TATIANA
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di Tolstoj e cocaina, di antichi linguaggi e archeologia fognaria, di scheletri telefonici e H5N1.
Benvenuti, questo è il numero centotrentadue di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di Tolstoj e cocaina, di antichi linguaggi e archeologia fognaria, di scheletri telefonici e H5N1.
A vent’anni ho studiato russo per quattro anni pensando alla Russia, in quei tempi, tutti i giorni: ma finché studiavo, per un motivo o l’altro, non ho mai potuto andarci; poi il problema del lavoro, e i soldi, la pandemia, l’invasione: ho visto poco mondo, figurarsi la Russia. Nonostante tutto, continuo a pensarla. Per anni ho letto “i russi” secondo impulso, seguendo una passione che anticipava la scrittura come professione, e nel cervello (dove le decisioni che prendiamo, comicamente, assumono quel loro peso gravissimo, come pesassero sul destino di un popolo, di un pianeta, della vita nell’universo) una vocina spesso mi fa notare, davvero spesso, quanto sia sproporzionata la presenza “dei russi” nelle mie macchinazioni mentali rispetto a quello che poi riesco a scrivere. Ci penso mentre sono seduto al bar e cerco di evitare il pensiero del burnout, mentre mi guardo intorno, un esaurimento che vale poco per carità, un esaurimento da cento euro lordi; e mi accorgo che all’altro tavolo ci sono dei russi, non quelli dei libri, sono delle persone russe che oggi si definirebbero “creativi”, ma versione “expat” (non bastasse: “digital nomad”), il tipo di profilo che forse più si avvicina alla vecchia idea di intelligencija dissidente; insomma la sua incarnazione contemporanea, quindi se possibile ancora più malinconica, quella precisa combinazione di attitudine e competenza promossa dal quaternario degli ultimi quindici anni; sono due ragazze e un ragazzo, studiano dei grafici, forse sono dei ricercatori: il ragazzo ha una cicatrice lungo la guancia, perpendicolare al naso, che mi fa pensare a un’altra cicatrice, ovvero quella del conte Lev Tolstoj, il sovversivo morto di tosse in una piccola stazione di campagna, il nobile poverista che scappa dalla sua tenuta, stufo della moglie sposata cinquant’anni prima ovvero quando lei aveva diciotto anni e lui trentaquattro, già sdentato, giovane scrittore in potenza e rinomato ludopatico; Sonja e Lev, due amanti incompatibili uniti da un matrimonio distruttivo, depressi l’uno dall’altro e per questo molto, molto uniti; senza Sonja Bers non ci sarebbero stati Guerra e Pace e Anna Karenina, battuti a macchina in bella copia tutti interi più di una volta, come ogni cosa che lui scriveva in un corsivo minuto impossibile, ricopiati fino a notte fonda: e quando era ora di riposare, incinta di uno dei tredici figli, Sonja Bers racconta che si distendeva su una pelle d’orso nero, ai piedi del marito artista, predicatore vizioso, sensuale e beghino, ossessivo nel dettaglio e massimalista nel disegno; un complessato provvisto di assurda intelligenza compositiva, emotiva, tecnica; insomma pensavo a queste cose, alle folte sopracciglia di Anna, al suo collo, a come nessuno potesse intravedere quei capolavori nella faccia di Tolstoj giovane, che oscillava tra la caserma e le passeggiate al bordello: e poi la caccia, tanta tanta caccia, continuata fino all’età adulta, fino a quando era Tolstoj scrittore-dio, prima che dio gli guastasse la scrittura, quegli anni di grazia che sono al centro di un libro che mi piace molto, i diari di Tatiana Tolstoj, la secondogenita, una di quelle persone che a prima vista si pensano estinte, e invece ne è ancora pieno il mondo, solo che quelle persone forse non scrivono più, o comunque non così bene, perché i messaggi vocali sono più comodi e nessuno legge i libri difficili, eccetera eccetera; quelle persone