FERRO
di MEDUSA. In questo numero leggerete di piscine e fornaci, di albe e utopie, di attivisti e antropologi, di YouTube e NFT, ghisa e droni, Amazzonia e Le Guin.
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In questo numero leggerete di piscine e fornaci, di albe e utopie, di attivisti e antropologi, di YouTube e NFT, ghisa e droni, Amazzonia e Le Guin.
È un peccato che nel loro L’alba di tutto, David Graeber e David Wengrow non abbiano dato spazio all’età del Ferro euroasiatica, perché mi avrebbero aiutato a capire tutte le sfumature del mio video preferito su YouTube.
Ci arrivo presto, intanto due parole sul loro lavoro. I due ricercatori hanno provato a ribaltare molti dei preconcetti che a quanto pare gravano ancora sul racconto dei millenni precedenti alla nascita della storia, i millenni delle ultime ramificazioni neolitiche, a cavallo della cosiddetta rivoluzione agricola. Si trattava di società che davano peso all’uguaglianza sociale? Alla pace, alla cooperazione? Società che preferivano l’avventura della caccia o il ritmo dei campi?
La visione di Graeber e Wengrow prevede una dissacrazione delle certezze che per molti risalgono ai tempi della scuola dell’obbligo, un bivio riduzionista che riconducono al confronto tra il buon selvaggio rousseiano (corrotto dalla gerarchia sociale portata dall’agricoltura) e il leviatano hobbesiano (cioè lo Stato che emerge per proteggerci dalla nostra Natura, crudele e sadica). Due filosofie politiche che inquadrano la disuguaglianza sociale come “tragica necessità”. L’obiettivo (ambizioso) del loro saggio è sottolineare il ruolo decisivo – che hanno ricoperto nella storia e che possono ancora ricoprire – delle strutture politiche collettive decentrate e anti-verticistiche.
I miti della mezzaluna fertile e l’epica dell’agricoltura sono tra le fondamenta delle nostre nozioni sul mondo, addirittura la base di una certa teleologia implicita, perché siamo qui, dove andiamo. Nella nostra preistoria, che è fatta di fatti quanto la storia, la schiavitù è scomparsa e ricomparsa a cicli, scrivono Graeber e Wengrow, così come la guerra: non c’è una linea del tempo lungo la quale si procede verso un presunto progresso, anzi, anche oggi continuiamo a mescolare e rimescolare errori (genocidi e sfruttamenti) e scoperte (antibiotici e diritti). Il tentativo dell’Alba di tutto è ricordare che l’avventura dell’uomo non è solo un mare di violenza patriarcale e ingiustizie sadiche e che le realtà sociali storicamente comunitarie e pacifiche (“la Creta minoica o la cultura Hopewell”) non possono essere relegate, solo perché ex post, a delle felici eccezioni.
Sintetizzando millenni di preistoria a noi invisibile e secoli di dibattito furioso: Homo sapiens nel tempo ha abitato ambienti naturali molto diversi tra loro, sviluppando forme sociali altrettanto diverse, per ragioni tanto di contesto quanto culturali: “non esiste una forma originaria di società umana”. Cercarne una e modellarla rientra nelle ambizioni del mito, un bisogno primario che ci accompagna in tutte le epoche, come lo spreco artistico. Alcuni miti però sono più equi di altri, più pacifici, più femministi: lì possiamo trovare, e mi sembra questo l’obiettivo del saggio, nuove forme di speranza.
Lodevole dell’Alba di tutto non è tanto la ricerca spasmodica di nuovi dati o reperti da manipolare, quanto la costruzione di un nuovo punto di vista, una nuova strategia dell’attenzione. Come scrivono gli autori stessi, la volontà di concentrarsi “sui cinquemila anni in cui la domesticazione dei cereali non sfociò nella comparsa delle aristocrazie viziate, degli eserciti regolari e del peonaggio, anziché solo sui cinquemila in cui lo fece”; oppure concentrarsi su “cosa sarebbe accaduto se avessimo trattato il rifiuto della vita urbana o della schiavitù, in determinati luoghi e momenti, come se fosse importante quanto l’avvento di quegli stessi fenomeni in altri luoghi e momenti”.
