PERDERE2
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di feste e foreste, di città segrete e milioni di parole, di adrenalina e Macao.
Benvenuti, questo è il numero centocinquanta di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di feste e foreste, di città segrete e milioni di parole, di adrenalina e Macao.
Il baccarat è il gioco più popolare. Il tavolo è un grande tondo tagliato a metà. Il croupier, sul diametro, orchestra una piccola folla che scommette, gioca, osserva. Le persone si assiepano come a Porta Portese, o a piazza Garibaldi, attorno ai saltimbanchi del gioco delle tre carte. Ma la coreografia qui è più vivace, ci sono piroette di mani e di fiches, e poi carte che scivolano sul panno verde e che vengono prese, girate, ricoperte. I giocatori bussano con il medio e l'indice per chiederne ancora o forse per dire basta così. È lo stesso gesto che fanno per ringraziare il cameriere che versa il tè nei bicchieri.
Non sono a mio agio. La velocità del gioco e l'adrenalina della sala mi chiudono lo stomaco. Penso ai milioni che attraversano questo palazzo, soldi che non vanno da nessuna parte, che non servono a costruire niente, soldi per i soldi, che girano a vuoto. Dopo due ore di casinò non riesco a dare un senso a quello che vedo. Perché la gente viene qui? Ci si diverte davvero a Macao? Si può godere dell'architettura chiassosa da parco giochi? Del kitsch, del cattivo gusto, della lacca d'oro che copre tavoli, sedie e lampadari? Del fatto che non si veda mai la luce del giorno, dentro questi edifici sontuosi? Godono le persone che si aggirano per i corridoi pacchiani e sfarzosi, perennemente tirati a lucido, godono dei drink scadenti in omaggio, dell'aria condizionata a 5 gradi, delle fontane in stile neoclassico illuminate dai neon? Godono della promessa di entrare nelle sale VIP, dello status, quindi, dell'illusione dello status?
La risposta che mi do è, sempre, no.
Ma lo so che a parlare è la parte più infantile di me, che non conosce sfumature e che non cerca mai di capire. La parte di me che non vuole ammettere che anche io, se avessi i soldi, mi getterei nel gioco. La stessa che se si sente messa in crisi mi spinge alla ritirata, che mi fa fare un passo indietro e dire questo è bello e questo brutto, loro sono i cattivi, noi siamo i buoni. Lo so, e allora provo a fare uno sforzo. It’s Fun! It’s Macao! è il motto dell'ufficio turistico ripetuto su manifesti, schermi e volantini. Lo prendo sul serio. Mi concentro sulle persone e sui volti, cerco di immaginare – senza giudizio, senza storcere il naso – le vite di chi scommette.
La signora di settant'anni seduta alla sinistra del croupier. Sorridente, benestante. Sarà nata in un villaggio rurale del Guangdong? Ora magari vive a Shenzhen. Il figlio lavora per una grande azienda, non un'azienda tech, una meno spericolata, diciamo un'azienda agroalimentare, magari produce quelle bevande a base di latte in polvere e vitamine che qui si vendono ovunque. La signora è contenta di essere a Macao. Da vecchia sua madre giocava tutto il giorno a Mah Jong: lei da vecchia gioca a carte al casinò. Non c'è tanta differenza.
