime più attendibili, fornite dal Ministero della salute e confermate da organi indipendenti, parlano di 35.000 morti.
10.000 persone sarebbero disperse sotto le macerie.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 427,03 ppm (parti per milione) di CO2.