PM10
di Alessandro Mantovani. In questo numero leggerete di distopie e Han, di passività e di prese di coscienza, di modello Milano e veleni, di microplastiche e di deroghe.
Benvenuti, questo è il numero centocinquantacinque di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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Oggi ospitiamo un articolo scritto per noi da Alessandro Mantovani, insegnante di Letterature comparate all’Università dell’Insubria e di lingue classiche nei licei di Milano. Come giornalista ha scritto articoli per riviste e giornali tra cui Domani, L'indice dei libri del mese, Alias, Urbano, Il Tascabile e recensioni per Il Foglio.
In chiusura ci salutiamo con i numeri della CABALA.
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In questo numero leggerete di distopie e Han, di passività e di prese di coscienza, di modello Milano e veleni, di microplastiche e di deroghe.
Nel 2154 l’umanità è divisa in due. Da un lato, pochi ricchi vivono nella stazione orbitale denominata Elysium, una sorta di riproduzione artificiale della Terra, un luogo rigoglioso, fecondo, ricco di comodità avveniristiche, tecnologie e benessere. Il resto della popolazione, invece, in preda a un aumento senza controllo, abita un pianeta desertificato e ultra-urbanizzato simile ormai a un’immensa baraccopoli. Inquinamento, degrado, criminalità, sfruttamento e povertà caratterizzano la vita su ciò che rimane della Terra; l’unica soluzione è la fuga clandestina su navicelle di trafficanti malridotte, facili bersagli dei missili impietosi con cui i ricchi, dalla roccaforte nei cieli, difendono i loro privilegi.
Elysium è una pellicola distopica che, alla sua uscita, nel 2013, sembrava alludere ai flussi migratori più che ai cambiamenti climatici. Lo sforzo del protagonista di raggiungere la stazione spaziale, gli stratagemmi illegali per ottenere questo risultato: tutto sembrava, all’epoca, associabile a quel fenomeno migratorio che, irrobustito dalla guerra civile siriana, avrebbe interessato negli anni successivi l’Occidente europeo con vette emergenziali mai viste, imponendosi come problematica cogente e come banco di prova per i valori dell’Unione Europea. Era ancora ben lontana, allora, la centralità del tema ambientale e, ancora di più, la figura del migrante climatico.
Eppure, a ben guardare, Elysium parla proprio di questo: un’umanità abbandonata a se stessa, dove la politica è scomparsa (o è fuggita) in virtù del vantaggio economico che permette l’accesso alle tecnologie. Denaro e monopolio tecnico sono gli unici strumenti che possono permettere di scampare a una condizione di miseria causata dalla sovrappopolazione e da un’esiziale scarsità di risorse dovuta alla sterilità del pianeta.
Curiosamente, anche in un film più recente, che tratta scopertamente il tema del riscaldamento globale, fa capolino l’immagine di un’élite tecnocratica che, non essendo più in grado di fare fronte alle crisi causate dal suo stesso modus operandi, abbandona il pianeta. Don’t look up (2021) è infatti una metafora aspra e ironica su quanto e come il capitalismo sia in grado di ignorare i problemi ambientali – nel racconto allegorizzati dall’imminente arrivo di una cometa, simbolo dell’incombente catastrofe climatica – per poi presentare soluzioni tardive ed elitiste. Anche in questo caso il film presenta una scena politica incapace di un’azione autonoma, connivente coi colossi tecnologici e multimiliardari: la salvezza dell’umanità viene affidata ad una sorta di magnate à la Elon Musk che promette di disintegrare la cometa tramite una missione spaziale, salvo poi fallire e abbandonare il pianeta con uno sparuto gruppo di politici e ricchi, condannando il resto dell’umanità alla sua sorte.
A questo punto, non è assurdo chiedersi: quanto sono lontane da noi queste distopie? Abituati a trattare il problema ambientale e le sue ricadute sociali come prossime, ma non ancora del tutto presenti, rischiamo di fare come la rana bollita di Chomsky e non renderci conto che, spogliati dei tratti della narrazione fantascientifica, questi racconti affondano minacciosamente le loro radici già nel nostro presente.
