SWIFT
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di ecosistemi e imperi, di paesaggi e paura, di La Hulpe e Ginevra, ideali e spazzatura, incendi e piscine.
Benvenuti, questo è il numero centosette di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not. MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di ecosistemi e imperi, di paesaggi e paura, di La Hulpe e Ginevra, ideali e spazzatura, incendi e piscine.
In questi anni ci siamo trovati a parlare di incendi, alluvioni e pandemie; ormai appena svegli ci troviamo a rincorrere l’impensabile, e l’impensabile blocca il pensiero, figurarsi la scrittura. Poi, nell’ultima settimana, il palazzo mondiale (insieme all’impianto che lo tiene in piedi, quello che proviamo a raccontare qui dentro, la rete energetica) è cambiato per sempre.
La guerra in corso si inserisce in un quadro storico e geopolitico molto complesso, ma non per questo irricostruibile (tornano in mente letture di ogni slavista principiante: Kappeler, i volumi di Graziosi, Strada e altre). Non può essere ricostruito qui, per spazio e competenze; così come l’oscenità della morte di innocenti non può essere raccontata, rimessa in scena, umiliata dalla retorica. Aldilà quindi e all’interno di ovvie considerazioni tetre, politiche e psicologiche: da oggi ci troviamo in un nuovo paesaggio. Per inquadrarlo potrebbe servire un grandangolo.
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In questi giorni ho riletto delle pagine di un saggio di Peter Turchin (uno storico controverso, negli anni criticato e annusato da varie testate, Guardian, Atlantic ecc) che si chiama War and Peace and War. Nel libro Turchin analizza le dinamiche di espansione e collasso degli Imperi, da quello romano a quello zarista. Nella seconda parte, “Imperiopatosi”, l’autore si concentra sul Basso Medioevo.
Tra il 1300 e il 1450 in tutta Europa, soprattutto in Francia, la crescita della curva demografica si è bloccata. Si è ridotto il tasso di natalità, è aumentato quello di mortalità. Per diversi motivi: il lungo ciclo pandemico della peste nera, gli scontri di potere tra le élite che portavano a guerre massacranti (non così diversamente dalla crisi del Trecento italiano), guerre che portavano a gravi carestie, e da qui povertà diffusa, criminalità, brigantaggio.
Thomas Basin, un vescovo normanno del tempo, racconta “uno stato di devastazione tale che dalla Loira alla Senna, e da lì alla Somma, essendo assassinati o messi in fuga i contadini, quasi tutti i campi sono rimasti per diversi anni non solo coltivati, ma disabitati...”.
I campi erano lasciati incolti, eccetto nei pressi delle fortificazioni dove, ai primi avvistamenti, le campane iniziavano a rintoccare nelle torri; la gente che faticava nei campi tornava al paese, lungo le mura si preparavano le difese. I boschi godevano, indifferenti della miseria umana, le temperature si abbassavano.
Tutta questa coreografia si inserisce, scrive Turchin, in quello che viene definito landscape of fear (“il paesaggio della paura”), un concetto preso in prestito dalle scienze naturali. Il paesaggio della paura è una mappa-dispositivo che mette in relazione le scelte degli individui in un ecosistema: nella mente delle prede, la mappa della paura si sovrappone a quella fisica, riconfigurando il paesaggio. Ci saranno allora vette di paura, valli di tranquillità, spazi virtuali che si mescolano a quello materiale.
La minaccia, anche soltanto la minaccia della minaccia, altera profondamente lo spazio sociale: nel basso medioevo, nell’Italia di cinquant’anni fa, nell’Ucraina degli ultimi anni.
Gli effetti della paura trasformano a cascata tutti gli attori di un ecosistema, dal mondo vegetale (che si tocca e odora) alle curve demografiche, motori biologici che trasformiamo in algoritmi.
Nei programmi di informazione destinati a milioni di persone, la televisione – seguendo la sua struttura, come una seconda natura – alimenta il nuovo paesaggio della paura. E così l’informazione online. È qualcosa che abbiamo già visto succedere rispetto ad altri conflitti, soltanto moltiplicato all’esasperazione: l’informazione stessa e (comprensibilmente) le persone che ci lavorano vivono il paesaggio della paura, lo fortificano, ne allargano l’areale. Si allarga nel nostro paesaggio mentale, trasformando – come un suo attributo – anche quello esterno.
Il nuovo paesaggio della paura mescola bombe e conti bancari. La guerra si combatte su più fronti, alcuni più evidenti e rivoltanti, altri più astratti, ma non per questo meno rilevanti.
SWIFT sta per Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication: è un sistema che consente agli istituti bancari di tutto il pianeta di scambiare ogni giorno miliardi di dollari, in velocità e sicurezza, permettendo l’esistenza dei flussi commerciali che danno forma al mondo in cui ci troviamo a vivere: è una verità indifferente alla nostra opinione.
SWIFT ha sede a La Hulpe, “un comune belga di 7.224 abitanti, situato nella provincia vallone del Brabante Vallone”.
