LEGNETTI
di MEDUSA. In questo numero leggerete di droni biologici e daiquiri, di lungotermisti e sfollati, di basso e batteria, violenza e squallore.
Benvenuti, questo è il numero centocinquantaquattro di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di droni biologici e daiquiri, di lungotermisti e sfollati, di basso e batteria, violenza e squallore.
#1 IL GUAIO DEL FUTURO È CHE ARRIVA SEMPRE
Il lungotermismo è una filosofia relativamente nuova. Negli ultimi anni va molto di moda tra le élite dei multimilionari, e ormai anche in diverse istituzioni filantropiche e governi. Sarebbe meglio dire che è un credo, una nuova fede, anche se di spirituale non ha nulla.
Il cuore del lungotermismo – scrive Irene Doda– "può essere riassunto così: cioè che è fondamentale, oggi, è compiere passi affinché il potenziale dell'umanità nel tempo che le resta sulla Terra sia espresso al massimo, e affinché più persone possibili (non solo tra quelle viventi oggi, ma anche tra quelle non ancora nate) beneficino di tale potenziale".
Sembra una proposizione dall'inattacabile buon senso anche nel suo evidente antropocentrismo: al netto di pochi nichilisti, chi altri potrebbe mai dichiararsi, in fondo, contrario al miglior futuro possibile per l'umanità sul pianeta Terra? E invece la piccola banale formula del lungotermismo, portata alle sue estreme conseguenze, reiterata, riproiettata e riapplicata mille volte, diventa ottusa. E pericolosa.
Doda ha appena pubblicato un breve saggio all'argomento: L'utopia dei miliardari.
Vi rimandiamo alla sua lettura per scoprire tutti i paradossi della filosofia lungotermista, un delirio di onnipotenza che vuole interpretare le volontà dell'umanità come fosse un blocco unico, una dottrina che dice di volerci salvare – ma solo se per "noi" siamo disposti a intendere "loro" – una visione volontariamente apolitica della realtà che ignora i veri problemi contemporanei, il collasso ambientale, le sperequazioni economiche. Doda analizza e smonta il lungotermismo, e allarga efficacemente lo sguardo su altri temi cercando le tracce di un futuro alternativo.
Dobbiamo [occuparci del futuro] trasformando in primis il presente: cambiando le carte in tavola, a partire dal nostro stesso sguardo. Possiamo essere tentati di fronte alle sfide attuali, non solo politiche ma anche intime e personali, di aggrapparci a ideologie salvifiche o parareligiose. Ma queste non sono che una facciata di comodo perché nulla cambi davvero.
#2 BASSO E BATTERIA
Su The Italian Review abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con il collettivo Montag attorno alle scritture a più mani. Nel nostro libro – un saggio narrativo sul posto dell'essere umano nel mondo, per tentare una sinossi – abbiamo usato la prima persona singolare, un io collettivo che univa le nostre due voci in una sola. È un esperimento che ripetiamo ogni tanto anche nella newsletter. Quelli di Montag credono nella mente alveare ancora più di noi: si lanciano, per esempio, in tecniche spericolate come la composizione online simultanea a distanza per comporre i loro racconti (e il romanzo a cui stanno lavorando).
Non poteva esserci un interlocutore migliore allora per ragionare sul senso di questo progetto che, dopo sette anni e un libro, ci ritroviamo spesso a mettere in discussione:
Se un collettivo è uno spazio in cui bisogna negoziare le scelte, le decisioni, i rapporti che si creano, il linguaggio che si adopera per interfacciarsi col mondo, se questa negoziazione è alla base del progetto, allora siamo un collettivo.
Montag ci ha pazientemente ascoltato in questa seduta di autoanalisi, mentre cercavamo di riflettere sul senso di una newsletter come la nostra, che è partita per essere un progetto di giornalismo culturale ed è diventata subito imprendibile e stizzosa: con gli anni abbiamo abbandonato sempre di più la vena divulgativa e dato sfogo a quella più narrativa; negli ultimi numeri della newsletter abbiamo sostanzialmente deciso di abbandonare ogni formato e di pubblicare quello, di volta in volta, ci va di scrivere.
MONTAG: È vero che nella newsletter c’è sempre più materiale narrativo, soprattutto dopo l’uscita del libro. E quindi volevamo farvi questa domanda, puramente speculativa: un romanzo MEDUSA avrebbe senso per voi?