Accanto a lei c'è un ragazzo di vent'anni con una felpa bianca Balenciaga. Studia ingegneria? Non so, potrebbe essere chiunque. Poi c'è una ragazza. Ha un'amica in piedi, dietro di lei. Si danno consigli con frasi sussurrate e dimesse che non spezzano mai la trance da gioco dell'altra. Decido che la ragazza è indonesiana, e da qualche anno, cinque o sei, lavora a Hong Kong come domestica per una giovane coppia di inglesi. Mi immagino anche loro: lui manager di una casa d'aste di lusso che negli ultimi tempi sta puntando a Oriente. L'ufficio ai piani alti di una torre di West Kowloon. La compagna invece faceva la hostess, ma ora ha smesso. Le ha chiesto lui di lasciare il lavoro. Lei ha detto di sì, e si è pentita troppo tardi. La casa la paga l'azienda. È grazie ai colleghi di lui che la coppia ha trovato la ragazza indonesiana. Non è difficile per degli expat a Hong Kong trovare collaboratrici domestiche, ma trovarne una buona? La ragazza indonesiana sembrava perfetta. Pulita, silenziosa, timida. Da sei anni vivono assieme, in un appartamento grande ma non lussuoso, al 53esimo piano di un palazzo alto che però non si può definire un grattacielo, che non ha il glamour di un grattacielo. Al contrario di molte altre come lei, la ragazza indonesiana è contenta del suo lavoro. Ha ancora 24 anni. Ha capito che per ora, per essere felice, le conviene non farsi troppe domande. Nell'appartamento ha una stanza piccola, buia, poco più di uno sgabuzzino. Prima di addormentarsi sente i rumori dei condizionatori e degli scarichi dei vicini, i borborigmi di tutto il palazzo. Ha un solo giorno libero a settimana, ma non ne fa un dramma. All'inizio però i padroni la trattavano meglio, erano due ragazzi giovani anche loro, ricchi, a loro modo progressisti, inebriati dalle possibilità della nuova vita a Hong Kong. Dopo un anno o due qualcosa si è rotto, la signora ha iniziato a incattivirsi, gli ultimi tempi sono stati un inferno, il clima in casa è insostenibile, i padroni litigano tra loro e litigano con lei, l'accusano di rompere le cose, di essere diventata più lenta, distratta, sciatta. La settimana scorsa la ragazza indonesiana ha deciso, per la prima volta, di chiedere un permesso. È a Macao per distrarsi. E funziona. L'idea del casinò non le piaceva, ma l'amica l'ha convinta. Ora stanno lì, una accanto all’altra, mentre insieme puntano poco e perdono tutto, ma ridono.
Ci sono due occidentali al tavolo. Il primo è un americano. Di Pittsburgh, Cleveland o Detroit. Quarantacinque/cinquant'anni. Per una vita ha lavorato nell'azienda di famiglia, in Cina vendeva pezzi di elettronica per apparecchi medici. Poi un giorno che era in trasferta ha risposto a un annuncio dell'agenzia di stampa Xinhua. Cercavano giornalisti angolofoni. Ha scritto subito e subito gli hanno risposto. Non credeva che sarebbe stato così facile. È tornato negli Stati Uniti solo per un paio di settimane e poi di nuovo a Beijing. Scrive di motori, di tornei di tennis, a volte cavalli. Brevi resoconti, roba che si fa con la mano sinistra. Quasi ogni mese prende l'aereo e va a Macao per un paio di giorni. Non d'estate, che fa troppo caldo, davvero non si respira. Scommette e beve. Si diverte. Un anno fa un collega dell'agenzia gli ha passato il contatto di un servizio di escort del luogo. Ora non sa più se va a Macao per giocare o per scopare.
Il secondo è un signore inglese di sessant'anni, elegante, con un sorriso rigido saldato in faccia. Somiglia a Colin Firth, forse, ma una versione più marcia, più dissoluta. Gioca, beve, si aggiusta il ciuffo, ride, gioca, beve. Che lavoro fa non riesco a immaginarlo, qualcosa con la finanza, non è uno dei nostri, è uno dei cattivi, mi dice la voce stupida che non riesco a zittire.