Nell’area Padana – e in particolare a Milano – il 2024 si è aperto con emissioni inquinanti da record, che, stando ai dati forniti da ARPA Lombardia, hanno superato in 23 giornate il limite UE dei livelli di PM10 e in 34 quello di PM2,5, toccando nuovi picchi di tossicità. Mentre l’aria di Milano è irrespirabile, metallica e una patina opaca oscura l’orizzonte, il sindaco e la regione hanno preso le distanze, non offrendo né risposte né informazioni corrette ai propri cittadini, condannati a respirare, volenti o nolenti.
Il 2 marzo è attesa a Milano una manifestazione - a cui hanno aderito, tra gli altri, Extinction Rebellion e Ultima Generazione. Sarà l’occasione per protestare, anche, contro le deroghe che i governatori delle regioni del Nord hanno ottenuto dall’UE sulle nuove direttive in materia di inquinamento. Le aree, come la pianura Padana, dove una particolare conformazione geografica rende più difficile la circolazione dell’aria, possono infatti godere di dieci anni di tempo in più per raggiungere gli obiettivi di abbattimento delle emissioni: dovranno ridurre i valori limite dei particolati – quasi dimezzandoli – entro il 2040 e non entro il 2030.
Come sappiamo, è proprio l'orografia alpina e appenninica che, chiudendo su tre lati il territorio padano, favorisce un ristagno dell’aria contribuendo a farne una delle aree più inquinate d’Europa. In questo inizio 2024, a questa tradizionale caratteristica si è sommato poi un fattore anomalo: la presenza di un anticiclone che, risalito da latitudini equatoriali, ha investito l’Europa Occidentale, portando a un innalzamento delle temperature che hanno raggiunto massime di 30°C in alcune aree della Spagna.
La presenza di questo anticiclone è un effetto dei mutamenti climatici in corso e porta con sé una serie di nuove alterazioni a catena. In primis, la diminuzione di neve e pioggia che prefigura una crisi idrica per l’estate, e che è a sua volta co-responsabile proprio dell’accumulo e del ristagno dell’aria inquinata a bassa quota. L’effetto di questa irregolarità climatica, combinata alla conformazione del territorio e a politiche incuranti dell’ambiente, sono un mix letale per chi non può permettersi di fuggire dalle aree inquinate, ed è un rischio serio per la salute, come testimonia uno studio dell’Environmental European Bureau.
La qualità dell’aria, in Italia, oggi è migliore di vent’anni fa. Ma in una situazione emergenziale come quella che stiamo vivendo, questo non può giustificare un approccio politico tanto disinteressato al controllo dell’inquinamento. Le lagnanze dei governatori del Nord, intenzionati a salvaguardare la produzione industriale, e il soprassedere del sindaco di Milano sulla gestione del tema a livello urbano, creano un’atmosfera di deresponsabilizzazione e trascuratezza che ricade sulla salute della cittadinanza.
In questo contesto, neanche la popolazione sembra ancora aver percepito fino in fondo quanto il tema dell’inquinamento sia un fatto su cui si possa e si debba pretendere, in maniera immediata e diretta, degli interventi, reclamando il proprio diritto alla salute. È vero, la notizia è circolata sui social, molte pagine hanno condiviso dati e considerazioni in merito, ma nulla ha ancora provocato una reazione di protesta adeguata, paragonabile a una vera presa di coscienza che trascenda la delega e sia più di una debole lamentela. Di ciò ha scritto Ferdinando Cotugno, rilevando come la tendenza di molti di noi, anche quando lasciati soli dalla politica e dallo Stato, sia quella di un’indignazione – per lo più digitale – che, tuttavia, “confina col rumore di fondo”. Scrive Cotugno:
Sulla scala esistenziale, l’attivismo da infografica coincide con la fantasia ben diffusa agli aperitivi di comprare una casa in altura o nel verde: il progetto di gentrificare non più una periferia, ma un’area interna, qualcuno lo ha già fatto, qualcuno lo farà quest’anno, lasciare indietro chi non si può sottrarre allo smog e non considerare nemmeno per un minuto la politica urbana un’alternativa spendibile per occuparsi del problema.
