AESTHETIC
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di piramidi e giochi proibiti, di Nintendo e studi dentistici, di backroom e poolroom, di cloache e politici.
Benvenuti, questo è il numero centoquarantatre di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di piramidi e giochi proibiti, di Nintendo e studi dentistici, di backroom e poolroom, di cloache e politici.
Non sapevo che vent’anni fa Michela Murgia avesse fatto parte di un grande gioco di ruolo online, che si chiamava Extremelot; il gioco, lo dichiarava nelle interviste, l’aveva aiutata a diventare una scrittrice, a credere nella costruzione delle fantasie, a dare voce ai suoi personaggi, lei poi ammessa tra i creatori di questo grande gioco dove nei raduni dal vivo, mi ha raccontato un ex giocatore, poteva capitare che si confondesse la realtà con l’invenzione, e con esiti anche nefasti, lì dove le catene di comando del gioco si replicavano nella vita vera, dove tocchiamo le cose.
Anni fa, in una fase di discreta sofferenza psichica, e insistente, mi sono trovato coinvolto in un gioco di ruolo, di quelli dal vivo. Eravamo una cinquantina di persone, credo, sparse in un grande edificio diroccato. Ricordo ancora bene – era la prima e ultima volta – la mia resistenza alle regole, il fastidio, anzi il disagio. Incarnare un’altra persona non era un gioco per me, ma una tortura della coscienza: faticavo a trovarle lo spazio necessario, faticavo già a trovare lo spazio per la mia; decidevo di non giocare, facevo anzi il minimo, temendo l’abbandono definitivo della realtà che avevo messo insieme da quando vivevo nella mente. La stessa realtà, si potrebbe obiettare, che mi stava asfissiando da ogni angolo. Quelle che mi rifiutavo di aprire forse erano le barriere dei ricordi, che certi giorni strisciano come blindi carcerari; altri sibilano, sembrano i cancelli perlati.
La memoria costruisce la persona, la persona difende la memoria. Ci torna ogni giorno, spolvera qualcosa, controlla in giro: la memoria che per millenni è stata una casa, e che oggi è un’interfaccia. Nel cervello diviso in cartelle la coscienza e il suo lavorìo, la rimembranza, si muovono in uno spazio tridimensionale, e lo fanno per illusione, come i poliziotti del Tremila nei film: lo fanno nonostante la realtà dell’esperienza quotidiana, sempre più simile a una linea tra soggetto e monitor.
La soglia tra reale e immaginario è anche il terreno dove Valentina Tanni, storica dell’arte, ha condotto negli ultimi anni una ricerca sul campo che è diventata infine un saggio. Exit Reality è un’esplorazione delle “estetiche di internet”, quel ribollire continuo di fenomeni culturali instabili, di sintomi febbrili ultracollettivi, multimediali e volatili. La tracotanza (“andare oltre con il pensiero”) di Tanni non risiede tanto nel tentativo di tassonomia, in fondo il folklore digitale nasce autocatalogandosi, ne ha bisogno per vivere, ma in quello di storicizzazione: la materia è ancora fresca, il pensiero la plastifica.
Negli anni su Medusa abbiamo affrontato il tema non di rado, per esempio raccontando all’apice del delirio pandemico le pratiche di Reality Shifting, o più di recente l’estetica Frutiger Aero:
È l’onnipresente estetica dell’interfaccia (ma anche della pubblicistica, design del prodotto, ecc) prosperata tra il 2004 e il 2013 circa. Un’estetica vaga il giusto per farsi flessibile, marginale ma non capziosa, dotata di un paio di prerequisiti, e ben chiari. […] Frutiger Aero sarebbe insomma l’estetica di transizione da un mondo ancora semi-analogico (Y2K) a uno compiutamente digitale. Un’estetica che si apre a spazio liminale, dove tutto è sospeso: lì da qualche parte, galleggia la materia e il suo ricordo.
Nel suo libro Tanni addirittura raccoglie da Reddit delle definizioni olfattive di questa estetica corporate, “agrumi e salviette umidificate, frutta dolce, corridoi delle scuole elementari, qualsiasi gomma aromatizzata fosse popolare in quel momento, oppure shampoo, menta e petricore (l’odore che si sente dopo la pioggia), il corridoio dei detersivi per il bucato in un negozio: l’odore di una piscina coperta”. Dopotutto quella olfattiva è una risposta fisiologica alla costruzione della memoria, sollecitata dagli screensaver, dalle console Nintendo e dalle poltrone degli studi dentistici, la memoria insomma di quando eravamo bambini.
Exit Reality è antropologia digitale, e per questo l’ho letto avidamente. Le ossessioni dell’autrice entrano in sintonia con le nostre, la ricerca di Tanni riflette sulla comunità e la celebra: in tempi di cambiamenti climatici e culturali, di frammentazione cognitiva e diaspora, a unire le persone sono le sensazioni, gli stati d’animo, le cosiddette vibrazioni (non è un caso se nell’ultimo anno abbiamo proposto più racconti e meno analisi; l’arte sulla tecnica).
