PIGRIZIA
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di riposo e formicai, di inframondo e scuole medie, di Amazzonia e omicidi.
Benvenuti, questo è il numero centoventotto di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di riposo e formicai, di inframondo e scuole medie, di Amazzonia e omicidi.
Non vedo più Dario da molti anni. Lavora a Londra come business analyst per una grossa data cloud company. Non capirei il significato di queste parole se ogni tanto non ci sentissimo ancora su WhatsApp per farci gli auguri di compleanno e aggiornarci sulle nostre vite. Ha una moglie olandese, Marieke, che lavora per una società di consulting, e due bambine che non ho mai conosciuto dal vivo. Dario mi manda le foto dei loro weekend sorridenti a Hastings, Margate, Seven Sisters o sulle Cotswold Hills. Io ricambio con foto di cimeli della nostra amicizia, regali che ci siamo fatti negli anni, appunti dell’università che ritrovo nei cassetti oppure pagine di vecchi libri. Lui risponde quasi sempre con la stessa frase: «madonna Matteo», e anche se è ormai un running joke tra di noi, non ho ancora capito se la usa per esprimere nostalgia, compassione o rimprovero. Comunque poi cambia argomento e mi chiede dei miei o di come va il lavoro, oppure la discussione si perde, uno dei due si scorda di rispondere e ci risentiamo dopo qualche mese, a Natale o per il compleanno successivo, ci mandiamo un’altra foto e ci chiediamo di nuovo come stiamo.
Io e Dario ci siamo conosciuti alle medie. Era un periodo in cui le amicizie si accendevano con grande facilità – il tifo per la stessa squadra o una battuta a ricreazione –, e poi altrettanto velocemente si disintegravano. La nostra amicizia invece crebbe con lentezza. Forse all’inizio sentivamo entrambi quella diffidenza istintiva che due persone troppo simili provano quando si ritrovano nella stessa stanza.
Durante gli anni delle medie passavamo interi pomeriggi a guardare il soffitto, a casa sua o a casa mia. È questo che ci ha uniti, all’inizio: eravamo pigri. Restavamo lì in salotto a non fare nulla per delle ore. Lasciavamo evaporare il tempo seduti di traverso sulle poltrone, oppure d’inverno sdraiati per terra sui tappeti. Ci abbandonavamo a un torpore meditativo assoluto che riusciva ad addomesticare ogni nostra inquietudine. Fissavamo il soffitto. A casa dei miei, un appartamento degli anni Sessanta in una via trafficata del Nuovo Salario, il soffitto era basso, bianco e uniforme. Noioso. Il soffitto di casa di Dario invece era alto e signorile, leggermente arcuato agli angoli di ogni stanza. In salotto c’erano delle decorazioni in stucco color crema; un omaggio ai fregi senza tempo dei palazzi nobili di Venezia, diceva il padre di Dario imitando il tono lezioso che si presupponeva dovesse avere chi abitava in un appartamento del genere. Loro lì ci erano finiti invece per caso, o per fortuna, o grazie a qualche conoscenza, fatto sta che erano in affitto a equo canone da un ente pubblico che gli chiedeva qualche centinaia di migliaia di lire al mese, un decimo del valore di mercato per un posto come quello, centocinquanta metri quadri in uno stabile storico del centro, che con i loro stipendi – il padre era impiegato della Divisione trasporto regionale delle Ferrovie dello Stato, la madre segretaria in uno studio notarile – non si sarebbero potuti permettere.