MEDUSA: Ci pensiamo dall’inizio. Abbiamo già in mente di lavorare a un romanzo (o dei racconti) MEDUSA, ma in realtà vorremmo prima o poi fare anche un altro libro, un altro saggio ibrido, quindi vediamo cosa succederà. Idealmente, se avessimo tutto il tempo del mondo, entrambi subito!
Il resto della conversazione si trova qui.
#3 LA VIOLENZA INVISIBILE
Nei primi anni del progetto ci siamo trovati, non di rado, a esplorare l’invisibile. Perché non tutti gli attributi dell’emergenza ambientale sono chiassosi, non sempre si suda, si evita lo schianto: la distruzione può seguire strategie invisibili, e alcune delle più gravi eco-catastrofi si sono mosse senza farsi vedere.
In questo numero del 2019 ci eravamo dedicati a Chernobyl’, la serie HBO, cercando di ricostruire le tante voci che si erano espresse sulla ricostruzione televisiva. Ci soffermavamo anche sulle conseguenze per la fauna locale, spesso sottovalutate: cavalli, cinghiali, alci, volpi e lupi “hanno meno paura delle radiazioni che degli esseri umani, e le popolazioni selvatiche prosperano. In parte è un’illusione: molti di questi animali hanno cicli di vita più brevi dei nostri e gli effetti nefasti delle radiazioni sono in qualche modo meno evidenti, ma questo non significa che i singoli esemplari non risentano dell’ambiente nocivo”.
Nella flora e nella fauna dell’area, scrivevamo, si registrano mutazioni e aberrazioni morfologiche indotte dall’esposizione (tra queste: albinismo, tumori e lieve microcefalia). Le deformazioni, quantomeno, si vedono. Nel caso delle renne novergesi invece, diventate una minaccia esistenziale da un giorno all’altro, a migliaia di chilometri da Chernobyl’, qualcosa non tornava:
Nel nostro lavoro con le renne noi Saami abbiamo dovuto affrontare molte situazioni difficili, ma abbiamo sempre trovato una soluzione nel corso degli anni. […] Finora siamo riusciti a risolvere tutti questi problemi perché sono difficoltà che possiamo vedere con i nostri occhi.
Sono le parole di un pastore settantenne, Tomas Renberg, intervistato in I Saami della Lapponia all’ombra di Chernobyl, un documentario introvabile realizzato dall’antropologo Georg Henriksen e diretto da Peter Carr.
Le renne, dalle quali dipende la vita dei pastori, vanno abbattute perché si cibano dei licheni pregni del cesio radioattivo che si è disteso sulla valle norvegese di Brurskanken. I Saami hanno dato un nome alla contaminazione: il nemico invisibile.
Tutto questo per aggiungere che stiamo trovando Violenza invisibile, un saggio di Adriano Zamperini uscito nella PBE di Einaudi, una lettura importante.
Una crisi indotta dai propri simili può risultare maggiormente traumatica, rispetto a un cataclisma, in ragione delle sue implicazioni relazionali e collettive. La natura non minaccia l'immagine sociale e il profilo assiologico degli esseri umani. Mentre l'errore, la negligenza e il dolo sí. Perché si inscrivono, in negativo, all'interno di una comunità caratterizzata da compiti condivisi e dalla realizzazione di un piano culturale. Il risultato è un'incrinatura del benessere psicosociale sovente non adeguatamente considerata. Provo a rimediare.
Le persone vivono la contaminazione dell'acqua, del suolo e dell'aria in un contesto carico di incertezza. E ne sono spaventate in modi nuovi e speciali. Essere lentamente avvelenati è psicologicamente un'esperienza molto diversa dal venir danneggiati o feriti da elementi tradizionali, tipo il crollo del soffitto dopo una scossa di terremoto. Si può dire che la prima vittima dell'esposizione tossica è il sé. Gettato in una condizione di alienazione.
Qui intesa non in relazione a ciò che il sé fa o cerca di fare di se stesso. Piuttosto, a «come» riesce a determinare e generare ciò che è o potrebbe essere. La mia vita mi è propria quando sono in grado di governarla e condurla sulla base di soggettivi desideri, a loro volta diretti verso il mondo.
