STRACCHE
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di boschi e laissez faire, di megalopoli accentratrici e Antonio Cederna, di gasdotti e Celati, Yale e PIL.
Benvenuti, questo è il numero centoventuno di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
Quello che scriviamo su MEDUSA è gratuito per tutti. Se ti piace quello che facciamo, però, si possono donare 5€ al mese. Oppure 30€ l’anno (e quindi 2,5€ al mese). Oppure si può fare un’offerta libera annuale. Chi si abbona scegliendo una di queste opzioni, riceverà ogni tanto anche dei numeri extra, racconti, post o qualche esperimento pazzo. Se siete già iscritti, potete aggiornare il vostro abbonamento qui:
Per tutto il resto, la nostra homepage è medusanewsletter.substack.com
MEDUSA newsletter è divisa in tre parti: un articolo o racconto inedito e due rubriche: i link e i frammenti dei CUBETTI, e i numeri della CABALA. Per il resto, se volete scriverci potete rispondere direttamente a questa email o segnarvi il nostro indirizzo: medusa.reply@gmail.com. Siamo anche su Instagram.
In questo numero leggerete di boschi e laissez faire, di megalopoli accentratrici e Antonio Cederna, di gasdotti e Celati, Yale e PIL.
L'Italia, come qualcuno ha giustamente detto, è il paese che sa meglio predisporre, organizzare e provocare quelle catastrofi che poi, per consuetudine linguistica, continuano ad essere dette "naturali". Le frane e le alluvioni che a intervalli regolari devastano il Paese hanno la loro causa prima nel disprezzo che dimostriamo per l'ambiente naturale, nelle insensate manomissioni cui abbiamo sottoposto il nostro territorio, nel rifiuto di esprimere una politica di pianificazione che controlli trasformazioni e sviluppo, subordinandoli all'interesse pubblico.
Col disboscamento e il mancato rimboschimento favoriamo l'erosione, le frane, la furia delle acque selvagge, con le conseguenze a tutti note. All'abbandono della campagna non abbiamo saputo far seguire un'opera sistematica di difesa del suolo, nel quadro di una moderna politica territoriale.
Una delle cause del collasso idrogeologico va ricercata nelle condizioni in cui versa il nostro patrimonio boschivo. Il nostro paese è agli ultimi posti per quel che riguarda estensione di foreste di proprietà statale, quelle dove più rigorosa dovrebbe essere la difesa della vegetazione e quindi del suolo.
A differenza di altre società che hanno saputo avvertire per tempo quali sarebbero stati gli effetti dei grandiosi fenomeni dell'epoca moderna (urbanesimo, industrializzazione, motorizzazione, inquinamento) e hanno quindi saputo esprimere, pur tra difficoltà e contrasti, strumenti adatti a controllare la situazione e a soddisfare le sempre maggiori esigenze della collettività, noi non ci siamo accorti della grande svolta storica: inerti, scettici, furbi, vittime stracche di miti retorici, miopi cultori di un anacronistico laissez faire, ci siamo lasciati travolgere dalla velocità delle trasformazioni e abbiamo assistito senza reagire, credendolo anzi progresso, all'avvento del caos.
Tutta l'Italia, in assenza di qualsiasi effettiva programmazione economica e urbanistica, rischia di essere a poco a poco ricoperta, dalla Alpi al Capo Passero, da un'informe, ininterrotta, repellente crosta edilizia di asfalto che tra qualche decennio, se le cose non cambiano, ne cancellerà praticamente ogni carattere e fisionomia.
L'attuale collasso economico è anche il risultato di decenni di pirateria urbanistica, di questo nostro capitalismo coleroso e straccione.
Venezia, “restaurata” dalle società immobiliari, è distrutta nei suoi valori umani e storici.
A Roma si è calcolato che in media vengano perdute l'equivalente di quaranta giornate lavorative all'anno solo negli spostamenti casa-lavoro.
Milano diventerà una città meno ingrata e più abitabile solo se saprà rinunciare a ogni pretesa di megalopoli accentratrice, e coordinare i propri sviluppi con quelli del più vasto territorio che la circonda.
In generale, la crisi delle città italiane è soprattutto crisi dei servizi sociali e delle attrezzature collettive: un'attività urbanistica attuata al di fuori di ogni piano di interesse generale, ciecamente puntata sull'accumulo di sole “case” e a beneficio esclusivo della speculazione edilizia, ci ha portato a trascurare le esigenze elementari della vita civile e associata.
