TITANPOINTE
di Nicolò Porcelluzzi. Che fine hanno fatto i detective? Cenni di un’indagine psicogeografica, all’ombra dei grattacieli in fiore.
Benvenuti, questo è il numero centottantatre di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di torri anonime e bibite al lampone, di presidenti traffichini e pareti specchiate, di Edward Snowden e Raymond Chandler.
Non sono i primi a fiorire, come i mandorli e i pruni. Nell’emisfero boreale i peri sbocciano poco dopo i ciliegi, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, insieme ad altri alberi da frutto che si possono trovare negli angoli più inaspettati di Manhattan. Non di rado infatti, in giro per l’isola, il panorama viene graziato dall’accostamento delle fioriture ai vetri neri delle torri.
A chi si è perso e non sa che fare, quei fiori bianchi e rosa suggeriscono promesse di rinnovamento; per gli insetti a cui si rivolgono invece, sono più simili ai fornelli del gas accesi nel buio, o alghe fluorescenti che fluttuano nel mare infrarosso. Forse però la promessa resta la stessa, a dispetto delle apparenze, e dopo tutto questo tempo e tutti questi fiori, la bellezza è ancora negli occhi di chi guarda.
Uno dei ricordi più belli della 5th Avenue è la vista di un grattacielo nero che in uno dei suoi quattro vertici, invece di un angolo retto, mostrava una composizione di gradoni e rientranze di alberi in fiore di un bianco immacolato. Disposti in una strana piramide rovesciata, si trattava di ventuno Pyrus calleryana, una specie nativa dell’Estremo Oriente. Per l’esattezza, erano dei cultivar di quella specie, un genotipo artificiale che si chiama pero di Bradford.
Originario dell’Estremo Oriente e introdotto negli Stati Uniti nel 1963, l’anno della morte di Kennedy, si tratta di un albero tenace, rinomato per i suoi fiori abbondanti e lucenti. È noto anche per il suo odore rancido, di pesce marcio o peggio, e per essere una specie pericolosamente invasiva, tanto che in diversi stati americani la sua compravendita è stata bandita.
Il grattacielo si trova al civico 725 della lunga strada che poi costeggia Central Park, ed è anche noto come Trump Tower. Per molti anni, uno dei suoi ascensori dipinti d’oro portava direttamente all’attico della famiglia Trump. Alto duecento metri, è tuttora la sede operativa della Trump Organization.
Facendo esperienza del palazzo, entrando nella sua hall e passeggiando per i piani concessi al pubblico, non può lasciare indifferenti il conflitto tra il contegno nippo-minimalista dell’esterno e gli interni placcati d’oro che sembrano progettati su Minecraft da un bambino strafatto di Monster al lampone.
Il progetto è di un architetto modernista, Der Scutt, mentre gli interni sono stati decisi anche e soprattutto dal Presidente. Trump si era innamorato di Der Scutt quando si era imbattuto nel suo One Astor Plaza in Times Square, e nei suoi vetri scuri, destinati per questioni di natura a sposare ogni anno il ritorno della primavera.
Allo stesso modo, torno ciclicamente a parlare di grattacieli, forse per il loro fascino massone, per le cime che sfumano nelle nebbioline, le storie delle persone che li hanno progettati. Forse perché c’è qualcosa nelle metropoli che ci guarda di nascosto, sparendo appena giriamo l’angolo. Ci moltiplica in milioni di specchi fissi e mobili, mescolandoci alle altre vite.
Un giorno, mentre andavo a caso per Church Street ho percepito uno strano campo di energia. Qualcosa che si rifiutava di riflettere. Al semaforo ho alzato gli occhi e all’incroco con Thomas Street ho visto un’enorme torre di cui non avevo mai sentito parlare. Era alta, da piegare il collo, e di un colore che di solito le torri non hanno, perché l’agouti è un colore che appartiene alla natura; è quella tinta delle pellicce selvatiche, tra il grigio e il marrone, che ricopre i felini e i canidi, le lepri e i roditori… ho scoperto l’agouti anni fa da Michele Gabriele, che cercava per delle sue sculture il colore base dell’animale, del selvatico; è un colore che nasce da piccole variazioni pelo per pelo, una tecnologia cangiante, la stessa che permette all’enorme torre senza nome di mescolarsi all’ambiente, portando la montagna a Tribeca.
La sua energia promanava dall’assenza di qualcosa, un’assenza fin troppo evidente – ma proprio per quello inafferrabile allo sguardo nei primi secondi in cui ci si posa: la torre era senza finestre. Mancava qualsiasi interfaccia che permettesse uno scambio di vedute tra l’interno e l’esterno, un compromesso che ci aspettiamo anche dal palazzo più istituzionale.
Centosettanta metri di muraglia liscia, rasa, con l’eccezione di due file di enormi bocchettoni alieni progettati per raffreddare il contenuto del grattacielo. Oltre a 33 Thomas Street, uno dei nomi della torre è infatti “AT&T Long Lines Building”, perché è stato costruita negli anni Settanta per contenere gli apparecchi di commutazione telefonica di una delle principali società di telecomunicazione al mondo. Per buona parte del Novecento, AT&T ha goduto del monopolio delle reti statunitensi. Tuttora, i suoi cavi ricoprono 127 nazioni.
Il palazzo è stato progettato da John Carl Warnecke durante la Guerra Fredda, pensando quindi alle conseguenze di un eventuale fallout nucleare. In quel caso, grazie alle proprie forniture di gas e acqua, e alla sua autonomia energetica, la torre può diventare il rifugio di 1.500 persone per due settimane. Warnecke è morto nel 2010, qualche mese dopo il collega Der Scutt, ed è stato uno di quegli architetti che cambiano il destino di un Paese, tra il demiurgo e il palazzinaro. Ha progettato una lunga schiera di edifici istituzionali, incluso il monumento funebre di JFK su ispirazione di Jaqueline, della quale è stato l’amante nei primi anni della vedovanza di lei, prima che gli preferisse Onassis.