Questa riduzione del discorso politico ad astrazione digitale dei propri diritti - anch’essa, peraltro, fonte di ispirazione per alcune distopie del controllo, come Il cerchio di Dave Eggers -, e la conseguente rinuncia ad un’azione che sia progettata, prolungata e insistente, viene chiamata da anni slacktivism e si mostra, anche in questo caso, come un fenomeno ormai talmente esteso da non permetterci di discernere fenomeni gravi ma di più ampia portata e su cui è maggiormente difficile intervenire – come può essere l’iperoggetto climatico – da eventi contingenti come l’inquinamento atmosferico, le cui cause e soluzioni, circoscritte nel tempo e nello spazio, sono facilmente individuabili e perseguibili.
Il filosofo Byung Chul-Han in questi anni ha scritto diffusamente del dilagare di una generale passività che avvolge il civismo nell’occidente moderno. Secondo Han, il mondo capitalizzato, privo di bussole culturali diverse dal denaro e cullato nell’edonismo di sogni e benesseri artificiali, ha chiuso le dimensioni negative ma fondamentali dell’esperienza umana come l’alterità, il diverso, il dolore, sclerotizzando i propri desideri e finendo col generare, in tutti, risposte emozionali come stanchezza, depressione, impotenza, esaurimento. Ancora una volta, nella lettura di Han, astrazione e delega dell’azione sono conseguenze di questi sentimenti. Proprio per questo motivo, c’è bisogno di ripartire da pratiche concrete.
Di fronte a una politica nicchiante, molti di noi si trovano vinti dalla propria impotenza, schiacciati da un assedio impossibile e quotidiano fatto di lavoro, bisogni, sopravvivenza, ritmi incalzanti, anemia politica. Così, davanti a un evento come l’inquinamento mefitico che a Milano si respira con eccessiva frequenza, restano in prima linea solo alcune associazioni che tentano di aggregare e politicizzare il dissenso e raccontare storie, come fa Citizens for air. Oltre a un lavoro di monitoraggio e informazione, l’associazione ha condotto infatti alcune interviste a famiglie milanesi preoccupate per la salute dei loro figli: “Mio figlio ha 11 mesi. Siamo continuamente alla ricerca di una via meno trafficata, di un angolo di verde, ma è impossibile sfuggire all’inquinamento. Ogni giorno mi chiedo: cosa ci faccio qui?”, “Ho un figlio di 9 anni e nei giorni di valori fuori norma non lo porto a fare sport, privandolo della possibilità di giocare”, e ancora “la pediatra continua a dirci di scappare nel weekend, ma è una spesa che non possiamo affrontare”. Cosa emerge da queste dichiarazioni? L’assenza delle istituzioni assistenziali e la constatazione del fatto che solo un'ampia disponibilità economica può quantomeno tamponare l’esposizione all’inquinamento dei soggetti deboli. Per chi non se lo può permettere, non c’è soluzione.
In questo contesto le responsabilità risiedono anche nella narrazione culturale che da anni grava sul Nord produttivista e, in particolare, su Milano, “capitale economica” d’Italia. Il “modello Milano”, promosso dal rilancio del capoluogo negli anni dell’EXPO, ha costruito la narrazione di una città aperta a tutti, industriosa, che non si ferma e che non si arrende davanti alle difficoltà, in cui l’operosità viene premiata come garanzia di successo; qualcosa di simile a un sogno americano in salsa nostrana, che tenta di saldare le apparenze del senso democratico all’unica realtà possibile, l’accumulo di capitale. Questa messinscena del riscatto individuale e del successo personale tramite la laboriosità, tuttavia, trascolora oggi più di ieri, nelle tinte fosche del darwinismo sociale e nella negazione della priorità dei diritti dei cittadini sui profitti della città.
