INTRUSA
di MEDUSA. In questo numero leggerete di antenati impigliati e case distrutte, di vecchie e nuove guerre, di tutti e diecimila.
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In questo numero leggerete di antenati impigliati e case distrutte, di vecchie e nuove guerre, di tutti e diecimila.
Katja Petrowskaja era un’autrice di Adelphi già prima di scrivere la sua prima riga. Nata a Kiev nel 1970, cresce ucraina in una famiglia di insegnanti sopravvissuta a una storia di migrazione e diaspora, a cavallo tra Impero Asburgico e Unione Sovietica, filantropia utopica e repressione sistematica. Laureatasi a Mosca con una tesi su Vladislav Chodasevič (il cui Necropoli in una certa misura si riflette sulla ricerca letteraria dell’autrice), Petrowskaja si trasferisce a Berlino nel 1999.
Quindici anni dopo, attraverso l’uso di un tedesco imperfetto la sua storia familiare è diventata la materia letteraria di Forse Esther, l’esordio del 2014, la ricostruzione vaga delle sue origini tra Polonia e Austria, Russia e Ucraina, tra l’identità ebraica e la mutilazione di questa (prova urlante ne è il suo cognome, russificato in tempi rivoluzionari); un esordio che nel giro di pochi mesi la inserisce tra le voci più interessanti dell’ultimo decennio.
Avevo pensato bastasse raccontare di quelle poche persone che per caso erano miei parenti, e già avremmo avuto in pugno l'intero ventesimo secolo. Alcuni, nella mia famiglia, erano nati per seguire la propria vocazione, mossi da una fede limpida, ancorché inespressa: riparare il mondo. Altri erano come caduti dal cielo, mai che mettessero radici, correvano in lungo e in largo, sfiorando appena la terra, e restavano sospesi in aria come una domanda, come un paracadutista rimasto impigliato fra i rami di un albero. Nella mia famiglia c'era di tutto, avevo pensato inorgoglita, un contadino, parecchi insegnanti, un agente provocatore, un fisico e un poeta, ma in particolare c'erano dei leggende.
A Forse Esther è seguito il suo secondo libro, La foto mi guardava. Una raccolta di immagini trovate, celebri o autoprodotte, che insiste sugli stessi archi del romanzo autobiografico: l’identità apolide, l’amore nelle terre dimenticate, la nostalgia di case distrutte.
“Sto imparando l'italiano”, ci ha detto prima di iniziare la nostra conversazione in una delle cinque lingue che parla e scrive. “Ho iniziato con due poesie di Cesare Pavese, le avevo lette in russo e poi con il testo a fronte, ho iniziato da lì, ma è più semplice con le poesie, capisci le parole, parola per parola… per i romanzi invece non sono ancora pronta”. L’intervista si è tenuta in un momento di quiete della terza edizione di 2084, il Festival della scuola di scrittura Belleville, a cui abbiamo collaborato nella costruzione del programma.
Qual è la tua routine di scrittrice?
Beh, ho scritto solo due libri, purtroppo, non è ancora abbastanza per capire davvero qual è la mia routine. Ancora non so qual è il mio equilibrio tra disciplina e ispirazione. Posso dirvi una cosa però: odio la parola "ispirazione". Per me è piuttosto un barlume di qualcosa che si accende. Come se sentissi la connessione con qualcosa, un'idea, un'immagine. E se perdi quel momento non lo recuperi. Ma non mi piace parlare di ispirazione, è una connessione, piuttosto: di colpo avverti un'altra temperatura, ti accorgi che le cose si agglutinano insieme, e poi si sciolgono. È un po' come l'amore.
E la disciplina?
Ne ho poca. Mia figlia ha paura del lavoro, non ha voglia di lavorare. Una volta le ho chiesto perché, mi ha risposto“"perché ti ho sempre vista andare nel panico, quando dovevi farlo”. Ed è così, in effetti per anni ho scritto dei pezzi per un quotidiano, avevo una mia rubrica in cui raccontavo ogni volta una foto, una volta ogni tre settimane. Collezionando questi testi è nato l'ultimo libro.