Sembra assurdo pensarlo adesso, ma faticavamo per riuscire a ritagliare quelle ore di vuoto dentro le nostre giornate di tredicenni piene di impegni dopo la scuola, con le commissioni, le ripetizioni di latino, gli allenamenti di calcio o pallavolo al centro sportivo e il deprimente corso di informatica in parrocchia. E poi bisognava mentire a casa, la sera, quando non potevamo di certo confessare ai nostri genitori di aver perso tutto quel tempo invece di fare i compiti. Infine ci voleva una buona determinazione anche la mattina dopo, con i compagni di classe, prima della campanella, mentre copiavamo all’ultimo momento utile gli esercizi di matematica che non avevamo fatto. Perché neanche agli amici avremmo potuto raccontare quelle ore di completo niente che trascorrevamo insieme, a malapena ormeggiati alla realtà; non avrebbero capito, pensavamo, e preferivamo allora inventare lunghissime avventure a Zelda che non c’erano mai state. Oggi mi è difficile credere che ce ne stessimo davvero lí a fissare il soffitto senza fare altro. Di sicuro invece parlavamo un po’, commentavamo cose di scuola, compagni di classe e ragazze. Eppure, nel ricordo, lo spirito di quelle ore in casa è proprio quello di un’autentica trance.
Ci ripenso e mi accorgo che non c’è nulla di simile nella mia vita adulta. Non mi basterebbero mesi di ritiro mindfulness in qualche villa in Toscana per tornare a visitare i luoghi estatici della mente che riuscivamo ad abitare con tanta facilità. Una porta del cervello si deve essere chiusa, col tempo, tirandosi dietro la possibilità di vivere quella pace, quel distacco perfetto.
(...)
Ma essere pigri non era un dono. Poteva essere un tormento, e non soltanto per lo stigma che bisognava sopportare. Essere pigri voleva dire sentirsi sempre fuori luogo, vivere un’eterna irrequietezza per il fatto di non aver un posto nel mondo. Per spiegare questa sfumatura dello spirito, [Dario aveva una teoria che] partiva da lontano.
Di solito pensiamo alla natura in termini di lotta per la sopravvivenza, come se la vita dovesse essere solo sopraffazione, ma la verità è che praticamente tutti gli animali passano gran parte del loro tempo a non fare nulla in particolare, a farsi un giro o riposare. È vero per i vertebrati, gli invertebrati, i mammiferi e gli uccelli. Nessuno va perennemente a caccia di cibo. È vero persino per gli insetti sociali, che associamo a un grandioso tasso di operosità. Neanche le api sono sempre occupate. Alcuni fuchi maschi anzi non faticano mai, aspettano la stagione degli amori e poi muoiono. Il lavoro dentro un alveare, compresa la cura del miele e l’allevamento della covata, viene fatto solo da pochi esemplari più giovani, mentre gran parte degli altri abitanti gironzola per il nido. La stessa cosa vale per gli industriosi e proverbialmente instancabili formicai. Nella massa vorticosa del superorganismo di una colonia di formiche c’è anche una classe di individui, di solito piuttosto ampia, dedita all’inattività, che campa senza affanni, al massimo sbriga faccende di poco conto o passa qualche comunicazione alle altre formiche.
E in fondo anche Homo sapiens, come gli altri animali, per decine di migliaia di anni è sopravvissuto, ha girato, ha mangiato, è scappato, ed è stato mangiato. Ma si è soprattutto riposato moltissimo. Poi inventando l’agricoltura ha imboccato la strada senza ritorno della specie dominante, che ha successo perché si strappa dalla natura, si espande, modifica gli ecosistemi, domestica sé stessa e gli altri esseri viventi. Ma cosí l’essere umano si è condannato all’insoddisfazione. Ha creato il concetto di scopo solo per poi riconoscere di non poterne avere uno. Siamo diventati delle bestie insolenti destinate a uno stato di infelicità perenne. C’era stata invece un’età dell’oro, in cui eravamo cacciatori-raccoglitori, morivamo giovani per qualsiasi principio di malattia ma almeno eravamo organismi autonomi, che alla vita non chiedevano molto se non di potersela prendere con calma.
E noi pigri, diceva Dario, sentiamo con troppa chiarezza l’inutilità degli affanni e delle preoccupazioni a cui è condannato invece l’animale umano che si è tirato fuori dal mondo e si è andato a intrappolare nel circo della produttività e del buonsenso contemporaneo. Noi siamo maggiormente esposti a queste contraddizioni, all’inganno che in fin dei conti è la quotidianità: svegliarsi la mattina e partecipare alla patetica messa in scena del vivere in società.
