COUNTACH
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di Algeria e Minerbio, di Snam e Palau, Mario Draghi e Dorothy Cross, zooxantelle e H5N1.
Benvenuti, questo è il numero centodiciasette di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di Algeria e Minerbio, di Snam e Palau, Mario Draghi e Dorothy Cross, zooxantelle e H5N1.
Nella cucina, che era grande e luminosa, al centro del tavolo di marmo c’era sempre una caraffa di vetro, semplice, delle foglie in rilievo, e dalla cima della caraffa sbuffava sempre un ramo di eucalipto, un tulipano, qualcosa; chi passava in visita trovava i fiori, e una certa luce fatta dalle tende. Tutto doveva essere così, ma non pensato, come respirare; la madre era al centro e le cose della casa, le persone e le ombre, si muovevano intorno. Negli anni del concerto continuo, non sapevano lo fosse: che ci fosse una musica e che tutti fossero attraversati dalla propria parte, fino all’ultimo giorno dei riti di maggio. Senza direzione sarebbe finita la musica; come accompagnandosi, in giardino le rose sarebbero sfiorite nella stessa notte. In cucina si sarebbero ammucchiate le carte del padre, i giornali della chiesa, “le cartelline”; non si sarebbe bevuto più caffè. Anche la luce sarebbe cambiata, ma non era ancora il momento. Era ancora la vita di prima.
Siamo stati in chiesa, sono state fatte le foto, abbiamo mangiato. È ora, come dicono a casa, di sbaraccare. Lo dicono tutti ma lo fa la madre che, nei casi più gravi, compleanni o cerimonie, si spoglia di ogni reticenza e, sola agli occhi di Dio, comanda.
Anche perché la nonna non sente più niente e sorride nella sua illuminazione perpetua; anche oggi ha fatto il suo, ha mescolato i nipoti e stretto la borsetta, cercando conforto nella sua mente inaccessibile, dove la voce della luce, con le sue facce di bambini, i palloncini colorati e le bottiglie di vino si confonde alle mille forme e resistenze di tutto quel cibo, ai misteri dei richiami, nonna! Nonna! L’hanno fotografata come una cattedrale, da tutte le angolazioni e riflessi, le hanno spostato i cuscini, nascosto i gioielli; è nata quando c’era l’Impero Ottomano e mi ha dato il suo regalo.
Le cugine mi assicurano che la comunione è un passo importante; tocca farsi prete. Mi mettono una croce di legno al collo e mi benedicono con l’acqua frizzante. Nessuno se ne accorge, neanche la nonna che sorride, perché è già ora di sbaraccare, basta “un colpo di mano”, i piatti già sbattono nel lavello e le zie aprono la pattumiera, gli zii caricano le automobili. In una di queste viene caricata la nonna e abbandonata lì sul sedile di velluto scuro, mentre i pezzi della famiglia si incastrano avanti e indietro alla ricerca della pochette, del braccialetto, del pulloverino, e intanto la berlina resta lì aperta accanto al marciapiede, e dall’antro esce il suono delle portiere aperte che sembra fare un suono di natura, un suono suo, una linea che mi sembra ancora musica.
Gli zii delle colline, che parlano di politica e lavoro e scissioni, si prendono pure l’immondizia. La Teresa, dalla siepe, ci guarda pensando di non essere vista; poi si accorge, saluta, dà acqua alle piastrelle. E infine, tra portiere che sbattono, cani che abbaiano e marmitte, restiamo soli. La madre, il padre, il figlio.
I regali sono ammucchiati nello studio, dove di solito si sta davanti al computer, i libri dietro. I regali stanno inerti; in complicità con lo studio, che diventa magazzino e anticipa il futuro che si riesce a vedere, gli archi esistenziali e le rinascite, l’erba sintetica. Sulla scrivania c’è un televisore Grundig grigio, severo, che verrà installato nella stanza degli ospiti – da dire con riserbo – dove sarà spettatore e vittima di tradimenti e concezioni; verrà cablato e scablato, scassato. C’è un salvadanaio che ha la forma del maiale, con il suo sbrego sul dorso e il tappo nella pancia. Resterà vuoto. Ci sono maglie e portachiavi, una piccola Countach nera inchiodata al piedistallo, con l’alettone assassino.