Il ferro
Fatte queste premesse, passiamo a un reperto molto occidentale e molto maschile: l’ultimo video di Primitive Technology, un canale YouTube di cui ho scritto anche nel libro MEDUSA, recuperando appunti presi qualche anno prima:
Il nostro rapporto con il paesaggio e il selvatico, soprattutto per chi vive in città, oggi è più che mai lontano da un’idea «primitivista»; è un rapporto così surreale e contraddittorio da sviluppare strani fenomeni mediatici, esperienze curiose. Un esempio in questa direzione è Primitive Technology, un canale YouTube scritto, girato e montato da un uomo in calzoni che non parla mai, non ride, non piange, lavora soltanto; costruisce capanne, tegole, trappole per granchi, sandali, martelli idraulici, ricorrendo a materiali reperibili esclusivamente nella foresta pluviale del Queensland. I calzoni che indossa e la telecamera che riprende la scena sono gli unici strumenti assemblati grazie a processi non riconducibili al Mesolitico. L’unico paesaggio sonoro ammesso nei video è il rumore verde della foresta, un torrente lontano, il vento tra i rami, il frinire di animali ignoti. Il montaggio è asciutto e funzionale. Se Primitive Technology ha una morale, è quella di mostrare come siamo sopravvissuti al caos, ai più diversi aspetti fisiognomici del paesaggio; non saremmo mai esistiti, noi sacchi di carne afflosciata di fronte al monitor, senza sfregare rametti per millenni, senza bruciarci le mani. Primitive Technology ha incontrato un successo clamoroso. Tanto da far scaturire la nascita di decine di epigoni, con risultati parossistici, di documentari che vorrebbero riportarci all’armonia con la natura, ma che ricorrono tra una ripresa e l’altra a scavatori industriali per costruire assurde biopiscine sotterranee.
A differenza di chi prova a replicarne il delicato equilibrio, i video di Primitive Technology portano a speculazioni pure su arcani antropologici, come lo sviluppo della biomimesi, cioè quell’insieme di ricerche scientifiche, per lo più in campo robotico, che mirano a riprodurre tecnologicamente i processi e le dinamiche della natura. In uno dei video di Primitive Technology, per esempio, viene costruito un mantice, passo per passo, migliorando per gradi, tentativi: è un pieno che nasce dal vuoto, e le forme che non ha potuto assumere – in qualche modo – sembrano comunque parte di lui. Chi “ha deciso le sue linee, quale matematica? Per un istante nel design di un mantice ho visto unirsi natura e cultura, senza attrito.
Oggi le cose sono cambiate. C’è la siccità (ancora di più), gli NFT di Madonna, c’è Di Maio ministro degli Esteri e il cryptocrash, i fascisti primi nei sondaggi che tuonano contro “la finanza internazionale”, l’espulsione di Marco Rizzo dal Comunismo e dell’Italia dai Mondiali, le varianti sudafricane eccetera; eppure, John Plant, con i suoi bermuda, continua ad avventurarsi nel bush australiano per portare avanti il suo esperimento di civilizzazione.
Dopo anni, John Plant ha raggiunto l’Età del Ferro. La lavorazione, all’apparenza, è semplice: Plant è partito raccogliendo nei suoi bacili d’argilla i minerali di ferro che si trovano disciolti nel torrente vicino alla sua capanna, una soluzione che si trova in tanti corsi d’acqua in giro per il mondo. Una volta lasciato essiccare, il fango ferroso è stato cotto in una fornace piena di carbonella. Non serve aggiungere che carbone e fornace sono ideati e prodotti dalle mani di Plant. Le particelle di ferro si sono allora incastonate nei pezzi di carbone, andando a formare delle sferule metalliche, diligentemente sgranate dai carboni e raccolte in un recipiente.
Tornato alla fornace, Plant ha riversato le sferule in uno stampo inciso su argilla che ha poi piazzato alla base del piano di cottura; aiutandosi con un mantice, ha portato a fusione le sfere (che per la precisione sono di ghisa, che fonde circa a 1150C°; la differenza tra ghisa e acciaio è la presenza di carbonio: sotto il 2%, è acciaio). Ecco il risultato:
Una lama, l’età del ferro. Ogni società e ogni tempo vive i suoi miti, e sicuramente non va sottovalutato quanto del fascino di Primitive Technology possa essere ricondotto a questa perversione civilizzatrice, appunto una tecnologia testa d’ariete che porta a più cose, a cose meglio, a una continua espansione. Ma forse tra i suoi ammiratori siamo anche in tanti a divertirci come se quello di John Plant fosse soltanto un bellissimo gioco di ruolo.
