STILE
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di sussurri e isole, di Cina e Stati Uniti, di gabbiani e petroliere, miliardi di orchidee.
Benvenuti, questo è il numero centoquarantasette di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di sussurri e isole, di Cina e Stati Uniti, di gabbiani e petroliere, miliardi di orchidee.
Parlare del proprio lavoro è una grande fortuna, anzi venire ascoltati, ma uno degli aspetti meno piacevoli delle presentazioni che si fanno di un libro o simili, negli “eventi”, è la ripetizione dei concetti, ribattuti a macchina ogni volta di fronte a un pubblico diverso. E sebbene, per amor proprio e degli altri, si possa tentare ogni volta qualche parafrasi e rimestamento, ci si trasformerà senza scampo nell’androide inceppato nella replica di qualche bit di informazione che si rivelerà, a ogni ripetizione, sempre meno essenziale per la sopravvivenza della specie. Il profeta professionista, di fatto, si potrebbe limitare all’amatevi e moltiplicatevi, poi un modo lo troviamo.
In ogni caso, uno dei motivi ricorrenti degli “eventi” di Medusa è la speculazione intorno agli scopi della letteratura, sempre ne abbia, e più nel dettaglio se e come l’emergenza climatica debba essere al centro dell’opera letteraria: siano romanzi, poesie, racconti. Ecco che, come abbiamo scritto in uno dei capitoli centrali del nostro libro, ci troviamo a ricordare le insidie di ogni postura pedagogica applicata alla creazione letteraria, l’impoverimento della letteratura devota all’educazione civica. Quelle che avete appena letto, nella frase precedente, sono più o meno le parole che abbiamo utilizzato decine di volte, anche alla ricerca di un’economia del linguaggio (calorie, energia, lotta alla demenza).
Con il passare del tempo mi sono trovato allora, per variare l’offerta, a proporre una strana metafora, un po’ incontrollata, ma forse meno noiosa per l’amor proprio e degli altri, che faceva più o meno così:
“Certo, Il sussurro del mondo di Richard Powers – uno dei romanzi ‘ecologisti’ più noti degli ultimi anni, premiatissimo, dove diverse generazioni di eco-attivisti intrecciano i loro destini a quello degli alberi secolari in un’appassionata epopea romantica e corale – è senza dubbio un romanzo imponente, ambizioso e ben intrecciato, pieno di buone intenzioni: ma è proprio quest’ultimo dettaglio, che non è un dettaglio, il problema: diversi personaggi di Powers sono disperatamente buoni, robotici nella loro insistenza. Di loro, purtroppo, non odio quello che riconosco odioso di me, nella guerra intestina che delego ai grandi libri; odio la loro trasparenza e la loro onestà, la prevedibilità della redenzione… il raffinato ricatto morale. Powers è un ‘grande scrittore’, non c’è dubbio, ma questa non è grande scrittura (apro a caso il libro):
Le allunga le pagine: Should Trees Have Standing? La moglie legge il titolo e corruga la fronte. Ray scruta le parole, confuso lui stesso. “A quanto pare, l’autore dice che l’inadeguatezza della legge consiste nel riconoscere soltanto le vittime umane”. “Ed è un problema?”. “Intende estendere i diritti alle creature non umane. Vuole che gli alberi vengano ricompensati per la proprietà intellettuale”. Lei fa un ghigno. “Non giova agli affari, eh?”.
[Che freddino. Poi segue qualche botta e risposta attraverso il quale l’uomo, che diventerà uno dei profeti ecologisti del romanzo, capisce che la moglie lo tradisce: ecco che vengono esplicitati i loro stati emotivi]
Non trova alcun biglietto. Soltanto le prove materiali dalla A alla Z della sua vergogna. Le settimane di incredulità di molto tempo prima si sono trasformate in una caduta libera molto più angosciante del periodo della loro gioventù in cui praticavano lo skydiving [?]. Il panico della scoperta è diventato un grumo di dolore, del genere che aveva provato quand’era morta sua madre.
