CICALECCI
di MEDUSA. In questo numero leggerete di videogiochi e spiagge, di maledizioni e fotocopie, gorilla e agenti immobiliari, Cina e Arabia Saudita.
Benvenuti, questo è il numero centosettantadue di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di videogiochi e spiagge, di maledizioni e fotocopie, gorilla e agenti immobiliari, Cina e Arabia Saudita.
#1 IL MARE DI GAZA
C’è un documentario che, per triste coincidenza, abbiamo recuperato un anno fa, poco prima che iniziasse la guerra: Gaza Surf Club. Segue la vita di un gruppo di gazawi appassionati di surf. I registi sono tedeschi: Philip Gnadt e Mickey Yamine. Forse per questo lo sguardo del film è evasivo, troppo occidentale, consolatorio. Che Gaza fosse una prigione a cielo aperto (era il 2016) viene detto, e sono citate anche le difficoltà dell’occupazione, d’altra parte non occultabili. Ma si preferisce sorvolare sulle condizioni che hanno portato a quella miseria – e in più, quando si sceglie invece di parlare della condizione femminile di quei luoghi, si asseconda un blando spirito accomodante, un annacquatissimo progressismo buono per la propaganda da prima serata.
Eppure anche così di quel film rimane più di qualcosa in testa, dopo averlo visto. Per esempio: le immagini dei palazzi mal costruiti sul lungomare, i rifiuti sulla spiaggia, le persone che cercano ugualmente di tirare a campare, la serenità combattiva di alcuni intervistati. Se a Gaza non ci fosse neanche lo sfogo del mare, dice a un certo punto uno di loro, la prigione sarebbe completa, e intollerabile.
Qualche giorno fa, su Al Jazeera la giornalista-scrittrice di Gaza Eman Alhaj Ali ha raccontato in cosa si è trasformata quella spiaggia oggi, durante il genocidio. Il racconto è piuttosto breve e desolato: Eman Alhaj Ali ripercorre la sua esperienza degli ultimi mesi, l'esodo forzato dalla sua abitazione verso la spiaggia di az-Zawayda, una zona che doveva rappresentare un rifugio sicuro ma che si è presto trasformata in un campo profughi male in arnese.
Il mare, che per gli abitanti di Gaza è sempre stato un luogo di pace e di svago, è diventato uno dei simboli della tragedia. Prima della guerra, la spiaggia era un luogo di socialità, come ovunque, e di relax, per quanto possibile, e di momenti felici: le famiglie si riunivano per trascorrere insieme il fine settimana, i bambini giocavano sulla sabbia, i pescatori andavano e venivano, qualche ragazzo surfava. Il presente devastante non ha lasciato nulla di tutto questo. Il racconto completo si può leggere qui.
Nel frattempo, la pulizia etnica e sociale di Gaza (che è stata presa troppo a lungo come una minaccia assurda e cupissima, sì, ma irrealizzabile) è sempre più vicina. E il numero di progetti che mirano a costruire colonie israeliane sulle spiagge completamente distrutte di Gaza – piani ancora del tutto ufficiosi, per carità – ormai non si contano neanche più.
#2 ESCAPISMI
Trent’anni fa usciva su Super Nintendo un videogioco chiamato Donkey Kong Country, un platform 2D lanciato poco prima della rivoluzione del 3D e che però a quella rivoluzione già ammiccava, spremendo al massimo le capacità delle console dell’epoca: in DKC i personaggi e le ambientazioni avevano una rotondità e una profondità fino ad allora praticamente inedite.
Oggi, però, di quel gioco rivoluzionario viene ricordata soprattutto la colonna sonora. Venne composta da David Wise, con il contributo di Robin Beanland e Eveline Fischer. Wise, un compositore autodidatta britannico, sfruttò i limiti del chip sonoro del Super Nintendo – che non offriva grandi possibilità armoniche e compositive – per creare invece tappeti sonori che pescavano da una grande varietà di stili musicali, pescando dal jazz, dall’ambient synth e dalle composizioni orchestrali.