– Manca la busta però.
– Che busta?
– I soldi, la busta della nonna.
– I soldi?
– La nonna mi ha dato dei soldi in una busta.
Silenzio.
– Quanto ti ha dato?
– Centomila lire.
Il padre torna con calma in soggiorno e inizia dal divano, rovesciando ogni cuscino, guarda nelle ciotole, dietro alle mensole, si stende sul divano. Lo guardiamo dal corridoio. Sono sicuro, prima l’ho vista sopra agli atlanti del mondo. Ora non c’è più.
– Com’era fatta?
Era bianca, era una busta. La madre sussurra: secondo me era nel sacchetto della carta. La madre guarda il padre, il padre guarda il figlio, si tocca l’anulare; si rimette le scarpe ed esce. La madre lo guarda uscire. Va verso il bagno, torna dopo qualche minuto, e lo raggiunge.
Sono seduto sul divano, sono solo. C’è ancora l’odore di tutti gli altri, le impronte per terra. Sono solo. Come in un sogno esco di casa, chiudo il cancello e prendo il marciapiede che porta alle scoasse. Vorrei essere al mare, quando la sera sembra metallico. Fa molto caldo. Poi giro l’angolo e li vedo, lei che facendo leva lo tira su per la vita, lui che riemerge con una busta dal cassonetto, la mano lanciata verso il cielo. Si abbracciano, poi mi vedono.
#1 PROBLEMI DI MANUTENZIONE
L’Algeria è diventata il primo paese fornitore di gas per l’Italia. Questo nuovo status è stato raggiunto con un accordo annunciato dall’agenzia Aps il 15 luglio, con la consegna di ulteriori 4 miliardi di metri cubi da Sonatrach (il cui logo è stato disegnato negli anni Sessanta da un fumettista di Charlie Hebdo) a Eni. Lunedì 18 luglio Draghi si è presentato ad Algeri insieme a sei ministri del suo governo (Roberto Cingolani, Luigi Di Maio, Luciana Lamorgese, Marta Cartabia, Enrico Giovannini ed Elena Bonetti), in mezzo alla crisi di cui sappiamo: un’informazione sufficiente a spiegare l’importanza di questo viaggio diplomatico.
Il gasdotto Transmed, nel suo piccolo, sta cambiando la nostra storia. Bisogna immaginare un tubo lungo duemila chilometri che nasce nel deserto algerino, sfocia a El Haouaria, nella penisola tunisina di Capo Bon, e sbarca a Mazara del Vallo per poi fermarsi a Minerbio, tra Bologna e Ferrara, dove viene stoccato da Snam.
Vivere in un mondo che cambia. Si stanno riscrivendo accordi decennali, alleanze storiche, creando nuovi problemi e contraddizioni. Sempre per ragioni politiche, lo scorso giugno l’Algeria ha tagliato le sue forniture alla Spagna, 6 miliardi di metri cubi. Questo perché il governo di Madrid ha riconosciuto il piano di autonomia proposto dal Marocco sul Sahara occidentale, ovviamente inviso ad Algeri, dove tra varie peripezie governa Abdelmadjid Tebboune.
I proventi degli idrocarburi gli permettono una certa stabilità interna, garantita soprattutto da un’oppressione sistematica di qualsiasi moto popolare: nel 2019, l’anno delle ultime elezioni, è nato un movimento di protesta che si chiama Hirak, “per una nuova Algeria ‘libera e democratica’, [che] in questi anni è stato duramente represso dal governo di Tebboune”. Secondo Amnesty International, “ci sono attualmente ‘266 prigionieri di coscienza in Algeria, incarcerati per il solo fatto di aver manifestato o espresso opinioni contrarie al regime su social o giornali’”.