Purtroppo non credo siano problemi di traduzione, ma di concezione e sviluppo di una scena che dovrebbe materializzarci in quella stanza. Ora (aggiungo in pubblico, vigliaccamente) parlare di quello che non funziona in un romanzo è molto facile, scriverne uno è un inferno. Scriverne uno di settecento pagine che intreccia decine di personaggi e il destino del mondo, è quasi impossibile. Sono grato che nell’universo esistano Il sussurro del mondo, e tanti altri libri che cercano di dare un senso alle – (basta anche meno, così nessuno ci crede; accavallo le gambe). Nella letteratura cerco però tutto quello che mi ricorda quanto sia frustrante e contraddittorio vivere in una società che preferisce funzionare macinando esseri binari, che ragionano – dalla politica estera al nucleare alla sessualità – per bianchi e per neri. Ogni giorno siamo mossi da istinti dispari, frenati a malapena da convenzioni e opportunità, e bla bla bla. Siamo sicuri che quella forma di realismo sia il linguaggio più adatto? (Ed ecco la metafora storpia): se l’industria editoriale crede che il pubblico sia alla ricerca di questi catechismi, della catarsi ecologista virtuale per mano d’altri, allora uno dei più grandi talenti letterari del secolo potrebbe essere un nuovo Céline che sguazza nel petrolio, tutto sornione, calcolatore e puzzolente, un cantore degli idrocarburi mortali, un apologeta degli aironi impestati, degli oceani imbrattati, insomma: una testa di cazzo”.
Poi qualche settimana fa, leggendo un romanzo del 2015, mi sono imbattuto in questo passaggio:
Qui, signori, vedete una petroliera che si tira dietro il suo lungo strascico nero. Clic. Qui ci sono le rocce tappezzate di vinile; e qui - clic - una costa orlata di Pvc. La natura si è vestita con il suo abbigliamento fetish, con la sua tuta da bondage. Clic. […] Il petrolio ha più consistenza dell'acqua: è più denso, più concreto - e quindi permette alla seconda di dare una migliore prova di sé, esprimendo lo splendore del mare in modo più articolato, più straordinario. In modo più poetico. No, più lirico: lo splendore del mare in modo più lirico di quello che riusciva a fare l'originale. […] Lo stesso vale per tutti gli animali che vedete - clic - sulle spiagge colpite dalla fuoriuscita: uccelli fradici di catrame che galleggiano sperduti in una piccola zona di mare tra gli scogli, oppure - clic - ci fissano stoicamente appollaiati su massi incatramati. Derubati del volo, immobilizzati, umiliati in modo quasi rituale (e questa inversione non rende forse l'usanza ancor più crudele? Prima le piume, e poi la pece!), diventano martiri istantanei - e, sono circonfusi di tutto il pathos e la nobiltà degli eroi tragici. Come pompeiani vivi! Vittime della Gorgone del petrolio! Anche loro sono migliorati - sì, signori, migliorati: accresciuti, trasformati in versioni monumentali di loro stessi, superiori allo stesso modo in cui le statue sono versioni più grandi e migliori dei personaggi storici.
[…]
Perché cos'è il petrolio se non natura? Composti organici - animali, vegetali e minerali - filtrati dalla roccia, decomposti e concentrati dalla stessa crosta del pianeta: cosa mai potrebbe essere più puro? Quando il petrolio spruzza una costa, la Terra torna a sgorgare a fiotti e rivela se stessa: la natura nascosta della natura zampilla. L'uomo che causa questo zampillo - il capitano ubriaco della nave, l'ingegnere sventato o il responsabile della sicurezza negligente, o, dietro di loro, il magnate petrolifero, o, dietro anche di lui, l'uomo collettivo il cui corpo, senza volto e composto come il petrolio, è l'azienda -, proprio lui dovrebbe essere considerato un vero ecologista: l'intermediario più onesto della natura, il suo servo più fedele.
Ecco. Forse un po’ troppo, no? Non solo la prova della banalità di certe opinioni che si ripetono in pubblico, come la mia, ma anche della speranza puntualmente delusa di un altrove letterario che è giusto continuare a cercare, sempre e comunque: perché Satin Island di Tom McCarthy (quello di Dejavù, non Cormac), il romanzo da cui ho preso questa citazione, non è “un capolavoro” né “la Bibbia dell’ecofiction”, ma proprio per niente. È odioso per tanti aspetti e cinico e disorientato, così come il protagonista, un antropologo sapientino incaricato da una corporation misteriosa di scrivere il Grande Report del Matrix Universale: eppure eccomi qua a perderci del tempo sopra… Perché?