Perché mai ci era capitato in sorte di dover essere dei sismografi così sensibili, chi ce l’aveva comandato? Di sicuro c’era solo che noi due non eravamo capaci di sopportarne sempre il peso, e ogni tanto crollavamo in un abisso di negatività. Chi ci stava vicino ci ripeteva le solite ricette: che l’unico modo di stare alla larga dalla tristezza è obbligarsi a fare qualcosa, che solo la buona lena scaccia la malinconia, che bisogna sempre essere attivi, che o si partecipa all’esistenza oppure ci si stufa di tutto. Non ascoltavamo.
Foto di Francesco Natalucci.
Breve estratto dal racconto Buoni a nulla. Fondamenti di una teoria dell’ozio da poco uscito nella collana ebook Quanti di Einaudi.
#1 NON SAPPIAMO NULLA
Nel libro MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo), scrivevamo tra le troppe cose anche della Guerra dei metalli rari di Guillaume Pitron. È un saggio che segue gli sconvolgimenti geopolitici e ambientali della corsa a quel nuovo oro che sono le terre rare. Le terre rare e una manciata di altri metalli sono materiali essenziali per il funzionamento del mondo presente e futuro: li usiamo per costruire dispositivi digitali, veicoli elettrici, pale eoliche e pannelli solari. E li useremo sempre di più.
Pitron ha da poco pubblicato Inferno digitale, una sorta di sequel dell’altro, una nuova inchiesta che racconta, in modo ancora più ampio, la parte concreta, politica e materiale dell’eterea impalpabile epoca digitale. Pitron cerca di illuminare le oscurità della filiera che fa muovere internet: data center, cavi oceanici, sorveglianza, impatto ecologico e guerre geopolitiche. Giancarlo Cinini l’ha intervistato per Il Tascabile:
Dietro l’economia della conoscenza, che è quella di internet, c’è una profonda ignoranza della maniera in cui funziona quest’economia. L’economia della conoscenza ha l’ambizione di fornire la conoscenza di tutto salvo che di se stessa. Nei fatti non ci abbiamo nemmeno pensato, questa questione non è stata nemmeno posta, non la sapevamo porre. Ora ci poniamo il problema e tutt’a un tratto ne sorge un mondo, che ho chiamato inframondo, assolutamente vertiginoso: vertigine di nuovi mondi che non sono per nulla virtuali ma molto fisici, sottomarini, sotterranei, extra atmosferici, e costituiscono una vera realtà palpabile, anzi un estratto di realtà che ci fa prendere coscienza del fatto che ignoriamo più cose di quante credevamo sapere. In una società super-informata paradossalmente non sappiamo nulla.
#2 AMAZZONIA
Lula e la ministra brasiliana per le Popolazioni indigene, Sônia Guajajara, sono andati in visita nello stato del Roraima (dimensioni circa del Portogallo), nel nord del Brasile, dove vive la popolazione indigena degli Yanomami. Negli anni del governo Bolsonaro il Roraima è stato invaso da minatori e contrabbandieri che hanno avvelenato fiumi (con il mercurio) e abbattuto foreste, privando le comunità yanomami di fonti di cibo fondamentali. Secondo lo schema secolare dei conquistatori, inoltre, i minatori hanno diffuso malattie come la malaria: e per malaria, diarrea e malnutrizione negli ultimi anni sono morti almeno 570 bambini. Lula parla di genocidio.
Come scrive Tom Phillips, grazie al governo Bolsonaro i garimpeiros sul territorio (minatori su piccola scala; ma nel Roraima sono arrivate anche le società miliardarie bolsonariste) sono passati da 5.000 a 20.000, quadriplicando.
Negli ultimi tempi gli Yanomami erano diventati noti a una parte di pubblico occidentale grazie a La caduta del cielo, il racconto epico di Davi Kopenawa, sciamano portavoce del popolo Yanomami del Brasile. Può tornare utile un saggio che ha scritto Nicolò per il Padiglione Italia della scorsa Biennale Arte di Venezia.