Di particolare interesse è lo studio della derealizzazione e dei suoi effetti collaterali, l’alterazione percettiva che ci mostra il mondo come “lontano e irreale: i contorni degli oggetti non sono stabili, i colori perdono la loro brillantezza, tutto sembra sfocato oppure avvolto nella nebbia”, una condizione familiare (per distinguerla dalla schizofrenia o altre patologie, consiglio tra gli altri il diario di Sechehaye e Operatori e Cose di O’Brien).
Tanni ricostruisce a parole questa sorta di piramide della derealizzazione eretta negli ultimi dieci-vent’anni di cultura internet. La base è ampia, deve raccogliere il peso, e si forma di tutte le sperimentazioni sensoriali, da quelle uditive (ASMR) a quelle tattili e visive, tipo slime e video di feticismi vari. A stringersi prima del vertice fantasmatico (che sarebbe il Reality Shifting, un ibrido postmoderno tra proiezione astrale e sogno lucido), c’è il tronco delle esplorazioni psico-ambientali, la comunità devota agli spazi liminali: labirinti di corridoi ingialliti dai neon (backroom), piscine piranesiane che si sviluppano intrecciandosi (poolroom), spazi che non sembrano progettati da menti umane, e che hanno escluso l’umano da molto tempo.
Il capitolo dedicato a questo tipo di creazioni, “Lore”, è un notevole esercizio di scrittura. Le poolroom, ne sono convinto, sono evoluzioni del linguaggio poetico, e della ricerca di una verità (in biologia “evoluzione” non determina un elemento come migliore dell’altro, quelli sono i Pokémon; si può leggere San Juan de la Cruz e guardare Nobody here a ripetizione, Philipp Larkin e il weirdcore possono convivere).
C’è chi le definisce “visioni dell’estinzione”, un’etichetta sbrigativa e morbosa, millenarista. Sono invece riflessioni sulla soglia, paesaggi liminali della coscienza: il liminale, ricorda l’autrice, è una categoria che nasce con l’antropologia, negli studi intorno ai riti di passaggio.
Originariamente, si tratta di uno stato mentale e/o sociale, più che fisico: è il momento esatto in cui stiamo per diventare ma ancora non siamo, è il limbo tra l’adolescenza e la vita adulta, tra la vita scolastica e quella lavorativa, tra uno stato psicologico e un altro, tra la veglia e il sogno. Talvolta la sensazione di abitare uno spazio liminale può protrarsi per anni, dando la sensazione di non riuscire a raggiungere un ipotetico “stadio successivo” di cui tuttavia non si conosce l’esatta fisionomia e collocazione.
Non c’è molto da aggiungere. Ogni epoca costruisce il suo impianto mitico per spiegarsi la vita, l’origine della sofferenza e il passare del tempo: le persone nate alla fine del Novecento, quelle che passano tanto tempo al computer, si stanno trasformando in animali strani e nuovi.
#1 TORNA IL FESTIVAL CON BELLEVILLE: SABATO E DOMENICA
Ci siamo! Sabato e domenica, si terrà la nuova edizione di 2084, il festival che curiamo con Marco Rossari, grazie al coordinamento di Francesca Cristoffanini e alla Scuola di scrittura Belleville.
Quest’anno avremo ospiti, tra gli altri, Ben Lerner, Elvia Wilk, Geoff Dyer, Francesca Coin. Cliccando sulla foto si trova il programma completo con tutti i nomi:
Vi aspettiamo sabato 16 (dalle ore 16) e domenica 17 settembre (dalle ore 11), all’EastRiver di Milano. L’ingresso è libero previa registrazione fino all’esaurimento dei posti.
#2 GRANCHI, ALIENI, CLOACHE E ROVINE
Difficile che non abbiate sentito parlare di Callinectes sapidus, l’arcinoto granchio blu che negli ultimi mesi si è espanso nelle zone del delta del Po, in Emilia Romagna e in Veneto, dove sta sterminando la popolazione di vongole, distruggendo gli allevamenti e diventando quindi – grottescamente com’è d’uso da noi – protagonista del dibattito politico italiano.
Callinectes sapidus appartiene all'ordine dei decapodi, lo stesso che comprende specie che ci sono più familiari: aragoste, gamberi e gamberetti, scampi. È originario della costa orientale degli Stati Uniti, predilige gli estuari dei fiumi, le zone lagunari sabbiose e fangose; ha esplorato negli anni la costa, in su fino al Canada e in giù in Argentina. In quelle zone è sempre rimasto, però, confinato in ecosistemi adatti a sostenere la sua presenza. In soldoni predava ma aveva anche predatori: pesci, uccelli, tartarughe marine.