Nonostante l’abbia letto di recente, Satin Island veniva pubblicato in un contesto culturale ormai diverso dal presente, dove per motivi strutturali, storici e sociopsicologici si destinava un grande carico di energia elettrica e mentale alle opere di quarantenni anglofoni cresciuti, comprensibilmente, nel mito di DeLillo e di altri nomi del postmoderno (riguardo a questi temi, preistoria recente, si agitò un certo dibattito intorno un saggio di Zadie Smith del 2008 sul destino del romanzo tra realismo e avanguardia: il nuovo alfiere di quest’ultima, secondo Smith, era proprio Tom McCarthy).
Un momento, e Powers allora? Il Pulitzer 2019 è così lontano da qal 2008? Va bene, forse il contesto culturale non è così diverso da quando ero un universitario pendolare piccolo piccolo (sottolineo pendolare: condizione tristemente subalterna e però adatta, in quell’ultima epoca analogica, alla lettura disperata). Può essere che la maggior parte delle lettrici e lettori di MEDUSA siano cresciuti nello stesso contesto culturale. Siamo cresciuti, chi scrive, cercando di non diventare gli Emuli degli Emuli, in un contesto in cui la letteratura – come pratica di estasi e conoscenza – e l’editoria – come industria– non possono nemmeno fingere di competere con l’industria del videogioco, della serialità televisiva, e via dicendo. Cresciuti scoprendo, magari tardi, che la competizione non era mai stato il punto. Che non solo non è una battaglia persa, ma una battaglia che non vale la pena combattere.
Nel 2015 come oggi ero ancora innamorato del romanzo, il buon Tom McCarthy un po’ meno. In un articolo pubblicato sul Guardian nelle stesse settimane in cui usciva Satin Island, McCarthy partiva subito con le idee chiare: il più grande scrittore francese della seconda metà del Novecento sarebbe Claude Levi-Strauss.
Lévi-Strauss non ha scritto né opere teatrali né romanzi. Eppure, a mio avviso, la sua opera esibisce una sensibilità letteraria più ricca e profonda di quella dei “veri” letterati a lui contemporanei.
In poche parole, superati i quarant’anni McCarthy scopriva l’amore per “l’antropologia” e la metteva in assurda competizione con “la letteratura”: lo capiamo, anche se pure questa fissa, peccato, non ha senso. Perché mai una poesia dovrebbe occuparsi della descrizione oggettiva dei fatti degli esseri umani, essere “la scienza dell’essere umano”? È vero, l’antropologia è molto altro… in ogni caso, perché mai dovrebbero competere?
Scrivere quello che viene, a prescindere. Scrivere e stare senza pensieri.
Allo stesso però temo l’ambiguità, perché la conosco bene. Le giovani scrittrici e scrittori oggi crescono “nell’interregno”, nel tempo confuso, nel pensiero irrazionalista, e spesso trovano nell’ambiguità la prima cifra stilistica. Un pericolo per chi, parlo per esperienza diretta, ha bisogno di pensare e decifrare i “cambiamenti climatici e culturali”. Le “estetiche” (la rimasticazione di queste nelle culture online, assorbite dal cinema, dai videogiochi, dalla moda) soddisfano pericolosamente questa esigenza di lettura del reale, planano da una posizione ideale, come le aquile sui bambini.
La letteratura (l’arte?) può vivere soltanto di estetica-delle-idee, titoli a effetto, neologismi brandizzati? Negli ultimi anni l’industria editoriale per sopravvivere e moltiplicarsi sta imparando a capitalizzare le nuove estetiche, come faceva con le vecchie, magari tralasciando la devozione dello stile a chi può permetterselo: a chi può permettersi la frustrazione, si intende. Non rimpiango nessun passato, è sempre stata industria, e questo un discorso minoritario; c’è senza dubbio una montagna di libri promettenti in giro, e sempre meno tempo per leggerli; non c’è un Grande Vecchio che tira le fila del #Booktok, o motivi per stracciarsi le vesti. Ne scrivo per sentirmi meno solo.
Difendere la scrittura, allora, difendere la fatica dello stile. Difendere il romanzo senza umiliarsi nella celebrazione del #Booktok, o di altre pratiche imbarazzanti. “Usare i mezzi senza farsi usare”. Emanciparsi dal paradosso di McCarthy (e la trappola tesa a tutta l’amata tribù degli Emuli), la tragedia di chi lamenta la morte di qualcosa che non è mai esistito: il “Great Report”, il romanzo-mondo costretto a spiegare tutto, dai sistemi finanziari al destino delle cellule tumorali nelle famiglie patriarcali. La versione Not del Grande Romanzo Americano, l’avanguardia dell’avanguardia. E insieme emanciparsi dal realismo dell’atto di dolore. E però: scrivere qualcosa che ci prova lo stesso, che rischia entrambi gli esiti, scrivere nonostante.