Ogni volta aspettavo quattordici giorni, lasciavo che la scadenza si avvicinasse, e solo all'ultimo mi chiudevo a lavorare. Nel panico sceglievo una foto, ma ero sempre in ritardo. Alla vigilia della consegna cadevo in una forte depressione. E poi arrivavo all'ultimo giorno con istinti suicidi. Era sempre così. Ancora oggi, quando sono giù, chiamo una mia amica che mi prende in giro: “è ancora depressione, o sei già nella fase suicida?” [ride].
E quando consegnavo il testo pensavo sempre che fosse orribile, che mi avrebbero licenziato. Ora lo racconto così, in maniera divertita, fumettistica, ma in realtà è un processo davvero doloroso, sporco, a volte disgustoso. È proprio come fare la biancheria. Il mio processo di scrittura è qualcosa che non voglio mostrare alle persone.
A proposito del peso psicologico della scrittura: il tuo esordio, ancora più del secondo libro, è un lavoro intimo, dove racconti le tue vicende familiari, ricostruisci il tuo albero genealogico, che era un rimosso della tua famiglia – ed era molto intricato. È stato un processo doloroso. Dopo aver pubblicato il libro l’hai portato in giro per il mondo, e il libro ha venduto bene, ha vinto molti premi. Così ti sei ritrovata con decine di sconosciuti che parlavano delle tue storie familiari, che te le ri-raccontavano, che te le spiegavano, le interpretavano. Come ti ha fatto sentire? È stato strano? Ha avuto un impatto su di te?
È stato molto strano. La scrittura è una questione molto intima, per me. Quando scrivo sono sola. Certo, parlavo con amici, mandavo loro delle pagine. Ma fare il salto dopo la pubblicazione, dalla solitudine della stanza ai palchi dei teatri, è straniante. Leggere ad alta voce dei brani del libro, per esempio.
E questo successo mi ha ferito, in una certa maniera. Lo so. Io vorrei solo lavorare in silenzio. Allo stesso tempo, non posso non riconoscere che è stata una cosa straordinaria. Perché non c’è solo il successo di per sé. C’è anche l'accettazione. Mi sono sentita accettata.
Forse Esther per molti è una storia familiare. Ma per me è stato molto di più di questo, è stato un viaggio spirituale, un percorso. Per questo, per esempio, una delle cose che mi ferivano di più era quando qualcuno cercava di ridurre il libro, o la mia identità, a una sola frase, a una piccola citazione, quando la mia identità era nel processo, nel libro intero, nella formazione del libro. Scrivere non è come fare una foto, andare nella camera oscura, accendere la luce e vedere cosa ne viene fuori.
Per me il successo di Forse Esther è stato una esperienza ambivalente, sul piano emotivo. Perché in fondo io stessa non so ancora se sono una scrittrice, e ora che i miei figli sono cresciuti, e mi sono separata da mio marito dopo trent’anni, me lo chiedo ancora di più: cosa sono? Sono davvero una scrittrice? E per rispondere a questa domanda sento che c'è bisogno di un grande coraggio.
Alla fine ho capito una cosa. Sento che come scrittrice ho bisogno di uno scudo, mi nascondo dietro le cose. Nel primo libro ho usato il mio retaggio culturale, la storia dei miei avi. Quella era la mia autodifesa. Nel secondo libro ho usato le foto come scudo. Ho scritto partendo dalle foto, ma mi sono resa conto che, anche qui, in realtà mi stavo nascondendo. Stavo cercando qualcosa che mi permettesse di essere scrittrice. Ho bisogno di questo. Il prossimo libro, e lo sto scrivendo già da due anni e mezzo, sarà sulla guerra in Ucraina.
A proposito di corazze e difese, in Forse Esther scrivi che il tuo incontro con il tedesco è stato “come liberare un uccellino dalla gabbia”.
In realtà è una citazione di Puskin. Ho scelto il tedesco ed è stato liberatorio, sì. Ed è stato molto, molto divertente. Il mio libro è una sorta di libro tradotto in tedesco ma senza l'originale, perché l'originale non è mai esistito. È come se fosse una traccia stereo in tedesco e in russo, simultaneamente. Anche se il russo è sottotraccia. E questo ha creato, nel testo, un grande numero di citazioni e rimandi nascosti.
