TEMPESTA
di Ivan Carozzi. In questo numero leggerete di gelati e fango, canottiere e trombe d’aria, di astronauti e antropologhe, aghi di pino e brividi.
Benvenuti, questo è il numero centodiciannove di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di gelati e fango, canottiere e trombe d’aria, di astronauti e antropologhe, aghi di pino e brividi.
La mattina del 18 agosto 2022, intorno alle dieci e un quarto, mi trovavo all’interno di un bar molto frequentato, a Marina di Massa, per prendere un caffè e una brioche. Nell’arco di dieci minuti il cielo si è fatto buio, da grigio è diventato scuro, poi spaventosamente nero ed è iniziata a scendere una fortissima raffica di vento, fulmini e pioggia. Sono rimasto chiuso nel bar insieme agli altri clienti finchè non ha smesso di piovere. Mi sentivo al sicuro, ma fuori stava volando di tutto. Ogni tanto un fulmine illuminava la strada, le facciate dei palazzi spazzati dalla pioggia e le auto in transito con i fanali accesi. Mi ha ricordato la scena di un film visto chissà quanti anni fa, ambientato durante la prima guerra mondiale, dove le improvvise esplosioni illuminavano a giorno il campo di battaglia, mostrando per qualche secondo un pezzo di terreno fangoso o la fossa di una trincea col filo spinato.
Poco dopo ho scoperto che una tromba d’aria, partita da Livorno, si era abbattuta sull’ultimo tratto settentrionale del litorale toscano, poco più a nord del bar in cui stavo bevendo una tazzina di caffè. A una quindicina di chilometri in linea d’aria, una donna di sessantotto anni, Maria Laura Zuccari, moriva dopo essere stata centrata da un ramo. Era uscita di casa per soccorrere una senzatetto, una donna che viveva insieme a un cane, nei pressi di un parco intitolato a Ugo La Malfa, dopo essere stata sfrattata.
Nel primo pomeriggio è arrivata la schiarita, il cielo era di nuovo limpido, così ho preso la bicicletta e sono andato verso il mare per fare qualche fotografia e osservare da vicino i danni provocati dal temporale. Mi sono perso una mezzora nel dedalo di stradine immerse nel verde della zona di Ronchi e Poveromo, nel comune di Massa. Ho visto un grande albero strappato alle radici e scaraventato dal vento in mezzo alla strada. Un paio di operai sfoltivano a colpi di motosega la chioma di un’altra pianta accasciata sopra a una viuzza. Poi ho proseguito lungo la costa e sono arrivato nella zona di Partaccia, qualche chilometro più a nord.
La strada lungomare era chiazzata da strisce e mucchietti di aghi di pino, di un chiaro e morbido marrone, che si alternava al grigio dell’asfalto umido di pioggia. Le screpolature del cemento brillavano di acqua piovana. Il manto stradale aveva un nuovo vestito. Le macchine procedevano a rilento, con prudenza e cautela. Nella pineta a ridosso del mare diversi alberi erano spezzati. Qua e là sentivo il ronzio delle motoseghe al lavoro. Tutta la striscia del lungomare era punteggiata dal rumore a singhiozzo delle motoseghe. I curiosi si fermavano di fronte all’intrico di alberi ritorti per scattare qualche foto. Anche se stesi a terra, orizzontali, tronchi e chiome non apparivano come salme, cadaveri, ma erano creature vitali, anzi, forse in quello stato di alienazione e sradicamento erano ancora più attraenti e capaci di calamitare lo sguardo dei passanti, che volentieri gli giravano intorno, osservandone la sagoma traumatizzata e cercando la posizione migliore per fotografare.
Uomini e donne, in costume, canottiera e infradito, entravano e uscivano dall’ingresso dei campeggi. Se ne andavano al mare pedalando sopra vecchie biciclette, con l’asciugamano e l’asta di un ombrellone che gli spuntava da una borsa. Erano storditi, presi in contropiede dalla vista degli alberi schiantati. L’asfalto cosparso di aghi di pino sprigionava un odore stuzzicante. I turisti sembravano spiazzati, ma pronti a tornare in spiaggia, anche se animati da una ragione diversa e come radiocomandati. Erano presi da una singolare forma di stupore, da una sottile e innominabile elettricità ed euforia. Forse era lo stesso sconvolgimento dei sensi che io stavo provando dopo il passaggio della tromba d’aria e di fronte alla realtà messa sottosopra.