Considerata la lunghezza del pezzo, oggi c’è solo un cubetto.
#1 ABITUARSI A BYD
Toyota, Wolkswagen, General Motors, Ford, Stellantis (Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Peugeot, Opel, Citroën, Jeep e altri marchi): sono noti i nomi delle aziende automobilistiche che negli ultimi anni, tra dubbi e ritardi, stanno cercando di recuperare terreno sulla produzione di veicoli elettrici. Nessuna di queste, però, ha raggiunto gli obiettivi di un marchio che forse non avete mai sentito nominare, ovvero la cinese BYD, che nell’ultimo trimestre ha quasi raggiunto le vendite di Tesla (ha venduto soltanto 3.456 veicoli in meno, su scala globale), e che entro fine dicembre sembra destinata a diventare la prima azienda al mondo nella vendita di auto elettriche.
Lo scorso ottobre Tesla ha riportato i peggiori risultati degli ultimi due anni. Elon Musk, di cui cerchiamo di parlare il meno possibile perché abbiamo già sparato le nostre cartucce sarcastiche in tempi non sospetti, ha cercato di abbassare le aspettative su Cybertruck, il SUV futuristico per americani che hanno perso il senso della realtà. Sembra che la produzione di Cybertruck, falcidiata da bug e approssimazioni, possa rivelarsi il primo vero flop di Tesla.
Secondo gli analisti, le vendite di Tesla dovrebbero riprendersi nel quarto trimestre, con l'inizio delle consegne di una Model 3 “aggiornata” e (forse) del Cybertruck. Insomma Tesla e BYD, a fine anno, arriveranno appaiate.
Il problema, stringi stringi, è che le auto elettriche costano troppo. È da tempo ormai che per Tesla si parla di un modello più “economico”, intorno ai 25.000 euro, ma le tempistiche relative alla produzione e alla commercializzazione sono ancora ignote. Secondo Il Sole 24 ore, “la Tesla per tutti sarà prodotta anche a Berlino”.
Si tratta della famosa Model 2 da 25mila euro, che dovrebbe fare concorrenza all’attesa ondata di auto cinesi in Europa. Stellantis, al proposito, ha annunciato poche settimane fa la sua Citroen ë-C3 da meno di 24mila euro, in arrivo a inizio 2024. Il ceo Elon Musk ha visitato venerdì lo stabilimento tedesco di Gruenheide, a 38 km da Berlino, e ha ringraziato lo staff per il duro lavoro, come ha mostrato un video sulla piattaforma di social media X di Musk.
Nel frattempo, tra 2022 e 2023 la Cina è diventata il primo esportatore di automobili nel mondo, e BYD è diventata la più grande casa automobilistica cinese. Nella prima metà del 2023 BYD è stata la decima produttrice di automobili al mondo. Ha annunciato la costruzione di nuovi stabilimenti in Cina, Tailandia, Brasile, eccetera: probabilmente uno di questi sarà in Ungheria, notizia degli ultimi giorni.
Il modello economico BYD lo produce già, si chiama Seagull e nel mercato asiatico parte da 10-11.000 dollari. Presto arriverà in Europa, ma riveduta e corretta per incontrare diversi parametri di sicurezza: sarà un po’ più grossa, e costerà quasi il doppio. Comunque, sembra, meno di 25.000 dollari.
Prima di lasciarvi alla CABALA, un promemoria forse ancora necessario: le auto elettriche sono meno mortifere di quelle tradizionali, è oggettivo, ma vengono prodotte estraendo e rovistando montagne di terra, in cantieri dove la forza lavoro viene nei casi migliori sottopagata, e solitamente abusata come i paesi che l’hanno prodotta. Infine, il trasporto su ruota incide solo per il 12% delle emissioni globali di gas serra (dati del 2021). C’è tanto altro da fare.
Al mondo esistono circa 30.000 specie di orchidee.
Alcune orchidee possono vivere 100 anni.
Tra il 2016 e il 2020 le esportazioni di orchidee (vive) sono state stimate, globalmente, intorno ai 2,5 miliardi di dollari all’anno.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 419,06 ppm (parti per milione) di CO2.