La musica del gioco spaziava così dall’energetico “DK Island Swing”, ispirato ai suoni da big band, alla serena e emotivamente satura “Aquatic Ambiance”. Altra traccia degna di nota è l’inquietante “Gangplank Galleon”, un pezzo che mescola gli inni da marinai con l’heavy metal, confinando tutto in una strettissima eppure efficace melodia 16bit che accompagna il combattimento finale del gioco.
Darryn King, sul New York Times, ha recensito e celebrato i 30 anni di queste musiche. Racconta così che per “Gangplank Galleon” Wise aveva “preso due o tre CD di canti marinari, insieme a un album di melodie di organetto, per trarre ispirazione”. Insomma: ascolta, taglia, prendi, cuci, ruba. E poi prova a riassemblare tutto con uno strumento che non è ideato per comporre musica. Ma la forza di queste melodie è forse proprio qui: nello spirito pirata e amatoriale di chi le ha composte. Qualche tempo fa raccontavamo su MEDUSA di un altro videogioco di culto, Ecco The Dolphin, che ha una storia molto più aggrovigliata e cupa di DKC. Ma qualcosa che accomuna questi due giochi c’è, ed è proprio la musica, che in Ecco, come scriveva Matteo, è
un'elettronica di suoni sepolcrali e rumorini mesmerici creata dal compositore Spencer Nilsen, a quel tempo specializzato in sottofondi per videogame. Il team di sviluppo voleva qualcosa ‘alla Pink Floyd’, Nilsen reinterpretò i termini della consegna campionando alcuni versi sottomarini dei cetacei e creando dei paesaggi sonori onirici dove note glaciali e lampi futuristici emergono dal morbido bordone dei sintetizzatori. Si racconta che Michael Jackson, appassionato videogiocatore, durante una visita agli uffici della Sega canticchiò la melodia della prima traccia di Ecco per tutto il tempo.
In DKC c’è una canzone in particolare che è molto “alla Ecco” ed è la già citata “Aquatic Ambiance”, che molti giocatori ricordano come una delle tracce più suggestive e rilassanti del gioco. La sua musica eterea e affascinante è diventata simbolo di quel tipo di “escape” che invadeva i giocatori proprio nella fase subacquea del gioco. Wise ha creato la melodia aggiungendo strati di note ripetitive, accompagnate da arpeggi e un piano sognante, con un effetto che ricorda una sorta di assolo di chitarra, anche qui “alla Pink Floyd”, ma con un suono ancora più affettato, da musica per ascensori, inaspettato e straniante.
Lo sappiamo che ci sono emozioni primordiali che si annidano nelle note che abbiamo ascoltato da ragazzi e che rifioriscono quando le riascoltiamo oggi. Eppure forse non è solo la nostalgia che ci porta a riascoltare i pezzi di DKC. Siamo pazzi noi a credere che queste musiche siano effettivamente belle a prescindere? Quantomeno non siamo i soli a pensarlo.
#3 LE MALEDIZIONI DI WYLESOL
“I vecchi edifici vanno in paradiso?”. È poco probabile, quale può essere il piano regolatore del paradiso? Dove tutti sono angeli, anzi non tutti: “solo i capi”. George Wylesol in paradiso siederà al posto che danno a chi è riuscito a inventare un linguaggio. Il suo linguaggio non può funzionare sganciando le parole dalle immagini, perché sono spesso didascalie, o dialoghi spezzati. Le immagini invece campano benissimo lo stesso.
Molte delle storie raccolte nell’ultima antologia (Maledizioni di Coconino) mostrano spazi architettonici e mentali che dieci anni fa non erano ancora stati definiti “liminali”, backroom, poolroom, eccetera. E quando non è interessato a quell’esplorazione, il linguaggio grafico di Wylesol diventa più elementare, volentieri, e tira fuori l’orrore della noia americana facendosi bastare un paio di linee, un biglietto da visita.
Wylesol lavora prima in digitale, lì prende forma l’architettura minima, tirata, delle scene: poi stampa a colori, scansiona il risultato, ritrovandosi delle immagini all’improvviso misteriose, cariche di un leggero effetto statico che le fa sembrare uscite da qualche brutto circuito chiuso. Tornate nel formato digitale, le tavole vengono caricate su Photoshop, dove Wylesol altera i colori, li inverte, li satura, eccetera.