Nel Mediterraneo è arrivato a metà del secolo scorso, poi nell’ultimo ventennio si è espanso anche nell’Adriatico, e qualche mese fa ha scoperto che i più grandi allevamenti di vongole italiani sono in Veneto e lì si sta trovando benissimo. La sua crescita sembra inarrestabile. (“Questo spacca tutto, fa un disastro”, ha detto Zaia).
Perché proprio ora? Su Nature Italy Chiara Sabelli fa il punto su “cosa sanno gli scienziati sull'invasione del granchio blu”. Per quanto complessi siano gli studi di questo tipo, le cause più probabili di questa invasione aliena sembrano essere quelle più facili da immaginare. Ovvero: il riscaldamento delle acque ha reso più appetibili le aree costiere più a nord, la siccità del Po ha permesso all’acqua del mare di farsi strada nell’entroterra (quello che viene chiamato cuneo salino), e così Callinectes sapidus ha scoperto gli allevamenti.
Delle specie invasive è spesso impossibile liberarsi. Quale sarà il nostro modo di convivere con questi nuovi vecchi alieni? “La promozione del consumo di granchi blu potrebbe dare vita a una nuova industria. Nel 2015, il governo tunisino ha stanziato fondi per incrementare le esportazioni di granchio del Mar Rosso e oggi ci sono circa 50 impianti di lavorazione che servono i mercati internazionali. ‘L'anno scorso l'impianto più grande ha esportato 5.200 tonnellate di granchio blu e dà lavoro a migliaia di persone’, spiega Ben Souissi. ‘All'inizio i pescatori volevano che questa specie scomparisse, ma ora chiedono alle autorità una regolamentazione per proteggerla’.”
Le storie umane e animali si intrecciano in maniere spesso imprevedibili. Basta prendere il Potamon fluviatile di Roma. Un granchio di fiume che invece di insediarsi tra le anse del Tevere ha scelto di vivere nell’area archeologica del Foro di Traiano. I canali di scolo della Cloaca Maxima, tra i Mercati Traianei e la Basilica Ulpia, avrebbe offerto loro un ecosistema perfetto: protetti dai pericoli del mondo, sempre ben idratati dall’acqua che scorre negli antichi tunnel e quella stagnante sulle zone argillose del Foro, si nutrono di detriti vegetali, invertebrati e rifiuti. La colonia romana è talmente pasciuta e protetta, perfettamente adattata all’ambiente, che ha sviluppato nel tempo un gigantismo che la fa spiccare all’interno della specie.
Da quanto questi granchi vivono lì? I ricercatori dell’università di Roma li studiano da 30-40 anni. Secondo alcune ipotesi, potrebbero essersi insediati al Foro già duemila anni fa, prima di intraprendere l’evoluzione che li ha portati alle dimensioni e alla vita lenta di oggi.
#3 OCCHIO VS OMBELICO
El Ojo, cioè l’Occhio, è un misterioso isolotto nascosto nel delta del fiume Paranà, tra Buenos Aires e Campana, in Argentina. L’Occhio è una sfoglia di terra quasi circolare del diametro di 120 metri, e ruota su se stesso. La pupilla dell’Occhio, durante l’anno, non smette mai di muoversi.
Ovviamente sull’Occhio si sono accumulate tutte quelle leggende intorno agli alieni, l’Occhio come portale dimensionale, patria dei rettiliani, e compagnia volante. Facendo qualche ricerca sulle isole lacustri però, si scopre che su scala mondiale il fenomeno non è poi così raro: si tratta di formazioni vegetali che crescono su grappoli di radici galleggianti che si distaccano, per effetto degli agenti atmosferici, dai bordi degli specchi d’acqua: con il tempo si aggregano in un isolotto spontaneo, prima deforme, poi sempre più arrotondato dal continuo rimpallarsi sui bordi.
E poi, ecco… c’è un bell’Occhio anche in Italia, magari è più piccolo (è un terzo rispetto a quello argentino), ma quanto è dolce?
Si trova sul lago di Posta Fibreno, al confine del Lazio con l'Abruzzo e il Molise, in provincia di Frosinone. Già Plinio il Vecchio ne parlava nella sua Storia Naturale, discostandosi dall’analogia oculare: “Marco Terenzio Varrone racconta che l'ombelico dell'Italia è il lago di Cutilia, in cui galleggia un'isola, nella campagna reatina”. Dall’ombelico all’occhio, cosa dice dei nostri tempi? Noi pensiamo niente.
Dopo 10 anni sta per concludersi l’Human Brain Project, uno dei più grandi, ambiziosi, discussi progetti di ricerca mai finanziati dall'Unione Europea.
Ci hanno lavorato 500 ricercatori.
Gli scienziati del progetto hanno pubblicato in questi anni migliaia di articoli, hanno creato mappe 3D dettagliate di almeno 200 regioni cerebrali, sviluppato impianti cerebrali per il trattamento della cecità e programmaot supercomputer per modelli cerebrali.
Il progetto è costato 600 milioni di euro.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 418,40 ppm (parti per milione) di CO2.