gentili, tutte sensibili ecco, più attente agli altri che a loro, lo diceva anche il padre di Tatiana, “a Tula mi ha chiesto di comprare un temperino per Serjoža… sa esattamente cosa può piacere a ciascuno, per lei non ha preso nulla e neppure per un istante ha pensato a se stessa”; ecco, questa attenzione ha conservato i suoi ricordi familiari nell’ambra si potrebbe dire, come in quelle cronache di fine Ottocento di Nina Berberova, o di Lidia Avilova, l’amante epistolare di Cechov, quelle vite distrutte dalla Rivoluzione e dalle guerre, tipo Necropoli di Chodasevič, e le vedove delle purghe; Tatiana Tolstoj è stata più fortunata però, se si può dire, è morta in pace a Roma, émigrée alla Nabokov, alla Bunin, alla tanta altra gente; e tra questi ricordi nitidi, nei suoi diari c’è lei che si ammala da bambina, si alza all’alba “con l’emicrania” e cammina sonnambula fino alla camera dei genitori, dove si sdraia pure lei sull’enorme pelle d’orso, e bambina poggia la testa su quella dell’animale: sembrava vivo, aveva gli occhi neri, i denti bianchi, “ma soprattutto sapevamo che quell’orso aveva addentato papà, lasciandogli sulla fronte una cicatrice a forma d’arco”, aneddoto che il padre raccontava a tutti i bambini stregati dalla ferita, di quando a Smolensk aveva sparato a un orso e quello infuriato si era gettato su di lui buttandolo a terra, “papà diceva di avere sentito sulla faccia l’alito ardente della bestia”, e di essere salvato da un mužik, uno di quei contadini reazionari che sarebbero diventati i nemici naturali dei bolscevichi, fucilati all’infinito: “sdraiata sulla pelle ruvida toccavo con le dita i denti dell’orso pensando al pericolo corso da papà”, quindi Tolstoj sopravvissuto a un orso, come gli spacciatori di Cocaine Bear, o quell’antropologa francese qualche anno fa, Nastassja Martin, diventata una medka per gli sciamani, metà donna metà orso, “a regnare è l’indistinto, e io sono questa forma incerta dai lineamenti scomparsi sotto gli squarci aperti del viso, ricoperta di umori e di sangue: è una nascita, visto che con tutta evidenza non è una morte”; penso ai russi emigrati, penso a Ceausescu, che in venticinque anni ha ucciso quattrocento orsi girando per le riserve rumene, così per divertimento, con i funzionari che gli acchittavano il gioco, alla maniera del faraone Amenofi II, l’assassino di centodue leoni; forse è un dittatore comunista, nato contadino e poi calzolaio, l’uomo che ha ucciso più orsi nella storia dell’umanità, potrebbe essere, ai tempi di Anna Karenina non esisteva il punteggio CIC, l’unità di misura dei trofei di caccia, è per questo che si inchiodano le pelli d’orso a una tavola speciale, per stirarla fino al limite della resistenza; ma non ricordavo proprio che Tolstoj avesse questa cicatrice sulla fronte, mi sembra incredibile, e poi inizio a dimenticare anch’io delle cose ormai, a tutto questo pensano il cervello e i nervi in un mezzo secondo, perché hanno visto quella cicatrice diagonale, quel russo sfregiato da qualche storia lontana, che era e che resta un mistero.
#1 FAVOLE FONDATIVE
Troppo spesso raccontiamo la cultura, gli scambi culturali, le ibridazioni come forze per natura eternamente progressiste. È un pensiero consolatorio, perché ha il potere di convincerci che contro le assurdità e le storture del mondo ci possa essere un antidoto: declamare poesie, studiare, leggere, informarsi, dialogare, provare a capirsi. Non sempre è così, come abbiamo provato a scrivere anche nel nostro libro (ci citiamo per pigrizia autoreferenziale certo, ma anche per dono della sintesi: “Gli esseri umani hanno costruito imperi e acquedotti senza sapere cosa fosse l’RNA, o un bit; a tenere insieme le società, in fondo, c’è sempre un racconto. Storie d’amore e di guerra, noi contro loro”).