SWIFT è un dispositivo che diventa seconda natura e, come in un’operetta morale, parla una sua lingua:
I nostri pensieri più sentiti vanno a chi soffre le tragiche conseguenze umane dell'invasione russa dell'Ucraina. L'uguaglianza, la diversità, il rispetto reciproco e la cooperazione globale sono le fondamenta su cui poggia SWIFT, e gli ideali che sosteniamo come cooperativa globale e politicamente neutrale. [Nel 2012 l’Iran ha subito un’esclusione ritorsiva la cui efficacia è tuttora oggetto di discussione, nda].
SWIFT sostiene il flusso di valore in tutto il mondo, in più di 200 paesi, e dimostra cosa si può ottenere quando le persone si uniscono per il bene comune. Continueremo a sostenere la stabilità economica, la resilienza e la prosperità in tutto il sistema finanziario globale, a sostenere la risoluzione e la ripresa a lungo termine, nonché a sostenere le organizzazioni umanitarie politicamente neutrali attraverso i nostri programmi di responsabilità sociale aziendale.
Le riflessioni su questo linguaggio oggi devono restare in secondo piano, anche se resta degno di nota il ricorso all’astrazione di ideali, di neutralità politica, di bene comune. Il linguaggio della cosiddetta governance, altra parola magica.
Il racconto del presente è (spesso) ancorato a un mondo novecentesco. Le istituzioni che proteggono il futuro dell’Occidente oggi si trovano tanto a Bruxelles quanto a La Hulpe, tanto a Washington quanto a Ginevra, dove si decidono gli ISO Standard del mondo. Il quadro è complesso, tutto si tiene magari, ma aldilà delle nostre capacità di sintesi, di racconto coerente.
Il nuovo paesaggio della paura mescola bombe e conti bancari. Nella globalizzazione il mondo (ricco) si trova vincolato alle relazioni di interdipendenza più evidenti, più rapide, più letali e curative di sempre: tutto è stato sempre collegato, ma oggi è collegato ad alta frequenza. Le nostre credenze, gli ideali ricevuti, le deduzioni degli analisti; tutto, nel giro di qualche settimana, può diventare junk bond, titolo spazzatura.
Il paesaggio della paura può includere vittime e carnefici. Ieri pomeriggio l’account di un servizio di “intelligence geospaziale” ha raccontato un dettaglio ignorato dai mass media: gli strumenti di comunicazione interna dell’esercito russo non stanno funzionando come dovrebbero. I militari stanno ricorrendo anche alle vie radio, intercettabili da chiunque. ShadowBreak ha condiviso dei file audio scaricabili da qualsiasi computer, dove si possono sentire membri dell’esercito russo organizzare attacchi, denunciare il fuoco amico, lamentarsi della mancanza di rifornimenti, piangere.
Perché esistono file del genere? Perché ci troviamo nel caos di questa alta frequenza? Tra le illusioni che non guariscono, quella del controllo. Possiamo solo sperare che tutto questo finisca, scriverlo non costa niente. Finirà però più tardi di qualsiasi desiderio.
Scrive Turchin, l’entomologo che ora fa lo storico: ogni episodio di guerra intestina “si sviluppa come un’epidemia o un incendio boschivo. […] la violenza, [prima o poi], si estingue. Anche se le cause fondamentali che hanno portato all’origine del conflitto possono essere ancora operative, il ‘social mood’ dominante oscilla verso la cessazione dei conflitti a tutti i costi, e una tregua faticosa inizia a prendere piede”.
Buon senso, si dirà, in fondo Turchin non è nemmeno un epidemiologo, o un guardaboschi. La sua metafora è una banalità che cerca di mettere le cose in prospettiva, e torna utile in giorni dove le dimensioni sembrano schiacciate.
La scrittura cerca di seguire il pensiero, tra la paralisi e l’alta frequenza; scrivo di cose che si muovono a cicli, tra tempi profondi e interessi asimmetrici; ma sono verità che non c’entrano, che non bastano, è tutto osceno.
#1 LEZIONE DI NUOTO
Nel libro MEDUSA Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) usavamo una citazione dai diari di Franz Kafka per parlare del corto circuito paradossale che si accende nelle quotidianità delle persone quando piombano addosso, di colpo, i macigni della storia – che siano guerre, pandemie o devastazioni climatiche:
Il 2 agosto 1914, quando il governo tedesco decide ufficialmente di prendere parte alle ostilità, Franz Kafka, a Praga, annota su un quaderno:
La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio, lezione di nuoto.
Questo passaggio dei suoi diari è stato usato spesso per rinsaldare il mito di uno scrittore geniale e distante, talmente assorbito dalle proprie ossessioni, dalla “lucidità vertiginosa dei propri incubi”, come scrive per esempio Javier Cercas, da rimanere “indifferente alla storia”, estraneo alle questioni politiche, incurante persino dei grandi drammi del suo tempo.
Io invece ho sempre letto quella frase come se fosse un suo brevissimo racconto, dove Kafka, tutt’altro che disinteressato, descrive in un lampo, alla sua maniera, l’impotenza del singolo contro un accidente inconcepibile come lo scoppio di un confitto mondiale. Davanti alla guerra, che è un’epica impossibile da contenere in un unico pensiero, un uomo qualsiasi non può fare altro che cercare rifugio nella propria ridicola quotidianità, finché ce n’è una, e andare a lezione di nuoto. (...)