Poi c'è un uomo, accanto a me. Atletico, sulla cinquantina, jeans e t-shirt nera. Ha la spocchia dei nuovi ricchi. Si guarda intorno distrattamente senza incrociare lo sguardo di nessuno, tocca le fiches, le posa sul bordo con una piccola cerimonia e poi le lancia sul panno verde. La soddisfazione che prova è incomprensibile per me. Conto anche io assieme a lui le puntate che gioca ogni volta: a ogni giro prende in mano più o meno un mio stipendio: ogni trenta secondi un mese. Vince perde perde perde vince perde. Non gli cambia niente. Non gli frega niente. Ha fatto tutti questi soldi come? In counseling, technology, automotive, manufacturing, quello che è. Guardando la cerimonia del suo gioco mi esplode di nuovo l'ansia. E mentre sento l'affanno trasformarsi in un attacco di panico, vengo preso da un pensiero finale: il mondo somiglia più a persone come lui che a persone come me.
#1 STASERA @THE RABBIT MILANO
Stasera a Milano festeggiamo il nostro centocinquantesimo numero e siete molto invitati. Iniziamo con una mezz’ora di letture, in compagnia di alcuni amici e amiche di MEDUSA: Severino Antonelli, Eleonora Casale, Pietro Minto e Stella Succi. Poi si beve, se volete. Ci saranno anche delle copie del libro a prezzo speciale.
#2 LE FORESTE RICRESCONO?
Rispetto alla situazione globale delle foreste, cioè i tassi di deforestazione e rimboschimento e la natura di questi rimboschimenti (informazioni che possono essere volatili e quindi imprecise), la FAO pubblica ogni anno dei dati mediati sull’ultimo quinquennio. Quello di Our World In Data è un approfondimento che, se avete tempo, vi consigliamo di leggere (in inglese).
Il tira e molla delle foreste non è una novità degli ultimi due secoli di combustibili fossili, né un’esclusiva della Grande Accelerazione degli ultimi ottant’anni. Sappiamo già per esempio che l’enorme consumo di legname dell’Impero Romano, e il bisogno di terra da arare, ebbero un impatto sul clima del pianeta; così come la piccola “era glaciale” tra Quattrocento e Ottocento fu provocata (probabilmente, ma i fattori sono molteplici) dalla morìa della peste nera, che portò a una riduzione della manodopera e il rimboschimento dei terreni arati. L’elemento che accomuna queste epoche è l’attività dell’uomo: e quando è troppa, c’è un problema.
L’ultimo secolo è un problema.
Nel report di Our World In Data possiamo trovare una tabella che mostra le trasformazioni della superficie terrestre occorse negli ultimi 10.000 anni, dall’Era Glaciale (quella vera) a oggi.
Siamo passati dal 57% al 38% di terre abitabili coperte da foreste: in dieci millenni, abbiamo perso un terzo delle foreste di tutto il mondo, due volte gli Stati Uniti. Fino a cinque millenni fa, nel mondo vivevano 50 milioni di persone: come se (neanche tutta) la popolazione italiana fosse distribuita in tutto il pianeta. Nel 1700 d.C., siamo arrivati a 603 milioni di abitanti: più della metà della terra abitabile del mondo era ancora coperta da foreste. Poi è arrivato il Novecento, e in un secolo abbiamo perso l’equivalente di tutte le foreste scomparse nei diecimila anni prima.
C’è qualche buona notizia? Sì, più o meno.
Negli ultimi decenni molti dei paesi occidentali (ricchi) stanno marciando su tassi di rimboschimento incoraggianti: la Scozia è tornata addirittura ai livelli di mille anni fa. Si chiama fase di post-transizione, ed è direttamente proporzionale allo sviluppo economico di una nazione: posti dove, in poche parole, il rimboschimento viaggia più rapido della deforestazione.
Il Sud del mondo, come dicevano i nonni, aspetta e spera.
Quello che state leggendo è il numero 150 di MEDUSA: il numero 0 l’abbiamo mandato il 4 ottobre 2017 alle 11:36.
La lunghezza media dei testi inediti di ogni MEDUSA si aggira sulle 12.000 battute spazi inclusi.
Questo significa che negli ultimi anni vi abbiamo mandato 1.800.000 battute circa.
Più o meno 300.000 parole. Perdonateci.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 422,20 ppm (parti per milione) di CO2.