SOGNO
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di vergogne e dinosauri, di Borges e di Hiroo Onoda, di crepuscoli e formiche, caffeina e Werner Herzog.
Benvenuti, questo è il numero centodieci di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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IIn questo numero leggerete di vergogne e dinosauri, di Borges e di Hiroo Onoda, di crepuscoli e formiche, caffeina e Werner Herzog.
Hiroo Onoda è ricordato come l'ultimo giapponese, il soldato che per quasi trent'anni nessuno riuscì ad avvertire, o quantomeno a convincere, che la Seconda Guerra Mondiale fosse finita. Nel 1944 era stato inviato con una manciata di uomini a Lubang, nelle Filippine, con il compito di impedire l'avanzata del nemico. Una missione fallimentare perché l'esercito giapponese venne disperso in fretta dagli Alleati sull'isola. Ma se una battaglia ha un inizio e una fine, la guerriglia può durare per sempre. Così Onoda scappò, non si arrese, si nascose con qualche compagno prendendo la via delle montagne. Gli era stato detto di non fidarsi di nessuno e di non darsi mai per vinto e così fece fino a che il tempo non perse di senso. Continuò a combattere anche quando rimase completamente solo, una guerra personale fatta di attesa, disciplina, paranoia e clandestinità. Rimase nascosto nella vegetazione tropicale, tra le nebbie della giungla. Ricavava olio dalle palme con cui massaggiava le armi contro la ruggine, rubava capi di bestiame negli allevamenti dei villaggi vicini e uccideva ogni tanto qualche civile per rappresaglia o avvertimento. Tornò a casa soltanto quando un giovane esploratore giapponese, attratto dalla leggenda che nel frattempo si era creata attorno al suo nome, si mise in testa di doverlo scovare – come fosse un animale mitico, lo yeti o il mostro di Loch Ness. Era il 1974.
La vita di Onoda può sembrare comica, ma è fatta di un materiale incandescente per un europeo: è violenta e esasperata, e restituisce contraddizioni e sentimenti profondi di una nazione che culturalmente abbiamo sempre faticato a capire appieno. Nonostante questo, l'anno scorso Werner Herzog si è gettato senza troppi scrupoli a raccontarla, questa storia, e con il candore spregiudicato che solo i grandi vecchi si possono concedere se l'è immaginata anche nei dettagli più minuti e quotidiani (cosa mangiava Onoda, cosa diceva ai suoi commilitoni, come interpretava i segni della giungla). Ne ha tirato fuori un romanzo breve che si chiama Il crepuscolo del mondo. Sono ventiquattro capitoletti: ogni capitolo è una scena e ogni scena fa avanzare di un passo la narrazione. L'incedere della scrittura è cinematografico e d'altra parte è lecito immaginare che Il crepuscolo del mondo, a un certo punto della sua stesura, fosse destinato a diventare una sceneggiatura.
Togliamoci subito la parte più spiacevole: i dialoghi del libro sono goffi, quasi sempre caricaturali (forse anche perché pensati per essere recitati e non letti). I soldati giapponesi parlano come figurine, con motti d'orgoglio e frasi perentorie: "Non combatto per ricevere medaglie", oppure "La nostra gloriosa forza aerea avrà bisogno di questo campo d'aviazione", oppure ancora si scambiano battute tipo:
- Non abbiamo distrutto il pontile di sbarco.
- Provo un’indicibile vergogna ma nulla cambierà i nostri progetti.
Per fortuna, se si riesce a sopportare qualche pagina così, poi ci si smarrisce finalmente in quella che, se stessimo vedendo un suo film, sarebbe la voce fuoricampo di Herzog che colpisce con pennellate e fendenti. Onoda si rifugia nella giungla, e per Herzog la giungla è il luogo di paure e desideri per eccellenza, e allora Il crepuscolo del mondo diventa un nuovo capitolo del suo racconto della natura, delle forze mostruose e indifferenti che schiacciano o ignorano gli assurdi minuscoli affanni degli esseri umani.
