TORRETTE
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di voti e di flussi d’aria, di piccoli paesi e nazioni alla deriva, di cani a pois e miliardi di alberi.
Benvenuti, questo è il numero centoventi di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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Il racconto che leggerete oggi fa parte di un testo più ampio di cui abbiamo già pubblicato altri due stralci: EDEN e COUNTACH.
In questo numero leggerete di voti e di flussi d’aria, di piccoli paesi e nazioni alla deriva, di cani a pois e miliardi di alberi.
L’Eden si manifestava nella vita delle persone prendendo forme più o meno prevedibili. La più diffusa di queste erano le torrette, torri metalliche appunto, progettate in serie secondo lo sforzo minimo dell’occhio, perfettamente lisce salvo le sottili griglie dei flussi d’aria, tagli sottili e invisibili per abitudine, ma necessari al raffreddamento delle turbine di scambio, e quindi alla protezione del tempo che passa.
La più vicina a casa, che da piano regolatore alimentava il settore B49 di via Masaccio, era quella dopo la curva, accanto al cancelletto dei Breçan; l’unica curiosità di quelli, che Martino ricordava come una coppia di lentigginosi, era il racconto dell’antico botto di cui erano testimoni, in realtà soltanto lei, che lo ripeteva sempre con le stesse parole; di quando il furgone con i primi televisori a colori di tutta Marene, e probabilmente tra i primi di tutto il Tevén, aveva schivato un dalmata scappato all’alba (incongruo, ma indimostrabile) finendo sulle radici dei pini marittimi, già all’epoca mostruose e spaccasfalto, anche e soprattutto quelle di fronte alla ditta edile dei Sarazìne, e quindi su quelle ruspe parcheggiate sul suolo pubblico, “stazionate” nel verbale e poi perdonate, abbandonate lì con la benna mezza piena di terra fradicia, la sponda ideale per un furgone animalista e gommato male e targato straniero, che prende e si invola, così per dire, e si fracassa per strada; il sobbalzo del cane, ormai di spalle, è impercettibile; troppa dignità; l’autista invece se ne esce spaccando il vetro, saltando come al circo, felice di essere vivo, e sanguinante. Ma poco. Intanto la signora Breçan che passava di lì, diretta al bulangiere, accorreva; si era consumato uno dei fatti della sua vita, e il cervello smielinava tutto, si affannava a costruire la memoria: avrebbe raccontato sempre lo stesso paesaggio, la via che porta alla Gare nel buio impestà, il silenzio dopo il botto, i cristalli liquidi che gocciolano dalle fessure del cassone in una colatura densa, lei giura, come l’olio nella laguna; visione questa davvero incongrua, l’iridescenza, ma Martino non c’era.
Meglio tacere. Le torrette sono state montate spesso di notte, nel silenzio, al buio. “Perché c’è meno traffico”; come se si fosse a Lagos. Montate premettendo che si trattava di manutenzione ordinaria. Poi, precisando che si trattava di “interventi migliorativi di routine”; infine: niente, montate e basta.
Servivano a tante cose, a nuove cose, per esempio all’allarme definitivo, che avrebbe finalmente risolto il problema dei ladri che sono dappertutto: l’Eden li avrebbe fermati. Tutti nel paese della valle erano ossessionati dalla faccenda dell’allarme, pure gli animali ancora un po’; erano presi dalle due plastiche messe insieme in una vita, il televisore laminare, e magari i computer… ma non erano vuoti i computer ormai? Intercambiabili?
Tutti avevano il diritto di avere un allarme! Sembrava più un dovere, ma i sinonimi scarseggiavano. Dopotutto, c’erano dei beni da difendere, le fatiche di una vita. Qualche portone proteggeva, certo, dei filini d’oro, dei bijoux assortiti e delle verette di bisnonne e trisnonne di cui era svanito il nome per chiunque; si potrebbe obiettare che non si trattasse di oggetti soltanto, di robba, ma di derivati psicologici, della sacralità del rifugio. Anche se di sacro, a Marene, restava ben poco.
La gente era stanca, se ne stava a casa; non si facevano più rosari. Più di una torretta si era installata negli spazi residui dei capitelli, dove i marenesi usavano radunarsi la sera, nella celebrazione dei riti di maggio; un giorno erano stati visti dei furgoni dell’Eden dove venivano caricate, una a una, forse una decina di Notre Dame. Molte erano statue di gesso, arti povere; attrezzi di fede; sarebbero bastate delle martellate ma quelle, che si sappia, non arrivarono.
I capitelli di solito venivano inaugurati nei giorni di Sagra. Spesso erano voti per malattie guarite, per soldati non morti, ma anche generici buoni auspici, calcestruzzi per la buona caccia; alcuni stavano sotto vecchi alberi di noce, che fino a un certo punto venivano chiamati alberi sacri, o capitelli verdi, e poi basta: stavano lì come alberi e basta, assicurando alle torrette una buona pioggia di schitti di colomba. Anche la colomba ormai era soltanto una colomba, come le strade erano strade, e i ladri ladri.