Nel sito delle Nazioni Unite si possono trovare le dichiarazioni rilasciate a marzo da parte di Michelle Bachelet, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, intorno alla questione algerina:
Sono preoccupata per le crescenti restrizioni alle libertà fondamentali in Algeria, tra cui l'aumento degli arresti e delle detenzioni di difensori dei diritti umani, membri della società civile e oppositori politici. Invito il governo a cambiare rotta e ad adottare tutte le misure necessarie per garantire il diritto popolare alla libertà di parola, di associazione e di riunione pacifica. Il libero esercizio del giornalismo è essenziale per ogni democrazia sana. Ma in molti Paesi gli operatori dei media devono affrontare livelli allarmanti di violenza, compresi gli omicidi, spesso impuniti.
Centinaia di arrestati, e poi i morti in carcere, come Hakim Debazi, 55 anni e padre di tre figli, arrestato il 22 febbraio ad Hadjout per i suoi post su Facebook a favore di Hirak. Debazi è morto nel carcere di Kolèa per imprecisate questioni di salute. Detenuti politici e d’opinione, tubi pieni di gas, strette di mano: forse un po’ meno del solito, ma anche questo inverno staremo al caldino.
#2 BUONA ESTATE
Al PAC di Milano, fino all’11 settembre, c’è una mostra collettiva che si chiama – per ragioni non del tutto evidenti – Take me to the place I love. Tra le artiste ospitate figura Dorothy Cross, nata a Cork (Irlanda) nel 1956; negli anni le sue opere, che da sempre creano cortocircuiti tra i connotati umani e quelli animali, sono state esposte al MoMA PS1, all’ICA di Philadelphia, alla Tate, alla Biennale ecc.
Di Cross è in mostra un video del 2002, Jellyfish Lake, girato a Palau, in Micronesia. Dura sei minuti, è a colori, non c’è suono. Nel video il corpo immerso di Cross è circondato da un prato di meduse.
Nel sito di una galleria irlandese dicono che si tratta di esemplari di Chironex fleckeri, quella cubomedusa australiana che è forse la più velenosa al mondo; un suo tocco può innescare una serie di spasmi muscolari e arresti respiratori, tachicardie e aritmie a volte fatali.
Ma quelle intorno a Dorothy Cross non sono cubomeduse. Si tratta di Mastigias papua etpisoni, anche dette meduse dorate. Ogni giorno, seguono la luce del sole, dalla costa occidentale del lago a quella orientale: a metà giornata invertono la rotta e tornano a ovest, per assorbire ogni raggio utile alla sopravvivenza delle zooxantelle, gli organismi che vivono nei loro tessuti di gelatina alimentandole della loro energia.
Nell’acqua i capelli di Cross fluttuano nell’assenza di gravità, sembrano rispondere a un ritmo lunare, a qualche logica sospesa che include l’occhio di chi guarda, tutto inizia a galleggiare. Sarà il caldo fuori, il museo semideserto in questi giorni, qualcosa nella pace intorno al monitor. È un video molto semplice, che se ne sta lì in loop, a significare qualcos’altro.
Siamo nel pieno di un’epidemia di influenza aviaria che per ora sta colpendo Europa, Nord America, Africa occidentale e Asia. Per vastità e mortalità è la peggiore epidemia mai registrata nel Regno Unito, dove vivono circa 8 milioni di uccelli marini.
Tra i tanti, il 90% della popolazione mondiale di berte minori, e circa due terzi delle sule bassane e delle Great skua, o stercorari maggiori.
La popolazione mondiale di stercorari maggiori è di circa 16.000 esemplari e le prime ricerche sull'impatto dell’epidemia indicano che in alcuni siti è morto tra il 64% e l'85% di tutta la popolazione.
E così vale per molte altre specie: potrebbe trattarsi di un evento di estinzione di massa. Le prime osservazioni suggeriscono che circa il 50% degli uccelli infettati muore ma, secondo Diana Bell, biologa della conservazione che ha studiato H5N1 nel 2007, la cifra è più vicina al 100%.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 418,31 ppm (parti per milione) di CO2.