Il tempo, la giungla. La foresta vergine non conosce il tempo, come se entrambi, simili a fratelli divenuti estranei l'un l'altro, avessero ormai ben poco in comune, come se la loro comunicazione fosse ridotta, al massimo, a una reciproca forma di disprezzo. (...) Come un'eterna, invariabile costante, tutto nella giungla soffoca ogni cosa per catturare qualche raggio di luce in più, e se anche vi sono notti avvolte dall'oscurità, tutto ciò non cambia in nulla. Il canto degli uccelli e lo stridio delle cicale, come se un treno lunghissimo deragliasse per una fermata d'emergenza, eppure per ore intere non c'è nessuna fermata.
Il tempo perso e frammentato, immobile, detta la stasi della vita di Onoda, con giorni che continuano a ripetersi eternamente identici a loro stessi, nel calore umido e soffocante della foresta. Herzog sceglie la via del racconto che conosce meglio, quella di uno sguardo olistico, alieno e straniante sulle vicende che agitano il pianeta terra.
Un uccello notturno piange e un anno intero è passato. Una goccia d'acqua su una foglia lucida di un banano cattura per un istante un raggio di sole, e un altro anno è passato. All'improvviso, durante la notte, una fila di milioni e milioni di formiche avanza lentamente tra gli alberi, senza che se ne possa mai trovare l'inizio o la fine; una processione che marcia senza sosta per giorni e scompare, in modo altrettanto brusco e misterioso, e di nuovo un altro anno è passato.
Onoda dormiva all'addiaccio, costruiva e distruggeva capanne, cercava un senso al rombo degli aerei militari che gli volavano sopra la testa. Immerso nella melma e nel fango durante la stagione delle piogge, torturato dalle zanzare e dalle sanguisughe, mentre costruiva trappole per difendersi da topi e formiche, cosa pensava davvero di se stesso e di quello che gli stava accadendo? Aveva dato un nome alla sua noia e alle sue paure, al delirio onirico che doveva essere la sua vita dopo cinque anni vissuti così? O era successo dopo sette? O quindici? O venti?
Secondo un famoso motto di Borges, non è mai esistito nella storia del pensiero un esercizio intellettuale che, dopo un buon lasso di tempo, non si sia rivelato finalmente inutile: “una dottrina filosofica è al principio una descrizione verosimile dell'universo; passano gli anni, ed è un semplice capitolo - quando non un paragrafo o un nome - della storia della filosofia”. Qualsiasi fossero le emozioni o le ideologie che lo turbavano in vita, oggi Onoda è diventato una macchietta, la figura retorica del tetragono, di colui che non molla mai. Prima che arrivasse Herzog a riraccontarla, negli ultimi anni la sua storia era ormai presa in seria considerazione quasi soltanto negli ambienti fascisti e neofascisti dove sopravvive distorta, con tutte le forzature del caso, nella parabola di un uomo valoroso e carismatico, simbolo di abnegazione e fedeltà.
Tornato in Giappone, a Onoda come prima cosa venne chiesto di scrivere un'autobiografia: Non mi arrendo, istantaneamente tradotta nel 1975 da Mondadori e oggi fuori catalogo in Italia. Me ne procuro una copia per cercare qualcosa di più, la traccia di qualche inquietudine, un pensiero fuori posto, uno slittamento di prospettiva che metta in dubbio almeno per un attimo l’integrità del personaggio. Ma non c'è nulla di tutto questo. Non mi arrendo è un libro gelido, un diario di guerra dove anche i ricordi più intimi sono ortopedicamente corretti nella posa marziale. Questo per esempio è il modo in cui Onoda racconta l'ultimo saluto che dà al fratello prima di partire per le Filippine:
Parlammo per un po', e poi, prima di andarsene, mi fissò negli occhi e mi disse: «Sii forte! Fra non molto dovrai far ricorso a tutte le tue energie!». «Non temere» ribattei con fermezza. «Saprò morire da uomo». «Be'» fece mio fratello «non ha senso correre incontro alla morte. Ma è bene che tu sia pronto a morire, nel caso che tocchi a te». (...) «Hai mai avuto una donna?». Mi limitai a sorridergli senza rispondere. I nostri occhi s'incontrarono, e lui disse con calore: «Be', non c'è altro, allora. In gamba!».
