MONNEZZA
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di pini e Traiano, di gechi e di fossili, di plastica e vento, di Ortese e di carta.
Benvenuti, questo è il numero centoquaranta di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di pini e Traiano, di gechi e di fossili, di plastica e vento, di Ortese e di carta.
State guidando su una strada extraurbana che fila parallela alla costa, a qualche chilometro dal mare. C'è una rotatoria ogni tanto, un po' di traffico a singhiozzo, c'è qualche chiosco isolato che vende frutta e verdura, ci sono case, villini, condomini sparsi tra le onde dei campi arati.
Sulla vostra destra appare una stradina non segnalata. Si incurva subito e si abbassa, si infila in un sottopassaggio e supera uno stradone più grande. La imboccate. Sbucate dall'altra parte e qualcosa è cambiato. Siete in piena campagna. Il panorama è quello che era cento anni fa, o mille, che tanto è uguale, quando la città era ancora lontana. Prima che attrici, registi e scrittori transumassero in zona rendendo glamour il litorale, prima dell'invenzione della villeggiatura, prima delle colonie per la gioventù fascista. Prima che i papi bonificassero le paludi piantando boschi di pini domestici. E forse prima ancora, prima dello Stato pontificio, prima degli insediamenti romani, prima delle ville patrizie e del porto di Traiano. Le colline salgono e scendono senza troppa convinzione nel polverio umido di mezza estate, nascondono solo due o tre case rurali, qualche fienile, forse delle stalle.
Il mare non si vede da qui, e potete convincervi che la spiaggia non sia la pipinara che è oggi, che sia ancora selvaggia, incontaminata, infestata di bufale, vipere e ramarri come la racconta Federigo Tozzi negli anni Dieci. E allora forse anche l'acqua non è ambrata e schiumosa, ma brilla di quell'azzurro polinesiano che racconta Fellini negli anni Cinquanta.
La stradina d'asfalto crepato dal sole attraversa i campi tra ginepri, finocchiella e sterpaglie. Le vostre fantasticherie vengono interrotte però da alcune interferenze. In mezzo al verde e all'ocra iniziate a riconoscere alcuni colori più vivaci. Un blu, un bianco troppo acceso, un violetto fastidioso. Sono solo schegge, all'inizio. Vi fermate con la macchina in uno slargo, sotto un albero, subito prima di una curva. Continuate la strada a piedi e iniziate a osservare meglio che cosa si nasconde lungo il ciglio della strada.
È pieno di cose. Ci sono la base e l'asta di un ventilatore a piantana, marca Rowenta Essential, ci sono tre sedili WC marca Pozzi Ginori con vistose sbrecciature, c'è un cumulo di frammenti di mattonelle in gres porcellanato colore pietra leccese. C'è una copia del libro La cucina a microonde. 155 ricette a confronto con la cottura tradizionale (Piemme, 1994). La copertina è ormai completamente sbiadita. C'è un numero indefinito di bottiglie di plastica di acqua minerale (Lete, Guizza, Sant'Anna) e di bottiglie di vetro da 66 cl (Peroni, Poretti, Heineken). Decine di sacchi di plastica nera che non riescono a contenere i fiotti di putrefazione al loro interno. Ci sono nove blocchi di cemento forato, quattro grandi sacchi pesanti con su scritto "SABBIA DI FIUME VAGLIATA 0/6". Tredici carcasse di pneumatici in vari stati di decomposizione; sono adagiati in una torre indisciplinata, che per metà è crollata a terra. Ci sono decine di pacchetti di sigarette vuoti (soprattutto Camel), metri interi di grossi cavi bianchi avvolti su loro stessi di cui non intuite neanche il possibile utilizzo. Continuate a camminare. Ci sono altre buste di plastica nera che qualcuno ha squarciato per sbirciarci dentro: spuntano da lì medicinali scaduti, altre bottiglie e lattine, e vasi, di quelli piccoli per piante da balcone, in plastica colorata: sono viola, gialli, verdi e neri. Per tutto il percorso affiorano