C’erano capitelli sorti all’altezza di incroci stradali, per proteggere il traffico pendolare degli onesti lavoratori marenici e delle vicinanze, che persi nelle giornate e nella trafila dei sacrifici capitava che soffrissero comunque cali di zuccheri, crepuscoli e pozzangheroni, dei momenti di umanità insomma, e che per forza statistica diventassero pure mortali; nemmeno l’Eden ebbe il coraggio, così si credeva, di sloggiare la Madonna di Fatima scolpita a Pietrasanta, cioè a Lucca, scolpita all’estero: e non per i suoi quattrocento chili, ma perché a protezione e ricordo di due piccole anime, Chiara e Alvise, ascesi al signore; e a grande velocità.
Mancò il coraggio, ma non troppo. Tra gli operai dell’Eden c’erano infatti dei foresti, gente che non capiva, buttavano le candele, i quadretti. Altrimenti poggiavano le offerte votive sulle torrette, forse in buona fede, forse a sfregio; si tentava di trascinare l’edera verso i nuovi manufatti, nella speranza di dissimularli, e le loro lucine ritmiche, ma anche per bellezza perché no: la natura è così bella e fa tutto diventare bello. Si salvavano i tondi in ceramica, le nicchiette già abbandonate, col legno scortecciato; erano robe piantate dai nonni, e nonni dei nonni, bisognerebbe votare... Gli amministratori di condominio portavano le loro riflessioni, e cioè le possibilità di sgravio; che poi, gentilissimi, ricordiamoci che ogni epoca ne rimpiazza un’altra, e le sue robe.
Il capitello dei suoi genitori, che a dire il vero al rosario non ci andavano, ma Martino sì, era stato costruito dalla famiglia Cremanté negli anni dopo la seconda guerra mondiale; quella dei nazisti e dei comunisti; Martino non poteva immaginare la tenacia del vecchio Cremanté, figlio del padre che aveva progettato la cappella nella sua mente cristiana, né aveva letto le email recapitate a qualche servizio clienti, che ripetevano sempre la stessa storia: “nel 1948 il signor Cremanté, pregando nel suo sacre coeur la Madonna, risolse positivamente un suo personale problema (l’acquisizione di un fondo agricolo da lavorare con tutta la famiglia sua, dove mio padre arando il terreno sarebbe stato abbaiato da un punto di luce che risultò essere una piccola medaglia della Madonna) e volle costruire, al termine del ramo civico 68-96, un capitelo di ringraziamento alla Beata Vergine del Rosario. Nel 1971 con l’aiuto del figlio (che sarei io) costruì il capitelo in laterizio su un’aiola spartitraffico, a sacello con piccolo portico antistante. Venne posata una croce diciamo metallicobizantina sul tetto e sulla piastra triangolare di marmo la statua della Notre Dame, che è in materiale cementizio, dipinto in maniera piacevole. Lo stile è classiccheggiante e armonioso. I mattoni li avevamo ricuperati dalla demolizione di una villa tevenica del Seicento. Sul tetto di coppi furono istallate inoltre le corna di Mosè a scopo devozionale, direttamente dalla madre di chi vi scrive, morta dando alla luce Cremanté Thomas, residente al centro diurno di Èpinard (incapace di intendere). Il capitelo fu inaugurato e benedetto il 15 agosto 1975 con la presenza di un monsignore. Sono stato informato diciamo per via indiretta, dato che mi trovo ricoverato all’Hopital dell’Ange, della rimozione della suddetta statua…”.
Il piagnucolio venne prima sequenziato da un lettore algoritmico, un mailbot in eterna fase beta, che secondo il suo dovere lo inoltrò a Fabio_97, vincolato alla procedura ordinaria: l’installazione gratuita del nuovo sistema di allarme e uno sconto sui primi trentasei mesi di servizio. I nipoti Cremanté inserirono il codice d’acquisto nel tastierino tattile, perché erano onesti lavoratori, e si meritavano sonni tranquilli.
#1 SESTO PAESE AL MONDO PER VITTIME
“Undici morti, due dispersi, oltre cinquanta feriti, danni enormi a case e infrastrutture. È il triste bilancio delle gravi alluvioni che hanno funestato le Marche tra il 15 e il 16 settembre. In due o tre ore sono caduti circa 400 mm di pioggia sono caduti, ha detto la Protezione Civile, un terzo della pioggia che di solito cade in un anno. Le province di Ancona, di Pesaro e Urbino sono state le più colpite. A Senigallia il fiume Misa ha rotto gli argini e invaso il centro cittadino”.