Spostiamoci sulle coste: su 8000 chilometri, circa la metà sono da considerare perduti a un razionale e civile uso turistico. La fila ininterrotta di monumentali stabilimenti, cabine, alberghi, chioschi, case e casotti, che spesso per chilometri e chilometri impediscono di raggiungere il mare e lo rendono accessibile solo pagando sempre più esosi pedaggi, è il risultato delle concessioni e delle licenze che il ministero e i suoi organi periferici usano rilasciare indiscriminatamente in zona demaniale, con un sistema che sembra fatto apposta per favorire irregolarità di ogni genere.
Per quanto riguarda la maggior parte dei centinaia dei centri sciistici italiani, il discorso è simile a quello fatto per gli insediamenti lungo le coste: disordine, congestione edilizia, mancanza di servizi pubblici primari, sottodimensionamento degli spazi pubblici, piste che vanno a sbattere contro i condomini...
Col pretesto del turismo, in realtà per speculazione, lottizziamo e privatizziamo perfino i parchi nazionali, “santuari della natura”, orgoglio dei paesi civili.
Politici e amministratori, anche se complessivamente peggiori dell'insieme del Paese, riflettono pure il livello della cultura italiana, anche quella con la maiuscola. Una cultura il cui massimo sforzo è stato quello di ridurre la natura a paesaggio e il paesaggio a stato d'animo; che ha imparato a disdegnare come impure le scienze umane e sociali (sociologia, urbanistica, antropologia, ecologia ecc.).
La lotta contro la turpitudine ambientale, la lotta per un ragionevole uso del territorio, dello spazio fisico, della natura in tutti i suoi aspetti, è la lotta stessa per la sicurezza del suolo, per lo sviluppo economico, per la giustizia sociale, per la salute e l'incolumità pubblica.
Qualche giorno fa, nel mucchio di offerte di una bancarella, ho trovato La distruzione della natura in Italia, una raccolta di saggi di Antonio Cederna. Leggere Cederna fa uno strano effetto. Non ci si sente mai all’altezza della sua intransigenza, della sua scrittura franca, profetica, da agitatore politico più che saggista. L’articolo che avete appena letto, che riassume bene un pezzo d’Italia degli ultimi mesi, è composto da frasi estrapolate dalle 380 pagine del libro. Pubblicato da Einaudi nel marzo 1975.
#1 TANTI AUGURI
Facciamo veloci, pochi salamelecchi: questo progetto è nato il 4 ottobre 2017, ieri abbiamo compiuto cinque anni. Siamo felici di continuare a scrivere quello che per noi è più importante, e grati verso chi continua a leggerci. Prima di passare al prossimo cubetto lasciamo qui sotto l’ultima pagina del nostro libro, che invece è uscito l’anno scorso, a fine settembre, così lo roviniamo a chi non ha avuto premura di leggerlo: puoi ancora rimediare.
#2 PREMIATA DITTA
Visto che è tempo di premi Nobel, giova rinfrescare una storia che qui su MEDUSA abbiamo trattato solo di sfuggita fino a ora. Quella di William Nordhaus, economista e professore a Yale. I lavori di Nordhaus riguardano i possibili impatti economici della crisi climatica. Dopo una vita di ricerche sul tema, negli ultimi decenni Nordhaus è diventato uno dei maggiori esponenti dell’economia mainstream e una guida per molte politiche di agenzie statali e governi. Che decidono però quando prestargli davvero attenzione e quando no: lo ascoltano poco, per esempio, quando sostiene la necessità di un incentivo di mercato per mitigare gli effetti del cambiamento climatico, ovvero carbon tax, tasse sulle emissioni di anidride carbonica. Oppure quando sostiene quello che da tempo dicono già migliaia di climatologi: che se non si interviene sui cambiamenti climatici a rimetterci di più saranno (e sono già) le società più povere e le regioni tropicali. Sono molto più interessati a lui, invece, quando scrive che tutto sommato i cambiamenti climatici, con tutti i disastri che pure di sicuro porteranno, potrebbero non impattare più di tanto sul PIL delle nazioni.