Tra la pineta e la spiaggia, al confine con il comune di Carrara, i ragazzini giocavano a calcio sollevando grandi nuvole di polvere. Due donne sudamericane, con un velo rosa trasparente stretto sui fianchi, ballavano l’una stretta all’altra una specie di bachata, o non so che cosa, muovendo il bacino e poi i piedi sulla sabbia con passi rapidi e capaci. A poca distanza dalle due danzatrici c’era un pino che doveva essere stato molto alto e slanciato. Ora, nell’aria traversata dalle note di un ritmo latinoamericano, il pino giaceva spezzato a metà, come tramortito da uno schiaffone, con il tronco adagiato per terra e il fogliame verdissimo prostrato sopra la carreggiata del viale a mare. In attesa che l’albero venisse sfrondato e rimosso, i vigili avevano sistemato un paio di transenne in mezzo alla strada e ordinavano agli automobilisti di girare verso l’interno. Intanto un musicista di strada, seduto sul marciapiede, suonava uno strano strumento a corda in compagnia di un amico.
La zona più colpita dalla tromba d’aria era più a nord, a Marina di Carrara. A Marina di Carrara ho incontrato decine di automobili col tetto sfondato dal fardello di un albero precipitato. Le gomme della bicicletta scricchiolavano melodiosamente sopra un tappeto di frammenti e schegge di corteccia. In qualche caso più fortunato, la chioma di un albero sembrava appena poggiata sopra il tetto di un’automobile, con le fronde di un verde brillante che ne circondavano la carrozzeria come flessuosa posidonia intorno a una conchiglia o a un pezzo di corallo. Infine ho visto il tronco di un pino conficcato, simile a una lancia, dentro al cancello di una villetta a due piani. Ho scattato una foto della casa e con un brivido colpevole ho sospettato che l’uomo e la donna di fronte a me fossero i due proprietari. Sembravano non solo ammutoliti e disperati, ma rassegnati a subire l’andirivieni osceno dei curiosi e dei fotografi.
Dopo venti chilometri di bicicletta, mi è venuta voglia di un gelato, anzi, ho sentito il bisogno fisico di un gelato, così me ne sono andato verso il piccolo centro di Marina di Carrara in cerca di una gelateria. Era pieno di gente, di famiglie e di ragazzini. C’era un grande brusio e una notevole animazione. Le coppiette di anziani camminavano accanto agli adolescenti con lo skateboard e alle ragazzine con la minigonna e la borsetta. Da una parte sembrava che tutti commentassero e si confessassero a bassa voce quello che era appena successo a Marina di Carrara e quello che stava succedendo al pianeta Terra, dall’altra, come per effetto di un’onda che spinge in direzione opposta, sembrava che invece parlassero di altro, come se niente fosse accaduto. Da un altoparlante si sentiva una vecchia canzone di Edoardo Bennato. Erano passate poche ore dal quarto d’ora di pazzia e devastazione provocato della bufera di vento e pioggia. L’aria vibrava ancora dello scombussolamento e della violenza scatenati dalla tempesta.
Alla fine ho trovato una gelateria. Ai tavoli erano sedute al sole decine di persone, che con il cono in mano un po’ parlavano della tromba d’aria e un po’ no. Sono entrato e mi sono messo in fila, prima per fare lo scontrino e poi per il gelato. Ciascuno di noi, generalmente, ha dei gusti di gelato preferiti e dei gusti che invece non ama. Dove risiede la ragione profonda e insondabile di queste preferenze? In quale zona sepolta del corpo e della memoria? Per quanto mi riguarda, non ho mai amato il cioccolato. Non credo di aver mai mangiato un gelato al cioccolato, forse perché ho sempre nutrito verso il gusto al cioccolato una sorta di sfiducia irrazionale e di invincibile sospetto. Se mi è capitato di mangiare il gelato al cioccolato dev’essere accaduto molto tempo fa e francamente non ricordo quando è stato. Eppure, il 18 agosto 2022, sono entrato in una gelateria e alla domanda su quale gusto volessi, io ho risposto, non so perché, “Cioccolato”.