I racconti di Wylesol confermano che i mondi più interessanti spesso nascono dalla mente di chi non ha una conoscenza profonda del medium che utilizza. Una risposta all’orgia di immagini e icone e simboli può essere questa, mescolare gli strumenti, disturbare. Senza una buona scrittura, però, salta tutto.
Quella di Wylesol è economica e chiarissima.
#4 CICALECCI
Per esplorare quel confine – non così ampio – tra grandi opere e pagliacciate, vi aggiorniamo periodicamente sugli sviluppi di NEOM e degli altri progetti di Mohammed bin Salman, il principe, il Presidente del Consiglio per gli Affari Economici e dello Sviluppo del Regno, il ministro della Difesa e vice Primo Ministro dell’Arabia Saudita.
Larga duecento metri, alta cinquecento, costruita lungo una faglia artificiale di centosettanta chilometri: ci siamo già occupati di The Line, l’idea urbanistica al vertice di NEOM, un progetto che si propone di stravolgere il territorio saudita costruendo una enorme città-porto ottagonale, un’isola-resort adatta alle grandi imbarcazioni private, poi un resort sciistico multipiano, e altro ancora.
Già l’anno scorso scrivevamo:
La data di consegna è stata fissata per il 2045: quando passa il tempo però, di solito succedono tante cose. Per citare un esempio recente, tra l’autunno del 2020 e l’inverno del 2021 il costo dei tondini per il cemento armato è cresciuto del 117%; il costo del rame del 17%; il costo del cemento stesso, del 10%. I preventivi della città già si aggirano intorno al miliardo di dollari: quello che NEOM ci chiede, dalla linea agli skilift nel deserto, è di dimenticare che la ricchezza sterminata può talvolta concretizzarsi nel nulla.
Eppure The Line, con la sua improbabile e incredibile muraglia di vetro che specchia il mare e il deserto, innesca quella carica utopica che è sempre stata una delle ipotesi dell’architettura, in una rincorsa lunga secoli tra l’ideale e il possibile: anche nella parodia.
Forse l’arco di questa parabola potrebbe avere toccato il suo vertice. Sia chiaro: i soldi sono ancora tanti, e continuano a scorrere. Per capire però la situazione occorre un paragrafo di promemoria su Saudi Aramco.
L’Aramco nell’ultimo mezzo secolo ha pompato 60 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera, quasi il 5% delle emissioni di anidride carbonica degli ultimi cinquant’anni. È la compagnia di idrocarburi più inquinante al mondo. Senza l’Arabian American Oil Company (Aramco) non esisterebbe l’Arabia Saudita per come la conosciamo, la guerra fredda tra Arabia Saudita e Iran, e poi Al-Qaeda e l’11 Settembre eccetera eccetera.
Saudi Aramco quest’anno ha distribuito dividendi per 93,2 miliardi di dollari, principalmente al governo saudita, che possiede il 97% dell'azienda. L’assegno è stato finanziato in parte con i debiti, dato che la liquidità netta ha raggiunto i 63,7 miliardi di dollari, una cifra inferiore a quella assicurata agli azionisti.
Come scrive Alessandro Lubello su Internazionale,
Per finanziare Riyadh finora la Saudi Aramco ha speso ogni giorno più di cento milioni di dollari presi in prestito. Nel terzo trimestre del 2024 l’azienda aveva un debito netto di 8,9 miliardi di dollari, contro la liquidità netta di 27,4 miliardi dello stesso periodo di un anno fa e quella di 2,3 miliardi del secondo trimestre. […] La priorità di Bin Salman è che la Saudi Aramco e le altre istituzioni statali continuino a foraggiare le finanze di Riyadh, sempre più assottigliate dai faraonici progetti di trasformazione del paese raggruppati nel programma Vision 2030. […] In origine il governo saudita aveva stabilito che il prezzo del greggio sui mercati mondiali dovesse mantenersi stabilmente tra i 90 e i 100 dollari al barile per poter finanziare Vision 2030.