Sebbene lo scopo di Warnecke fosse quello di costruire “una fortezza del XX secolo”, l’AT&T Building è una grossa centralina telefonica.
Tutto questo fino al 2016. A mezzo secolo dalla costruzione della torre, The Intercept ha rivelato un altro dei suoi nomi: TITANPOINTE. La torre è uno dei centri di sorveglianza più importanti degli Stati Uniti. L’inchiesta giornalistica, basata sui leak di Edward Snowden, ha dimostrato come la struttura sia stata utilizzata dalla NSA per intercettare comunicazioni di ogni tipo: telefonate, fax, email e videoconferenze transitanti attraverso le infrastrutture di AT&T.
Nei documenti trafugati il nome in codice TITANPOINTE, insieme ad altri, è considerato “exceptionally controlled information”, la categoria superiore al classico top secret.
I documenti hanno svelato una collaborazione particolarmente stretta tra AT&T e il governo federale americano dopo gli attentati dell'11 settembre 2001. In un decennio, l'azienda avrebbe fornito “miliardi“ di comunicazioni all'amministrazione Bush, cedendo volontariamente email di cittadini non americani e offrendo supporto tecnico per operazioni di spionaggio presso la sede dell’ONU. Si tratta di un programma di sorveglianza che ha permesso di intercettare le comunicazioni di istituzioni internazionali come FMI, Banca Mondiale, Unione Europea e Nazioni Unite, oltre ai governi di 38 Paesi tra cui il nostro.
È una storia di nove anni fa. Vi ricordate quando facevano notizia i furti di dati, la distruzione della nostra privacy, e Snowden andava sul TG1?
In un saggio dedicato a Raymond Chandler, l’autore di Il grande sonno e Il lungo addio eccetera, alla sua concezione del noir, Frederic Jameson (uno dei pilastri della critica letteraria del Novecento, è morto l’anno scorso) ricostruisce le tecniche grazie alle quali l’autore americano è riuscito a proporsi come l’anello tra la ricerca modernista e la letteratura di massa.
Jameson dedica diverse pagine all’organizzazione dello spazio nei libri dello scrittore. Secondo il critico, Chandler riesce a ricreare la mancanza di senso degli spazi pubblici abitandoli con quella percezione impalpabile della sproporzione, per esempio distribuendo strani mobili in sale d’attesa oceaniche, dove si muovono corpi che non sono né di una misura né dell’altra, e allestendo nella serie delle sue opere una infinita topologia dell’Ufficio.
Nei noir di Chandler gli uffici dei ricchi e dei potenti sono la rappresentazione spaziale della loro distanza dalla norma, la stessa che c’è tra chi guarda e chi viene guardato: ci sono gli uffici-case del malaffare, le case-uffici della prostituzione, e l’insieme delle due come i casinò, una delle imprese simbolo della dinastia Trump, disseminati di telecamere prima che diventasse una pratica incoraggiata dai sindaci e dai padri di famiglia.
Nei romanzi di Chandler non ci sono troppe telecamere. Ciò che è insignificante resta senza significato, come la faccia senza volto di uno sconosciuto nel nostro palazzo, l’ombra di sfuggita. La faccia resta senza volto, fino a quando il crimine glielo restituisce; lì si attiva il significato, insieme alla ricerca del detective.
Ecco a me sembra che nonostante oggi noi si conosca il volto dei tanti criminali che ci stanno intorno, chi bombarda, chi spia, chi specula, non possiamo farci niente. Così è sempre stato, fino a quando è arrivato questo strumento che sto usando per farmi leggere, che ci ha dato l’illusione di poterci fare qualcosa.
Ci vorrebbe un detective, ma anche loro ci hanno illuso; anche il detective viene spiato, arrestato, bombardato. Ha ragione Jameson, il detective è un sensore: se è onesto, è capace di percepire la resistenza del mondo, e di opporsi a quello che non funziona.
Gli anni Dieci sono stati iniziati dalle figure di detective che con il passare del tempo e dei malanni i media e la storia hanno deciso di abbandonare: Julian Assange (con tutti i limiti del personaggio), Edward Snowden.
Pensavamo di avere trovato il detective sensore, ma il suo messaggio era troppo spaventoso, e la minaccia che ci annunciava inesorabile, troppo più grande e più forte di noi. Semplicemente, ragionavamo con il cervello di prima. Non era un nuovo inizio, era la fine del mondo conosciuto. Ci preparavamo a diventare la torre senza finestre.
Al momento dell’invio della nostra prima newsletter, il 4 ottobre 2017, nell’aria danzavano 402,54 ppm (parti per milione) di CO2.
Il tasso annuale di aumento dell’anidride carbonica atmosferica negli ultimi 60 anni è circa 100 volte più veloce dei precedenti aumenti naturali, come quelli verificatisi alla fine dell’ultima era glaciale 11.000-17.000 anni fa.
Se la domanda globale di energia continua a crescere, e viene soddisfatta bruciando soprattutto combustibili fossili, le emissioni umane di CO2 potrebbero superare i 75 miliardi di tonnellate all'anno entro la fine del secolo.
La CO2 atmosferica potrebbe superare i 800 ppm, una situazione che non si verifica sulla Terra da quasi 50 milioni di anni.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 430,47 ppm (parti per milione) di CO2.