Le rovine della preistoria
C’è un’ulteriore appendice che bisogna aggiungere a questa storia: perché, come scrivevo già nel libro, il successo di Primitive Technology ha portato negli ultimi anni a una serie di epigoni, altri “creator” che sono riusciti a copiare il formato, distorcendolo però molto e tradendo la filosofia di Plant e il suo rigore filologico. Una proliferazione di canali YouTube “primitive” e “survival” che sono riusciti a diventare ben più virali di PT e nei quali una serie di uomini seminudi e operosi costruiscono, dal nulla, solitamente nelle foreste cambogiane (ma anche in Vietnam e in Thailandia), “case da sogno” con tetti in paglia e piscine cristalline, arredamenti scheumorfici dove letti di fango vengono completati da testiere e pomelli di fango, scale a chiocciola inutili e altre pacchianate assortite, con un’estetica grossolana che ricorda quella di Gardaland o dei palazzi di Donald Trump. Anche a un occhio poco sospettoso è evidente che di primitivo c’è molto poco in questi lavori, e che è più che probabile che, al di fuori dalle immagini mostrate, gli uomini seminudi e operosi usino del cemento e si avvalgano dell’aiuto di strumenti elettrici.
Dietro a questi canali d’altra parte c’è uno studio millimetrico, molto attento e cinico, della viralità dei video di YouTube e delle parole chiave che possono infilarsi tra le maglie degli algoritmi generando visualizzazioni per contenuti a volte anche molto disturbanti: prima che venisse rimossa dalla piattaforma, un’altra serie di successo e girata dagli stessi autori delle piscine cambogiane mostrava bambini “selvaggi” del sudestasiatico che grugnivano e mangiavano animali esotici.
Ci si potrebbe domandare in chiusura qual è il destino di tutte queste costruzioni improbabili. Beh, una volta completate vengono abbandonate nella foresta, mentre si parte a scavare una nuova piscina poco più in là.
Una ripresa di qualche anno fa, la panoramica aerea di un drone, mostra una zona verde, selvaggia, primitiva, ma puntellata e deturpata da cantieri, progetti abbandonati, sacchi di materiali, rifiuti vari.
Ogni società e ogni tempo vive i suoi miti.
#1 L’OMICIDIO DI DUE ATTIVISTI
Dom Phillips e Bruno Araújo Pereira hanno trascorso le ultime settimane della loro vita con un gruppo indigeno di difesa del territorio. Obiettivo del gruppo è la documentazione delle attività illegali di un intreccio abusivo di interessi che include pescatori, taglialegna e cercatori d'oro. L’area in cui sono stati avvistati l’ultima volta si chiama Javari, ed è una terra indigena protetta che ospita una delle ultime tribù indigene incontaminante del pianeta. La protezione dello Javari è una responsabilità della Fundação Nacional do Índio (FUNAI), che si occupa della salvaguardia delle ventotto tribù amazzoniche riconosciute come “incontaminate” (delle duecento e oltre presenti in Brasile). Bruno Araújo Pereira era alla guida del Department of Isolated and Recently Contacted Indians.
A metà giugno la Polizia federale ha trovato del "materiale organico umano" nella giungla; gli effetti personali di Phillips sono stati individuati in una borsa sott’acqua. Phillips aveva cinquantasette anni; Pereira ne aveva quarantuno ed era sposato e padre di tre figli. Amarildo da Costa de Oliveira, un colono della zona, è stato arrestato e ha confessato il delitto; dopo di lui, è stato arrestato anche il fratello, che però nega ogni coinvolgimento. Secondo la stampa brasiliana i colpevoli potrebbero essere otto.
Phillips era un giornalista freelance che si dedicava da anni all’emergenza climatica e alla tutela della biodiversità: Pereira era un esperto di questioni indigene brasiliane. Stavano lavorando insieme, facendo ricerca per un libro di Phillips che si sarebbe chiamato Come salvare l'Amazzonia.
#2 UNA SCRITTRICE FANTASTICA
Torniamo invece alle possibili appendici che potremmo aggiungere al nostro libro: ce n'è una che meriterebbe di essere scritta e che riguarda la fantascienza. Ci sono molte autrici e autori che avremmo voluto citare di più e meglio e che solo per mancanza del giusto spazio, o di armonia con le altre cose che stavamo scrivendo, non siamo riusciti a inserire tra le pagine.
Una delle esclusioni più spiacevoli è stata quella di Ursula K. Le Guin. Qualche settimana fa SUR ha pubblicato la sua raccolta di saggi, I sogni si spiegano da soli, curata nell'edizione italiana da Veronica Raimo. Matteo ne ha scritto per Il Tascabile, riflettendo sulla visione del mondo e della scrittura di un'autrice che ci sta a cuore.
Circa 4.500 anni fa un singolo seme generato da due diverse specie di fanerogame si è radicato al largo della costa occidentale dell'Australia.
Oggi questo esemplare di Posidonia australis è la pianta più grande della Terra, con una superficie di circa 200 km².
Ovvero circa 20.000 campi da rugby, o poco più di 3 volte l'isola di Manhattan.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 420,42 ppm (parti per milione) di CO2.