“La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio, lezione di nuoto” può essere letto come il racconto più breve mai scritto da Kafka: ha la levigatura di una barzelletta spietata, una scintilla assurda provocata dalla frizione di una cosa enorme contro un’altra assolutamente insignificante.
Elèuthera ha da poco pubblicato una nuova edizione di Kafka sognatore ribelle di Michael Löwy, un testo che, come scrive Giorgio Fontana nell’introduzione “apre orizzonti critici tutti da esplorare, dando al contempo un’altra salutare picconata all’immagine dell’opera kafkiana quale mera descrizione di un potere passivamente subit, e rivalutandone invece il carattere libertario”. Riportiamo un passaggio che ci siamo segnati, che può fare da appendice a quello che abbiamo scritto nel libro:
Tra il 1909 e il 1912 Kafka era vicino agli ambienti anarchici e anti-militaristi praghesi. La sua affinità con le loro idee è attestata da un passo dei Diari, in occasione di un viaggio in Svizzera nel 1911:
Impressione storica che dà un esercito straniero. È un'impressione che non esiste quando si tratta del proprio esercito. Argomento per l’antimilitarismo.
Gli stessi sentimenti antimilitaristi si ritrovano in alcuni frammenti letterari, per esempio in questo breve aneddoto:
Arrivarono due soldati e mi afferrarono. Io mi difesi, ma mi tenevano saldamente. Mi condussero davanti al loro comandante, un ufficiale. Com’era rutilante la sua divisa! Io dissi: “Che volete da me? Io sono un civile”. L’ufficiale sorrise e replicò: “Sei un civile, ma questo non c’impedirà di prenderti. L’esercito ha potere su tutto”.
(...) Sarebbe difficile riuscire a esprimere in modo più conciso, vivo e denso la diffidenza verso la “cosa” militare.
#2 ENERGIA
Il conflitto di questi giorni, com'è stato ovvio da subito, è anche una questione energetica. D’altra parte l’approvvigionamento, le fonti, i rapporti di dipendenza e di potere, oggi sono il fulcro della vita di un Paese e delle sue relazioni con il resto del mondo. La guerra in Ucraina ridisegnerà anche il futuro della lotta ai cambiamenti climatici. Antonio Scalari su Valigia Blu:
La transizione energetica è un processo complesso. È un insieme di azioni e politiche che coinvolgono tutti i settori dell'economia e della società. Il passaggio a un nuovo sistema di produzione energetico deve essere parte di una più ampia transizione ecologica, non soltanto tecnologica. Oggi stiamo realizzando che le fonti fossili non sono solo la causa del riscaldamento globale. Sono anche un'arma, militare e geopolitica, nelle mani degli autocrati come Putin, che ci minacciano, ci tengono in ostaggio e ci portano sull’orlo della guerra mondiale.
Nel frattempo, comprensibilmente con meno clamore del solito, è stato pubblicato un nuovo report dell’IPCC, il gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico. La BBC riporta il commento della professoressa Debra Roberts, co-presidente del panel, che usa, ci sembra per la prima volta con tanta decisione, l’aggettivo “irreversibili” per descrivere i cambiamenti e i danni a cui stiamo andando incontro:
Il nuovo documento indica chiaramente che i luoghi dove le persone vivono e lavorano possono cessare di esistere, che gli ecosistemi e le specie con cui siamo cresciuti e che sono centrali per le nostre culture possono scomparire.
Nei prossimi numeri cercheremo di raccontarvi le evoluzioni di un mercato energetico che sta vivendo trasformazioni altrettanto irreversibili.
#3 NUOVE PRESENTAZIONI
Nei prossimi mesi continueremo a portare ancora un po' in giro il libro. Il primo dei nuovi appuntamenti sarà a Milano, sabato prossimo, il 5 marzo, alle 17: finalmente siamo riusciti a organizzare qualcosa assieme a Laura Tripaldi – che Nicolò aveva intervistato quasi un anno fa, e di cui è appena uscito in inglese il suo splendido Menti Parallele, di cui Matteo aveva scritto una breve prefazione. Grazie alla libreria Anarres per l’occasione. Ci vediamo sabato a via Pietro Crespi 11.
Babyn Jar è un fossato nei pressi della città ucraina di Kiev.
È noto per essere stato lo scenario di una delle peggiori stragi dell’Olocausto, quella compiuta tra il 29 e il 30 settembre 1941. In quei giorni vennero uccisi 33.771 ebrei.
All'avvicinarsi dell'Armata Rossa, nell'agosto del 1943 i nazisti cercarono di occultare le prove. Vennero impiegati 327 prigionieri per esumare e bruciare i corpi. Il compito fu svolto in 6 settimane.
Martedì pomeriggio, alle 16:30, un missile russo ha colpito e abbattuto la torre tv di Kiev, adiacente al memoriale di Babyn Jar. Il numero delle vittime ucraine è ancora incerto.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 419,05 ppm
(parti per milione) di CO2.