tra l'erba stenta mascherine di colori diversi, mascherine chirurgiche bianche e celesti, mascherine ffp2 bianche, nere, rosa, mascherine da bimbo con disegni di pesciolini, mascherine da bimba con disegni di cuoricini. Un forno a microonde Whirlpool, laccato in bianco con una enorme metastasi di ruggine. Alcune cassette da ortofrutta in plastica nera. Poi per qualche metro non c'è nessun grande rifiuto, solo un tappeto insistente di frammenti di plastica, ceramica, carta, cartone, tessuti e vetro, frammenti di materiale che non si ricomporranno mai più in qualcosa di sensato. Dopo qualche metro c'è un radiatore in alluminio a sei colonne, chiazzato dalla corrosione. Tre secchi per vernici da 20 litri. Una batteria per auto VARTA. Calcinacci, imballaggi in plastica, vetri rotti. I cadaveri di tre porte finestre. Una piccola pila di reti elettrosaldate, ormai dissaldate, che arrugginiscono lì, accanto a un mucchietto di tondini anche loro imbruniti dall'acqua. C'è una grande lastra ondulata e sfilacciata agli angoli: è di amianto o di PVC? E poi liquame e altre buste nere, decine di vecchie scarpe da corsa lacere, altri mattoni, bottiglie, pezzi di elettrodomestici. Dopo un po' non riconoscete neanche più gli oggetti, è solo un mare di monnezza.
Avete camminato per quindici metri. La strada va avanti così per altri sette chilometri. Il muso della vostra Panda coperto di polvere spunta da dietro la curva. Non passa nessuno, neanche un alito di vento.
#1 COSE AZZURRE
È uscito in questi giorni per Adelphi Vera gioia è vestita di dolore, una raccolta delle lettere che, negli anni Quaranta, Anna Maria Ortese inviò alla sua amica Marta Maria Pezzoli, detta Mattia. Sono frammenti che mostrano la sensibilità e la lingua unica di Ortese, la sua scrittura attraversata da intuizioni destabilizzanti, inverosimili, folli (erano proprio queste ossessioni che le permisero di immaginare, come abbiamo già raccontato, una comunità interspecie fatta di esseri umani e altri animali).
A Napoli, Ortese va ad ascoltare un concerto di Igor Markevitch. Scrive:
Ho assistito a tutto il concerto in uno stato d’animo tra curiosità, ansia, dolore. Quando sono uscita, la mia amica Lidia, mi ha detto: «tu sei stravolta». Lo ero. Specie una musica: Notte sul monte calvo, mi aveva fatta soffrire. Tu capisci, Mattìa, la musica, cioè lo spirito, nascendo come un vento da quegli strumenti, mi veniva incontro, su su fino al loggione, con inaudita violenza. E io che non capisco nulla di musica, la sentivo però come l’aria, stringermi, soffocarmi, torturarmi meravigliosamente.
È tormentata però anche da una febbricola persistente, forse è tifo, forse è un'infezione batterica, forse non è nulla. Ma nella malattia trova una sorta di conforto:
Un altro dottore è venuto ieri e mi ha ordinata una medicina che dovrebbe fare andar via quel po’ di febbre. Ma questo, lo confesso a te, m’impaura. Quando io sarò perfettamente sana, eccomi di nuovo di fronte a me stessa. Era così... confortante, dolce, ascoltare ier sera il dottore, quando parlava di una «limitazione di respiro al polmone sinistro» e accennava a una probabile «infiammazione della pleura», alle iniezioni di calcio, ecc., e che bisogna mangiare. Questo, vedi, è un piccolo passaporto, una speranza vigliacca di poter salvarmi da ogni lotta, da ogni fango – che tanto già me ne sale dentro. E invece, io credo, guarirò.
Un controsenso, a cui se ne aggiungono altri mille: vive per scrivere e detesta scrivere, vuole abbandonare tutto, ci ripensa:
Ogni volta (e sono anni) che mi metto a scrivere, qualcosa mi ferma e dice: è inutile – che importa? – no, non lo fare – non perderti – non distrarti – non toccare, sopratutto non toccare questa roba (le passioni, i casi). – Eppure ci sono cose azzurre, sante, delicate in questo mondo. Ma per lo più si tratta di cose sparite.