Nella mancanza di incentivi per il trasporto pubblico, nella scarsa messa in sicurezza delle piste ciclabili, nei tentennamenti rispetto al modello della città 30, nella mancata riconversione di fabbriche in entità meno inquinanti, nella gentrificazione senza controllo, nel caro affitti, ma soprattutto nel rifiutarsi di ammettere e discutere tali tematiche a livello pubblico, ostinandosi a relegare fenomeni come l’inquinamento che respiriamo a fatti occasionali, ecco, in tutto questo risiede a un tempo lo scoperto schierarsi del racconto di Milano su un versante elitista, interessato alla produzione prima ancora che alla tutela della salute, e la sua partigianeria smaccatamente ostile alle pratiche sociali. Ed è proprio a causa di questo stesso modello che ampie parti della cittadinanza sono costrette a trovarsi, da sole, delle scappatoie.
Ma allora, questo piccolo spaccato di realtà non ci avvicina forse già alle soglie delle distopie inizialmente citate? Una politica assente, un corpo civile trascurato e oppresso da condizioni di vita regolate prettamente da meccanismi economici che agevolano soltanto chi può permettersi il costo delle soluzioni. E ancora, la vita pubblica demandata a post sui social controllati da colossi tecnocapitalisti in mezzo a un sentimento di impotenza depressiva e un clima incontrollabile le cui manifestazioni aggravano condizioni preesistenti, dando vita a vere emergenze.
Infine, non si manchi di rilevare a livello generale la tendenza alla sovrappopolazione delle città, che ha visto oramai la popolazione urbana attestarsi al 58% di quella mondiale. Secondo le stime, il processo di inurbamento delle masse continuerà su vettori iperbolici nei prossimi decenni (interessando in particolar modo il Sud del mondo), traducendosi in un sempre maggior inquinamento e rendendo le metropoli luoghi da cui fuggire – se si può.
Ma questo può non essere l’unico scenario possibile. La politicizzazione del dibattito – con una conseguente richiesta di intervento efficace da parte delle istituzioni – può trasformarsi in un esercizio di dissenso e di piazza, e in una presa di coscienza del fatto che il tema dell’inquinamento può essere banco di prova per la nostra capacità di intervenire sul reale: un grimaldello per accedere a battaglie più complesse. Non c’è solo la catastrofe nel nostro futuro. Le cose possono cambiare a seconda di come saremo in grado di gestire fenomeni come la gerarchizzazione del potere, la redistribuzione delle ricchezze, l’automazione del lavoro e, ovviamente, la crisi climatica. Non siamo destinati a finire in questi scenari agghiaccianti in cui il privilegio – che si cela dietro la maschera di benevolenza e uguaglianza – salverà pochi a discapito di molti.
Forse, oggi, è proprio grazie alle narrazioni distopiche che diventa possibile intuire su quale sistema sembra sia istradata la nostra realtà e, allo stesso tempo, scuotere di dosso la passività, rivendicare la possibilità di un futuro alternativo oltre i veleni nascosti nelle nubi.
Una ricerca pubblicata su Toxicological Sciences ha analizzato 62 campioni di placenta umana: in tutti e 62 è stata riscontrata la presenza di microplastiche.
Le concentrazioni vanno da 6,5 a 790 microgrammi per grammo di tessuto. Dopo il polietilene, il PVC e il nylon sono le plastiche più comuni nei campioni analizzati.
Secondo Matthew Campen (University of New Mexico), che ha condotto la ricerca, la crescente concentrazione di microplastiche nei tessuti umani – di cui sappiamo ancora poco – potrebbe spiegare l'aumento di alcuni problemi di salute, tra cui le malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD), il cancro al colon nelle persone sotto i 50 anni e la diminuzione del numero di spermatozoi.
Nel 2021 uno studio di Environmental Science & Technology ha rilevato che le persone affette da IBD presentavano, rispetto alla media di microplastiche nelle feci, un +50%.
Le microplastiche sono state rilevate nella placenta di 4 partorienti per la prima volta nel 2020, in Italia.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 425,68 ppm (parti per milione) di CO2.