Nel 2018 Nordhaus vince il premio Nobel per l’economia. Dopo qualche mese pubblica uno studio più ottimista del solito, dove riprende alcune idee già espresse in passato: afferma che “3°C di riscaldamento ridurrebbero il PIL globale solo del 2,1%, rispetto a quanto sarebbe in totale assenza di cambiamenti climatici”, e che persino “un aumento di 6°C della temperatura globale ridurrebbe il PIL solo dell'8,5%”.
Ma è possibile che un quadro così consolatorio, che stride con tutto quello che ci sembra di sapere sulla crisi climatica, possa essere affidabile? Sarebbe ingiusto rispondere come una parte di noi, quella più riottosa, vorrebbe fare: invocando l’assoluta inutilità di questo tipo di studi economici, citando l’inefficacia e il fallimento su vasta scala, negli ultimi anni, delle previsioni di centinaia di modelli di simulazione come quelli utilizzati da Nordhaus. Per non essere troppo apodittici, ci limitiamo allora a citare un articolo di The Conversation scritto da un altro economista, Steve Keen, che nel 2020 definì le ricerche di Nordhaus (quelle sulle proiezioni del PIL) “fuorvianti e pericolose”. Qui l’articolo completo, in cui si scopre per esempio che il modello di Nordhaus presuppone, per i suoi calcoli, che “il cambiamento climatico non influisca su nulla di ciò che accade indoor”, dove con “indoor” si intendono “tutti i settori manifatturiero, minerario, quello dei trasporti, delle comunicazioni, la finanza, le assicurazioni e gli immobili non costieri, il commercio al dettaglio e all'ingrosso e servizi governativi”. Ok!
Il premio Nobel 2022 per l’economia verrà assegnato il 10 ottobre.
#3 I CARAIBI E ČERNOBYL
Chiudiamo invece tornando alla letteratura e alla scrittura, riportando qui uno dei tanti passaggi che abbiamo sottolineato leggendo Verso la foce di Gianni Celati. Siamo nelle campagne cremonesi nei giorni che seguono l’incidente di Černobyl.
Ore 13, circa, arrivo a piedi a Pieve San Giacomo. Una grande piana senza ondulazioni, attraversata da una superstrada tutta dritta che porta a San Daniele e poi a Casalmaggiore. Attorno in distanza cavalcavia d’ingresso alla superstrada e qualche sparsa casa colonica, in una campagna senz’alberi, prati, uccelli.
Mentre ero sul cavalcavia che passa sopra la stazioncina di Pieve San Giacomo, non vedevo sparse case coloniche bensì suinifici, capannoni industriali ognuno col suo silos e spesso case coloniche accanto. Là dentro centinaia di migliaia di maiali in attesa di massacro, l’odore della loro carne bruciata invade aree di chilometri e chilometri (Paola mi ha spiegato che quando devono bruciare i maiali malati di afta epizotica, li legano a grappoli con catene per una gamba, sollevano i grappoli con gru e semplicemente li scaricano in una fornace).
Sul viale della stazioncina molte di quelle villette geometrili, alcune su terrapieno a giardino, tutte cinte da muretti e cancellate che servono solo a fare figura.
Il centro di Pieve San Giacomo è una piazzetta oblunga, dove sorge un campanile medievale molto tozzo, con quelle campane esterne a ruota di tipo lombardo. Seduto in un bar ascolto gli avventori parlare in dialetto, commentano tutto quello che succede e citano il disastro nucleare.
Era arrivato un tizio in bici e gli hanno chiesto: “Ehi, Guarner, at a lavrar ogi, co la nube atomica?” Risposta di Guarnieri: “Figa!” (che vuoi dire: puoi star sicuro). Poi un giovanotto in tuta da imbianchino mi guardava scrivere, e s’è messo a canticchiare questa stramba canzone: “Quela vaca che t’a cagà, i Caraibi e Černobyl...” Finché il barista non è venuto a portarmi il panino e la birra, e allora quei clienti mi guardavano in silenzio mangiare, molto intenti”.
Si stima che durante l’ancora poco chiaro “incidente” a Nord Stream 2, uno dei gasdotti che collega la Russia all'Europa, siano state rilasciate in atmosfera 115.000 tonnellate di metano.
Ovvero lo 0,14% delle emissioni globali annuali di metano provenienti dall'industria di petrolio e gas, in un colpo solo.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 415,17 ppm (parti per milione) di CO2.