#4 UN DRONE FATTO DI LEGNETTI
Nel tweet, che risale all’ottobre del 2022, viene detto che si tratta di un’arma yemenita. Riguardo a questa informazione, il video non presenta delle prove inconfutabili.
#5 SE TU FOSSI DI GHIACCIO
Troppo spesso ci dimentichiamo di ricondividere i link e le storie che ci mandate. In questo caso ci scrive m., che salutiamo e ringraziamo:
Mi sono capitate sotto mano due simpatiche storie dalla fine del mondo - e per simpatiche intendo terrificanti. Un imprenditore groenlandese ha iniziato a prelevare pezzi di ghiaccio dagli iceberg artici per spedirli via cargo a Dubai, dove vengono lavorati e usati come cubetti per i cocktail negli alberghi di lusso. 19 giorni, 9 mila miglia nautiche (ma hey l’azienda è green!) per far vivere l’esperienza dei ghiacciai millenari dell’antartide nel cuore del deserto. E tutto questo semplicemente sorseggiando un delizioso daiquiri.
Bene. L’altro link è questo, acquedilusso.it:
Acque di lusso ottenute da iceberg, dalle nebbie che avvolgono le isole canarie - chissà che alcune non provengano dalla guazza delle foglie luccicanti della foresta amazzonica, alcune da collezione - con la precisazione “non bere”, idrosommelier, “dimmi che acqua bevi e mi svelerai il tuo patrimonio”.
Traduciamo e mettiamo in fila dei dati raccolti dall’ultimo report del Council on Foreign Relations, il think tank statunitense composto da 4.900 tra legislatori, politici, segretari di Stato, direttori della CIA, banchieri, avvocati, professori universitari e giornalisti.
La Striscia di Gaza è un piccolo territorio di circa 139 miglia quadrate [360 chilometri quadrati: due volte la città di Milano, meno di un quarto di Roma] che stava già vivendo una grave crisi umanitaria a causa di un blocco di 16 anni da parte di Israele. Prima dello scorso ottobre, nella Striscia vivevano 2,3 milioni di persone.
Più della metà degli abitanti di Gaza dipende dall'assistenza internazionale per i servizi di base. Per questo, circa l'80% dei residenti di Gaza sono considerati rifugiati secondo il diritto internazionale: i palestinesi costituiscono la più grande comunità di apolidi al mondo.
In risposta agli attacchi di Hamas dello scorso 7 ottobre – circa 1.200 vittime e 240 ostaggi –, la rappresaglia israeliana, arrivati a febbraio, ha ucciso 27.748 persone [Fonte: Nazioni Unite], e ne ha ferite più di 66.800, secondo il Ministero della Sanità di Gaza gestito da Hamas. (Queste cifre non hanno potuto essere verificate in modo indipendente, ma anche fonti esterne hanno riportato numeri simili).
Sono stati uccisi anche più di 120 giornalisti e operatori dei media, oltre a più di 150 dipendenti delle Nazioni Unite, il numero più alto di operatori umanitari uccisi in qualsiasi conflitto nella storia delle Nazioni Unite.
I bombardamenti aerei di Israele hanno demolito quartieri, scuole e moschee; le immagini satellitari analizzate dalle Nazioni Unite mostrano che circa il 30% delle strutture totali di Gaza sono state distrutte o danneggiate. (Un’analisi delle immagini satellitari effettuata dalla BBC indica un numero più alto, tra il 50 e il 61%).
Le opzioni di rifugio per gli abitanti di Gaza sono estremamente limitate. A gennaio, circa il 75% degli oltre due milioni di abitanti del territorio sono stati sfollati. Centinaia di migliaia di palestinesi sono fuggiti dai bombardamenti ammassandosi nella città meridionale di Rafah, ora la città più popolosa della Striscia. Tuttavia, il ministro della Difesa israeliano ha annunciato che l'esercito israeliano intende espandere la sua campagna di terra a Rafah. “Ue, Usa e Regno Unito chiedono a Netanyahu di desistere da un'operazione su larga scala senza tutela per i civili nella città al confine chiuso con l'Egitto. Tajani: sproporzionata la reazione di Tel Aviv” [secondo un’agenzia battuta ieri].
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 423,52 ppm (parti per milione) di CO2.