Cosa sta andando storto? Sta succedendo che nel terzo trimestre di quest’anno il prezzo medio di un barile è stato 79,3 dollari, dieci in meno rispetto al 2023. Il petrolio non può più garantire al Regno i ricavi degli ultimi anni, perché – tra i vari motivi, il principale – gli Stati Uniti hanno aumentato la loro offerta: attraverso il fracking, il petrolio e il gas estratti dal bacino del Permiano stanno invadendo il mercato al ritmo di 13,3 milioni di barili al giorno, il 48% in più rispetto all’Arabia Saudita (ritmo che l’anno prossimo raddoppierà la sua velocità).
Ecco che il greggio costa meno, e dopo dieci anni di spese pazze Bin Salman è costretto a farsi due conti in più.
Come racconta il Financial Times, Riyadh ha ordinato ai vari ministeri di “ridurre le spese per le consulenze, mentre alcuni progetti sono stati ridimensionati o bloccati per un lungo periodo di tempo”. La spesa per le consulenze di Neom è stata ridotta quasi di un terzo.
Negli ultimi anni anche soltanto l’aggettivo, saudita, iniziava a echeggiare “illimitato”, come i fondi del regno pompati dal petrolio. Magari tra qualche decennio inizierà a rimandare a qualcos’altro.
#5 ACCORDI E DISACCORDI MA SOPRATTUTTO DISACCORDI
Di emergenza climatica torneremo a parlare meglio nei prossimi numeri, con la profondità che merita l’argomento. Intanto qualche link minimo sulla COP29: l’accordo che è stato firmato all’ultimo minuto e che ha salvato i negoziati sul clima di Baku, in Azerbaigian, è un “consenso fragile”, secondo gli scienziati intervistati da Nature.
Come racconta Ferdinando Cotugno su Domani, questa COP si concentrava soprattutto sulle questioni economiche. Non è andata bene per quasi nessuno:
L'approvazione del documento finale più politicamente delicato di Cop29, quello sulla finanza climatica, è avvenuta alle 3 nella notte tra sabato e domenica: il martelletto del presidente Mukhtar Babayev ha sigillato il risultato: i paesi in via di sviluppo riceveranno una quota crescente di aiuti climatici che deve arrivare a 300 miliardi di dollari all'anno entro il 2035, tra undici anni. Nel documento viene menzionata anche un'altra cifra, quella che il sud globale ritiene più vicina ai propri bisogni, e che era stata calcolata da tre economisti del clima (Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern) all'inizio di questa Cop: 1300 miliardi di dollari all'anno.
Nel documento i 300 miliardi sono però un impegno giuridicamente vincolato, che i paesi in via di sviluppo possono esigere, mentre i 1300 miliardi sono una vaga aspirazione, quasi un auspicio, niente che abbia valore legale. Il diplomatico dell'Uganda Adonia Ayebare, che negoziava a nome del G77, il più grande gruppo dei paesi in via di sviluppo, aveva ribadito: «Vogliamo vedere i triliardi nel titolo di questa Cop». Li hanno avuti, ma è solo un titolo esca come quelli di certi siti spazzatura, perché quello che riceveranno davvero sono 300 miliardi.
La prossima COP sarà in Brasile, tra un anno. Novembre 2025, a dieci anni di quell’accordo di Parigi che sembra già superato dagli eventi, e che oggi, con Trump, Milei e un sostanziale fastidio politico per le questioni climatiche, rischia davvero di diventare carta straccia.
La Cina è responsabile del 90% dell’aumento di emissioni di CO2 dal 2015: i piani della Cina determineranno il futuro della “transizione globale”.
Gli obiettivi ufficiali del Partito sono raggiungere il picco delle emissioni di carbonio entro il 2030 e la neutralità carbonica entro il 2060.
Pechino si è impegnata a “controllare rigorosamente” l'uso del carbone durante il 14° “piano quinquennale” (che termina alla fine del 2025).
Secondo il 44% degli esperti del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), le emissioni di CO2 della Cina hanno raggiunto il picco massimo nel 2024.
O lo raggiungeranno nel 2025.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 424,12 ppm (parti per milione) di CO2.