Questi sono i fatti di venerdì scorso, non c’è niente da parafrasare: è quello che è successo. Ma sul perché è successo Angelo Romano, su ValigiaBlu, prova a tirare le fila. Si parla di fattori climatici e meteorologici, di emergenza che diventa normalità, del quasi nulla che si fa per preventivare le catastrofi e quindi le morti. Poi c’è un paragrafo che vogliamo condividere con chi ci legge:
Secondo il Global Climate Risk Index 2021, prosegue Cotugno, “l’Italia è stata negli ultimi vent’anni il 22esimo paese al mondo per rischio climatico, il sesto per vittime, il nono per vittime in proporzione alla popolazione, il dodicesimo per impatto economico. Dal 2013 al 2019 il danno da eventi collegabili all’emergenza climatica, secondo Greenpeace, è di 20,3 miliardi di euro, circa 3 miliardi all’anno. Ogni autunno seppelliamo i morti e ricostruiamo un paese esposto più di altri – per latitudine, geografia, orografia – agli estremi di un clima compromesso”. Eppure, “l’adattamento del territorio è fermo: mancano pianificazione, lotta al consumo di suolo, sistemi integrati di allerta e soprattutto la visione d’insieme del Piano nazionale di adattamento, in attesa di approvazione dall’intera legislatura”.
Domenica, lo sappiamo, si vota. Su queste elezioni, che se possibile sono ancora più deprimenti di quelle prima, non abbiamo molto da dire: tra i grandi partiti ci sono neofascisti negazionisti climatici, imprenditori liberisti scesi in campo, correnti deformi che sperano di perdere bene, cosa c’è da aggiungere?
#2 PIMPA E LA NUVOLA CAVALLINO
Questo prendiamolo come un momento di conforto tra due cubetti strazianti. Su Doppiozero Giovanna Zoboli scrive della relazione tra la Pimpa e il creato; nelle tavole di Altan infatti tutto sembra infuso di una luce animista, secondo Zoboli “quell’attitudine infantile e primitiva descritta da antropologi e psicologi, che attribuisce proprietà spirituali a realtà puramente fisiche, grazie a un processo per cui, per analogia, in ogni fenomeno universale viene proiettato il proprio spirito vitale, animandolo”.
“Infantile” e “primitivo” sono due aggettivi sovraccarichi di significati e stereotipi: ma questa è una faccenda per accademici. La Pimpa parla con i bulbi di tulipano, che gli dicono di aspettare le otto di mattina, oppure con gli alberi stanchi che, finito l’autunno quando si agitano tutti rossi, hanno bisogno di riposare.
Parlano il Sole e la Luna, presenze fondamentali nelle storie della Pimpa, che, il più delle volte, si svolgono nell’arco di una giornata, al sorgere e al calare dell’uno e dell’altra. Perché quello di Pimpa è, sì, un universo straordinariamente variegato e in perenne mutamento dove accadono cose talmente improbabili che sono i soli bambini a pensare e a sapere, ma anche ordinato, regolare e pieno di buon senso. Se qualcuno ha freddo, lo si riscalda; se ha fame, lo si nutre; se ha sonno gli si prepara un letto; se ha voglia di parlare, lo si ascolta; se vuol compagnia, lo si accompagna; se ha paura, lo si conforta. È un universo gentile, dove le cose si prendono cura le une delle altre e che funziona grazie a questa intima e diffusa intelligenza che lega tutte le cose fra loro in mirabile equilibrio.
Leggendo la Pimpa viene in mente Björk, un’altra animista che continua a crederci, all is full love. Più o meno.
#3 NIGERIACENE
Non basteranno altri miti, né un sapere che c’insegni a vedere meglio quel futuro comune di cui la Nigeria traccia il profilo. Si viene via di qui con un sano sgomento, ed è impossibile credere più che la città in cui si ritorna sia un rifugio sicuro.
Il Tascabile [NB la rivista per cui lavoriamo entrambi quando non scriviamo qui dentro] ha pubblicato un reportage di Paolo Pecere dalla Nigeria, un racconto claustrofobico sul destino di un Paese affossato dal colonialismo, strozzato dalla corruzione e il terrorismo, con poco o nessun interesse per le questioni ambientali che lo stanno portando in rovina. Di Nigeria parlavamo anche nel nostro libro proprio come una nazione-sismografo da leggere e capire per conoscere il futuro del pianeta, nodo delle contraddizioni delle società globali. Scrive Paolo:
Il sistema chiamato Nigeria sembra l’ombra della società industriale, un condensato delle piaghe del capitalismo: sovrappopolazione, insufficienza di cibo e risorse naturali, inquinamento, dipendenza dai combustibili fossili.
“La Nigeria è una storia del futuro” non è una lettura rasserenante è una lettura da fare.
Nel 2021 l'ONU ha dichiarato di voler "realizzare l'obiettivo di piantare 1000 miliardi di alberi" entro il 2030 per "combattere il degrado del suolo e creare nuovi serbatoi di carbonio".
Una lettera firmata da 5 ricercatori, su Le Scienze, avverte: quello dell'ONU è “uno slogan di grande impatto mediatico, ma con possibilità di realizzazione molto ridotte se non nulle, e che anzi potrebbero determinare, in alcuni casi, impatti negativi sia in termini ecologici che sociali”.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 415,91 ppm (parti per milione) di CO2.