Sfogliando Non mi arrendo capisco che anche Herzog deve averlo letto, perché in effetti Onoda parla, nella sua autobiografia, con le stesse espressioni con cui parla nel libro di Herzog ("Mi dissi ad alta voce: Combatterò fino alla fine!"). E mi accorgo che in fondo mi sbagliavo, quello dei dialoghi del Crepuscolo del mondo non è un caso diretto di cattiva scrittura ma piuttosto un caso di imitazione fedele di una retorica rafferma.
Cos'altro c'è dentro Non mi arrendo? Una sequenza di considerazioni e appunti mentali su spostamenti e tattiche del nemico, una guida alla sopravvivenza – con illustrazioni – su come ottenere uniformi complete da stracci rubati o ricavare sandali e scarpe da copertoni e camere d'aria; indicazioni su come seccare i pezzi di carne di una vacca per non permettere che ammuffiscano, o su come sfilare le fibre dalle noci di cocco per lavarcisi i denti.
Alla fine degli anni Novanta Herzog è in Giappone. Chiede di conoscere Onoda e dopo qualche difficoltà i due entrano in contatto. Onoda invita Herzog a visitare il santuario di Yasukuni, dove sono riportati “i nomi di due milioni e mezzo di abitanti che hanno dato la vita per il loro paese”, compresi, curiosamente, i nomi di alcuni animali domestici, quelli di qualche criminale di guerra, e anche il nome dello stesso Onoda, che nel 1959 era stato ufficialmente dichiarato morto. Nonostante qualche ritrosia a visitare un luogo del genere, Herzog alla fine accetta. Il crepuscolo del mondo si chiude con il loro incontro.
Dopo la visita al santuario ci fermammo a conversare in un parco fino a tarda notte. Era stato un sonnambulo, per tutti quegli anni, o aveva sognato, allora, l'oggi, l'adesso? Spesso, a Lubang, si era posto questa domanda. Non c'era nessuna prova che quando era sveglio fosse sveglio, e nessuna prova che quando sognava stesse sognando.
C’è solo qualche riga, invece, dentro Non mi arrendo, dove le parole di Onoda sembrano avere questo stesso spessore. E arriva solo verso la fine, dopo duecento pagine controllate, che non mostrano mai alcun rimpianto. Nell’ultimo capitolo Onoda confessa di aver avuto, sull’isola, un sogno ricorrente. E anche se è un racconto relegato all’inconscio, a cui non concede poi un pensiero di più, è comunque la cosa più simile a una titubanza o a una riflessione, tra tutte quelle che ha deciso di raccontare dopo trent’anni di guerra.
Non sognavo quasi mai, ma quando mi capitava di sognare facevo quasi sempre lo stesso sogno. Nel sogno mi difendevo contro una pattuglia nemica che mi aveva individuato. Le pallottole mi sibilavano intorno, e io rispondevo al fuoco, riparandomi dietro qualcosa. Prendevo la mira e premevo il grilletto, ma non riuscivo a sparare. Era colpa della pallottola difettosa, o del fucile che non funzionava? Premevo di nuovo il grilletto, e ancora il fucile faceva cilecca. Ormai le pallottole nemiche quasi mi sfioravano le orecchie. Un altro tentativo. Ancora cilecca. Il fucile era rotto.
#1 PIEDINI CIK CIAK
Quando abbiamo scoperto che è divertente saltare nelle pozzanghere?