Il tedesco per me era assolutamente necessario. Raccontavo una storia ebreo-sovietica, quindi il tedesco era la lingua della parte opposta, la “lingua nemica”. E visto che, almeno in parte, è un libro sulla perdita, ho capito, in maniera intuitiva, che avrei dovuto perdere la mia lingua madre per poterlo scrivere. È una cosa molto biblica, quasi profetica, difficile da spiegare.
La cosa strana è che poi questa vibrazione è rimasta nel libro, ci arriva chiara anche dalla traduzione italiana.
Grazie. Questo anche perché ho avuto fortuna con i traduttori. In inglese, per esempio, sono stata tradotta da gente che aveva tradotto Thomas Bernhard, Sebald, Musil, e così è come se anche tutte queste voci fossero entrate nel mio libro, e questo è stato un grande regalo.
Cosa leggevi, nei primi tempi, quando studiavi il tedesco?
In effetti sono state letture interessanti, leggevo Peter Bichsel, che è uno scrittore svizzero assurdo, e c’era questa storia, Kindergeschichten, “Storie per bambini”, un libro incredibile. Bichsel segue una sintassi molto semplice ma le sequenze sono totalmente assurde. C’era un racconto che si chiamava L'America non esiste, “Amerika gibt es nicht”, me lo ricordo ancora. E penso che, in realtà, quando si tocca una lingua straniera, si è sempre in questa situazione bambinesca, di passaggio.
Credo di avere scritto Forse Esther in questa sorta di assurdo stato d'animo adolescenziale. Ero in Germania già da dodici anni, ma ero ancora una specie di adolescente che non riusciva ad accettare l'ingiustizia del mondo, la brutalità, la violenza. Questa sorta di intonazione vagamente ingenua è stata quindi rafforzata dalla lingua in cui mi stavo addentrando. E c'erano molti, molti altri conti in sospeso con il tedesco, perché la mia famiglia – e l’ho scritto nel libro – una parte della mia famiglia insegnava ai bambini sordomuti.
Quindi è come se questo linguaggio emergesse dal mutismo. Ecco, nella lingua russa немецкий [“tedesco”, ndA] significa “muto”. Ed è davvero pazzesco. Scrivendo il libro non ci avevo mai pensato, ma una volta concluso me ne sono accorta.
Stai pensando a qualche altro modo di sperimentare con le lingue? Magari scriverai in italiano tra qualche anno?
Non lo so. Certo è interessante, perché la lingua non è solo una possibilità, ma anche una limitazione. Anche la poesia nasce da questa limitazione, perché attraverso il ritmo e la rima la poesia cerca di distinguersi dal linguaggio quotidiano. Stabilisce una regola.
E così, quando si entra in un'altra lingua, si è sempre consapevoli delle allitterazioni, delle stranezze, quelle connessioni improvvise di suoni e sensi che di solito i parlanti non sentono più, solo i poeti e i bambini... Ecco, questo tipo di sorpresa.
E no, non ho mai pensato di scrivere in italiano. Penso che gli scrittori italiani possano stare tranquilli [ride].
In Forse Esther parli del tuo bisnonno, di tua nonna, e c’è questa foto memorabile, di loro con i bambini orfani che seguivano giorno per giorno. Ci è venuto in mente Tolstoj, sai, i suoi progetti pedagogici, la scuola elementare a Jasnaya Poljana che avrebbe dovuto gestire insieme alla sua famiglia. La scuola parte bene anche se poi, nel giro di qualche anno, Tolstoj si stufa. Ecco, capitava mai che nella tua famiglia di insegnanti e pedagogisti si parlasse dell’esperienza tolstojana?
No, mio padre era un filologo, vengo da una famiglia di storici e filologi… quello che voglio dire è che parlavamo di tutto. Si parlava sicuramente di Tolstoj ma non in questa prospettiva. Mia mia madre era una ammiratrice di Janusz Korczak, che andò con i suoi bambini mano nella mano verso il campo di concentramento, e che era il fondatore dell'orfanotrofio di Varsavia.
La mia tesi di laurea è stata seguita anche da Andrei Zorin, che ora insegna a Oxford, e che ha scritto un’incredibile biografia di Tolstoj, una delle migliori. È stata pubblicata in inglese e in russo qualche anno fa. Sono solo 200 pagine e, ripeto, è incredibile. È un libro che in realtà parla di autoeducazione, di questo bambino aristocratico e viziato consapevole del suo talento...