Su Aeon, Alexander Jabbariis, professore all’Università del Minnesota, racconta un esempio interessante. Ovvero: il melting pot è stato un fattore determinante nella costruzione dei nazionalismi e delle identità (forti e, paradossalmente, chiuse) emerse in Iran e in Asia meridionale nell’ultimo secolo. Ricostruendo l’evoluzione delle lingue Persiana e Urdu, Jabbariis mostra infatti come proprio lo scambio culturale tra Iran e India abbia portato alla creazione di storie e letterature che hanno nutrito le moderne narrazioni xenofobe di quei paesi.
Quello che oggi ci appare come una cultura nazionale – unica e ben delimitata – è il prodotto dello scambio con altre culture al di là dei confini dello stato-nazione. Questo è certamente vero per l'Iran moderno. Il nazionalismo, e ciò che chiamo "modernità persiana", è il velo che nasconde le dinamiche di cooperazione e di scambio cosmopolita che hanno generato la cultura nazionale sin dall’inizio.
Una vertigine da cui possiamo almeno tornare a terra con un fatto:
“La cultura non ha una sua politica intrinseca, non ha una traiettoria predeterminata. La cultura è un vaso vuoto che può essere riempito di qualsiasi tipo di progetto politico. Allo stesso modo, lo scambio interculturale può servire fini reazionari tanto quanto quelli progressisti”.
Alexander Jabbariis sta per pubblicare un libro sul tema: The Making of Persianate Modernity: Language and Literary History between Iran and India.
#2 FAVOLE AL TELEFONO
È vero che da tanto tempo ormai cantiamo questo perpetuo intrecciarsi di passato e futuro, l’impasto di fibre ottiche e codici medievali che è il nostro Paese, ma le novità che arrivano dalla piazza San Michele di Volterra vanno oltre i nostri desideri più sfrenati.
Durante gli scavi dell’Azienda Servizi Ambientali sono state individuate infatti delle sepolture medievali: una di queste, all’altezza del bacino, presentava una coppia di quei tubi corrugati che proteggono i fili e i cavi, nella fattispecie una qualche linea telefonica toscana posata a fine anni Novanta, da qualche losca figura che non parlerà mai, o che più banalmente non si era accorta di nulla: “il corrugato è alloggiato con millimetrica minuzia, esattamente al posto di quelle che un tempo furono le pudenda, un’operazione a livello di Daniele da Volterra (per stare sul territorio), detto il Braghettone, a copertura delle nudità di Michelangelo alla Sistina”.
La storia è già ben raccontata da Angelo Cimarosti su Archaeoreporter, in un articolo che cerca di prendere alla leggera questo pastrocchio, e che si conclude con la sua morale:
La sorveglianza archeologica serve, fa bene al territorio, e aiuta le aziende che lavorano sui sottoservizi a non sbagliare e a non privare la comunità non solo del loro prezioso lavoro per le utenze pubbliche e private, ma anche delle notizie sulle radici di una città e dei suoi abitanti. La sorveglianza archeologica e ancora meglio la programmazione, tutte le volte che è possibile, è sempre una strategia win-win, come direbbero quelli bravi, dove tutte le parti in causa possono solo guadagnarci.
Scrive il Guardian che secondo alcuni studiosi l'impatto del virus H5N1 nel mondo è paragonabile alla devastazione causata dall'uso dei pesticidi DDT negli anni ‘50 e ‘60.
Da quella vicenda nel 1962 era nato Primavera silenziosa di Rachel Carson, un testo sacro dell’ecologismo contemporaneo. Malata di cancro, Carson non riuscì ad assistere alla messa al bando del DDT. Morì il 14 aprile 1964, a 56 anni.
L'Organizzazione mondiale per la salute animale stima che dall'ottobre del 2021, in Europa e America, H5N1 abbia ucciso più di 50.000 uccelli selvatici: secondo gli esperti si tratta, con ogni probabilità, di una sottostima.
Nel frattempo il virus è passato ai leoni di mare: sta succedendo in Perù, dove in un mese sono morti 3.487 esemplari.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 420,33 ppm (parti per milione) di CO2.