Scrivendo La caduta del cielo Kopenawa ha permesso un dialogo fino ad allora inedito tra la sua cultura (la lingua yanomami, la vita spirituale, il sistema valoriale) e quella dell’uomo bianco; nonostante una storia di massacri, mutilazioni, epidemie: “Non vogliamo strappare i minerali dalla terra, né che i loro fumi d’epidemia ridiscendano su di noi! Vogliamo che la foresta resti silenziosa e il cielo rimanga chiaro così da poter distinguere le stelle quando giunge la notte. […] Se il nostro soffio di vita si interrompe, la foresta diventerà vuota e silenziosa. I nostri spettri a quel punto raggiungeranno tutti quelli che già vivono numerosi sul dorso del cielo. Allora, malato come noi a causa dei fumi dei Bianchi, il cielo comincerà a gemere e inizierà a rompersi”.
La foresta amazzonica è un organismo intelligente che non riconosce la topografia squadrata degli stati nazione. Risponde a altre logiche e va lasciata in pace. E invece (sempre dallo stesso testo, con qualche leggera modifica):
La strategia estrattiva si deve declinare in uno spazio inospitale e alieno. Nascono così nel dopoguerra, nelle anse della foresta amazzonica, città di frontiera che si chiamano direttamente Shell, come l’industria che le rende possibili. Da Shell, in qualche decennio, l’eterogenesi dei fini di missionari, esercito e industria petrolifera ha lavorato fino al cosiddetto ultimo miglio ricorrendo a una forma di violenza aumentata, capace di unire tutto il sapere della tradizione colonialista allo sfruttamento di nuove tecnologie. Il lavoro indivisibile di satelliti e segnali radio ha inquadrato l’Uno della foresta, indivisibile fin dai recessi del tempo profondo, per procedere alla sua frammentazione, quantificazione, rielaborazione.
L’alleanza tra evangelizzazione e industria fossile s’innesta insomma nel terreno occupato per secoli dalla macchina della piantagione, un processo che nel tempo si è articolato secondo linee specifiche e non generalizzabili; qualcosa che non è cambiato nel tempo è però l’applicazione cieca di conoscenze e strumenti assemblati a Occidente. Dall’Europa nasce la visione euclidea del pianeta, una Terra divisa a fette e quindi razionalizzabile (secondo la ragione-calcolo e la razione-porzione), una Terra misurabile e sfruttabile. E così è nata una nuova epoca geologica, innescata dalla forza imperialista che mescola uomini e continenti, virus e denaro, animali alloctoni e regimi dittatoriali.
E le conseguenze di questa visione continuano a essere mortifere. È notizia di questi giorni l’arresto del mandante degli omicidi del giornalista britannico Dom Phillips e dell’attivista brasiliano Bruno Araújo Pereira, uccisi la scorsa estate nello stato brasiliano di Amazonas. Ne avevamo parlato in una MEDUSA che si chiama FERRO:
Phillips aveva cinquantasette anni; Pereira ne aveva quarantuno ed era sposato e padre di tre figli. Phillips era un giornalista freelance che si dedicava da anni all’emergenza climatica e alla tutela della biodiversità: Pereira era un esperto di questioni indigene brasiliane. Stavano lavorando insieme, facendo ricerca per un libro di Phillips che si sarebbe chiamato Come salvare l'Amazzonia.
Ogni 40 giorni muore una lingua.
Entro la fine del secolo potrebbero sparire più di 3.000 lingue. Secondo Anastasia Riehl, direttrice dell'unità linguistica Strathy della Queen's University di Kingston, la maggior parte delle lingue del mondo si trova in parti del mondo sempre più inospitali.
Vanuatu, una nazione insulare del Pacifico meridionale che misura 12.189 km², ospita 110 lingue, ovvero una per ogni 111 km².
La provincia di Venezia ha una superficie di 2.049 km².
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 419,89 ppm (parti per milione) di CO2.