#1 SE LA VITA NON VA A MEDUSA, È MEDUSA CHE ECCETERA
Nelle settimane di agosto tra le letture rimandate e finalmente inchiodate sono entrati anche due libri che ci hanno portato a scrivere questo Cubetto in spiaggia. Il primo, individuato da quando è uscito la scorsa primavera, è Scambiarsi le arti di Anna Castelli e Franco La Cecla. Un saggio che si prende il compito di abbattere quel pudore specifico che spazia tra antropologia e arte, anzi di esplorarlo, problematizzarlo, decostruirlo. Si tratta di un saggio-mondo dove si alternano sezioni etnografiche liriche e anche sconvolgenti ad altre più teoriche (e in qualche pagina, almeno per un lettore foresto, convolute).
Non avrebbe senso elencare a freddo le popolazioni di cantanti animisti, antropologhe azzannate dagli orsi, maschere che rivelano l’identità di chi le indossa; e nemmeno i sondaggi nelle contraddizioni strutturali del sistema arte; ci limitiamo a riportare una scoperta lessicale nascosta in un capitolo sull’osservare e essere osservati, sulla funzione dell’arte, che “porta alla vita la vista, la verità, la presenza”.
Lo sguardo di Buddha, così médusé, ci interroga rispetto alle nostre teorie della visione. Da una parte c’è nel mondo antico e in quello orientale la vasta convinzione della natura animata delle statue, del “potere delle immagini” che non sono solo riproduzioni, bensì evocazioni efficaci di presenza.
Esiste insomma “medusare”. Dal vocabolario Larousse: Frapper quelqu'un de stupeur: Sa réponse m'a médusé. Regard médusé des enfants. In italiano potrebbe essere: “pietrificare”.
Non lo sapevamo. Così come che esistesse una raccolta di Arthur C. Clarke, l’autore di “La Sentinella” da cui venne adattato Odissea nello Spazio, che si chiama proprio Medusa. Il racconto a cui si ispira il titolo è “A meeting with Medusa”. Un astronauta cyborg si dirige verso Giove, si immerge nei suoi cieli oceanici e poi succede qualcosa con una medusa grande come, boh, Roma. In due libri l’ampio spettro delle materie che proviamo a trattare qui dentro.
#2 RICORDI DAL FUTURO
Quest’estate abbiamo curato, con Marco Rossari, 2084 - Storie dal futuro: un festival multidisciplinare organizzato grazie alla Scuola Belleville. È stato molto caldo e pieno di gente. E speriamo di rifarlo presto. Nel frattempo, sul sito della scuola e sul suo account YouTube, anche chi non c’era può rivedere alcuni degli incontri: “La mente che danza" con Paolo Pecere, Francesca Pennini e Stella Succi, "Intelligenze non umane" con Stefano Mancuso, Laura Tripaldi e Marco Motta, "Il futuro del mare" con Björn Larsson, Tecla Maggioni e Valentina Pigmei. "Il pianeta dell'esilio" con Vincenzo Latronico e Nicoletta Vallorani, "Il racconto della scienza" con Fabio Deotto e Agnese Codignola, "La guerra delle informazioni" con Annalisa Camilli, Leonardo Bianchi e Nicolò Porcelluzzi, "Pensare l'impensabile" con Amitav Ghosh, Anna Nadotti e Matteo De Giuli. E un estratto da "Profittevoli esempi di vizio e di virtù" di Tiziano Scarpa.
Le annuali piogge monsoniche sono sempre più distruttive in Pakistan: in questi giorni sono morte oltre 1200 persone.
Finora, più di 33 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni.
È la peggiore alluvione degli ultimi decenni, probabilmente destinata a superare quella del 2010, quando morirono quasi 2000 persone.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 416,36 ppm (parti per milione) di CO2.