#2 SAGOME
Qualche tempo fa ho scritto un racconto (qui avevamo pubblicato le prime pagine). In questo racconto il narratore ricorda gli anni che ha passato, dall'infanzia alla post-adolescenza, accanto al migliore amico, un genio precoce capace di costruire una sua complessa teoria filosofica sull'ozio. Il narratore, invece, anche lui pigro di natura, è un fallito di talento, incapace di scrivere qualcosa di buono:
In attesa che mi venisse l’ispirazione per il grande romanzo della pigrizia, avevo iniziato a scrivere racconti più brevi i cui protagonisti erano versioni deformate di Oblomov o di Bartleby a cui mescolavo qualcosa delle nostre ossessioni. A Dario non piacevano quasi mai. Ricordo bene i commenti lapidari che scarabocchiava sui miei fogli come se fossero incisi su un monumento alla mia mancanza di talento, i solchi delle lettere che dicono:
QVI AGGIVNGI ALTRO
POCO INTERESSANTE
DEVI CORRERE PIV’ RISCHI
Qualche mese dopo mi sono riletto Il brevetto del geco, di Tiziano Scarpa. Cercavo una scena in particolare, c'entrava una fiera d’arte e un artista frustrato che la visita dopo aver deciso di abbandonare la carriera da artista. Ho aperto il libro e come prima cosa ho trovato invece un altro passaggio, questo qui, una riflessione di quello stesso artista frustrato, che pensa cose orribili sulla sua arte, e che…
Avrebbe dovuto scolpirle, quelle parole. Ma non su una lapide. Sulla cornice di una lapide vuota. Immaginò sé stesso che intagliava quelle parole a una a una e che, mentre lo faceva, si riprendeva in un video. Ci sarebbe voluta tutta la lentezza necessaria a inciderle sulla pietra, incavando le aste e le curve delle lettere, le gambette graziate della scrittura capitale quadrata:
NON È CHE, SENZA VOLERLO, IO VOLESSI PROPRIO QVESTO? NON È CHE LA MIA ARTE, COSI' COM'È, CONTA NON PER LE POCHE OPERE CHE PRODVCO, MA PER QVEL CHE MI COSTRINGE A VIVERE?
Insomma questa scena deve essermisi piazzata nel subconscio prima di sparire dai ricordi. (Prego che possa passare per un omaggio e non per il plagio bruttino che può sembrare). Il brevetto del geco comunque è pieno di pagine geniali. Cito solo un altro esempio tra tanti, anche perché è il passaggio che ha ispirato (questa volta in maniera consapevole) la MEDUSA che avete letto oggi. Si parla dell'acqua della laguna di Venezia, acqua carica di "spurghi, perdite oleose, batteri, detriti, pelurie, pattume dissolto, bave, alghe putrefatte, cadaveri animali e umani, secoli di vita morta e diluita".
Sott'acqua si sentiva macinare il rombo delle eliche. I motori dei vaporetti e delle chiatta da trasporto si impastavano in un unico borgorigmo. Sprofondavamo, inoltrandoci nel verde acqueo sempre più denso, sempre più scuro; la luce non riusciva a farsi spazio in quella opacità collosa, andavamo giù, sette metri, dieci, dodici; il verde trascendeva sé stesso nel nero; toccammo il fondo, un borotalco incatramato; tastammo sagome di alabarde, blister, cordami, dvd, elmi, fanali, granchi, hula-hoop, insonorizzatori, joystick, kayak, lavatrici, mandibole, nacchere, obici, preservativi, quadrelli, rocchetti, scolapasta, tibie, uncini, wc, xilofoni, yo-yo, zecchini.
(Matteo)
Da fossili di denti di Paranthropus robustus di 2 milioni di anni fa, sono da poco stati ottenuti i dati genetici più antichi di un antenato di un essere umano.
Nel 2016, un altro gruppo di ricerca aveva ottenuto sequenze di proteine da gusci d'uovo di struzzo di 3,8 milioni di anni fa.
Il più antico DNA di ominide di cui si ha notizia è invece un genoma di Neanderthal di 400.000 anni fa.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 422,47 ppm (parti per milione) di CO2.