In realtà però non è vero che non abbia avuto successo, come educatore. Ha destinato un’incredibile quantità di denaro nell’educazione dei suoi ex schiavi.
Sì, certo. Parlare di Tolstoj significa parlare di contraddizioni.
Di continue contraddizioni. Certo, i suoi libri per bambini e gli ultimi racconti e favole sono parecchio moraliste, e sul profilo letterario non valgono un granché. Anche Cechov ha cercato di combattere lo schiavo che era in lui, alla ricerca di una sua forma di moralità; ecco, forse Tolstoj ha esagerato un poco. Ma la sua più grande opera è proprio di quel periodo, ed è Chadži-Murat.
Dall’invasione russa dell’Ucraina hai iniziato a scrivere spesso di questo argomento (anzi, i primi articoli fotografici risalgono all’epoca di Maidan). Ecco, non di rado ci capita di scrivere di guerre, di emergenza climatica e altre crisi da una prospettiva che potremmo definire letteraria. E ci troviamo spesso a riflettere sul ruolo di chi scrive di fronte a qualcosa di più grande, di incommensurabile. Sappiamo che rispetto alle crisi (politiche e sociali) di cui scrivi sei molto attiva, anche in prima persona. Come scrittrice, come ti senti di fronte a questa situazione? Vorresti fare di più?
Tutte le guerre nascono da una menzogna. Con una sorta di abuso verbale che chiamiamo propaganda. È un abuso totale. Come quando, per esempio, gli ucraini vengono incolpati di essere fascisti.
Tutto cambia, in continuazione, e le parole vanno di pari passo con gli eventi. Ricordo che all'inizio della guerra, nelle prime sei settimane, si viveva una situazione incredibile. Percepivi come le parole cercassero di influenzare l’equilibrio dei poteri. Dopo sei settimane invece, potevi già sentire in azione le leggi della Storia. Non per questo smettevo di difendere il mio Paese.
Sono un’ucraina che parla russo. Ho scritto una tesi di laurea sulla letteratura russa a Mosca, conosco la lingua e la letteratura russa un po' meglio di Putin. Ed è qualcosa che, per quanto mi riguarda, posso rivendicare. Ma il punto è che ora è tutto così complicato... Negli ultimi anni mi sono trovata a scrivere questi articoli [sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, ndA] solo per mettere a fuoco dove mi posso situare in questa guerra.
Qual è la mia condizione? Come posso mediarla in Germania, per arrivare alle persone? Sono stati due anni e mezzo molto importanti da questo punto di vista. Ma ho appena scritto la mia ultima rubrica e ho comunicato alla redazione che me ne vado. Non ci credo più, almeno non in questo formato.
Poi ci ripenso: dovrei essere più attiva, scrivere di cose importanti, di tutto quello di cui non si parla abbastanza, di Israele e Palestina, del Sudan, delle elezioni negli Stati Uniti e di nuovo di Ucraina, perché nel frattempo l'attenzione nei confronti dell'Ucraina sta scemando, e la situazione sta peggiorando sempre di più.
Il fatto è che sono molto più una sognatrice, che una combattente. Ultimamente sto pensando allora che dovrei sdoppiarmi, e permettermi da una parte di essere davvero la persona sognatrice che sono, e quindi scrivere liberamente, e dall’altra parte fare anche qualcosa di attivo nelle ONG, come già faccio, o qualcosa di più radicale.
Perché con ogni testo che scrivi su questi argomenti ti tagli lo stomaco, mostri a tutti le tue viscere. È un lavoro politico, certo, ma è molto intimo, e comunque ti senti sempre in colpa per non essere in prima linea. Ti senti un’intrusa.
MEDUSA newsletter è nata il 4 ottore 2017.
Il numero 0 è l’unico che presenta un oggetto di 3 parole: si chiamava “VOI SIETE QUI”.
Questo significa che venerdì facciamo 7 anni.
Per festeggiare, è successo che qualche giorno fa abbiamo raggiunto e superato i 10.000 iscritti. Vi ringraziamo tutti, ci vediamo alla prossima.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 421,68 ppm (parti per milione) di CO2.