Grazie alle ricerche archeologiche dello White Sands National Park sembra esserci una data di riferimento: almeno dall’9.500 avanti Cristo. Il parco include il letto di un lago prosciugato dii circa 100 chilometri quadrati, dove nei millenni si sono impresse migliaia di impronte lasciate “da esseri umani, mammut, gatti dai denti a sciabola e altri abitanti del Nord America preistorico”. Dall’articolo di Colin Barras (New Scientist) si scopre che, secondo alcune delle tracce rilevate, la presenza di esseri umani sul continente potrebbe essere ampiamante predatata rispetto alle solite stime: si parla di primi indizi già nel 21.000 a.C., ottomila anni prima di quanto si pensasse.
Tra le migliaia di impronte, anche quelle della megafauna del tempo, come gli enormi bradipi che popolavano quelle terre. Tra le impronte di questi bradipi, ne sono state trovate alcune di circa 40 centimetri di lunghezza, attribuibili a un esemplare di forse 3 metri dal naso alla coda. Più tardi comparve qualcun altro:
Più tardi, si presentò un gruppo di tre-cinque bambini piccoli. La confusione di impronte che hanno lasciato si concentra intorno a un’impronta di bradipo. Il modo in cui le tracce dei bambini deformano l'impronta del bradipo ci rivela che il terreno era bagnato.
Dei bambini, 9.500 anni fa, si sono divertiti a sguazzare in una pozzanghera formata dal passo di un bradipo gigante: 9.500 anni fa, tanto lontano dalle piramidi quanto noi dalla civiltà sumera, prima di Gilgamesh e Ninive e dei mantelli scarlatti, prima delle caravelle e delle bollette della luce.
#2 JURASSIK REICH
Una metà di MEDUSA si è trovata tre giorni a Strasburgo, soprattutto tra le mura di Central Vapeur, una associazione culturale/collettivo/editore che si dedica “alla promozione e alla diffusione delle arti grafiche come l'illustrazione, il fumetto e il disegno contemporaneo”.
Tra le bancarelle c’era anche un libro verde e squamato che si chiama Jurassik Reich. La copertina di Jurassik Reich, al tatto, sembra il dorso di un dinosauro degli anni Novanta, di quando ancora si poteva pensare somigliassero più a lucertole che a tacchini. I dinosauri di Félix Kerjean non sono così diversi, i diplosauri smisurati, i T-Rex con i braccini, gli stegosauri rossastri; a dire il vero sfogliandolo si nota anche un cucciolo spennato come un pollo da un soldato nazista... In Jurassik Reich infatti i dinosauri, senza speranza, vengono scuoiati e indossati dai soldati del Reich, i cadaveri disposti secondo gli schemi di una land art malata a formare una svastica; vengono impalati, messi allo spiedo, sfilettati in un crescendo di malizie nauseanti.
Nella pagina finale, il colpo di scena: è in arrivo un esercito ancora più potente, sadico e e cinico, ma ci fermiamo qui.
L’opera di Kerjean è un libro piccolo e immorale, prezioso. I dinosauri e i meteoriti accadono, gli esseri umani decidono.
#3 SIAMO IL VORTICE
Per il numero di aprile del progetto online 93% abbiamo provato a rispondere alla domanda “Che cosa ci affascina nel racconto della fine?”. Assieme al nostro intervento (che potete leggere qui) trovate anche quelli di Ginevra Lamberti, Andrea Esposito, Claudio Kulesko e Nicola Borghesi. Grazie a Graziano Graziani che ci ha coinvolto!
Un gruppo di ricercatori ha analizzato 258 fiumi in 104 paesi per misurare le concentrazioni di 61 principi attivi di farmaci nelle acque.
Secondo quanto riporta Le Scienze, tra i tanti princi attivi trovati ce ne sono in particolare 4 che inquinano i fiumi di ogni continente: paracetamolo, caffeina, nicotina e cotinina (un metabolita della nicotina).
In 1 su 4 degli oltre 1.000 siti campionati, la concentrazione di almeno 1 dei principi attivi supera il limite considerato sicuro per il benessere degli animali.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 420,30 ppm (parti per milione) di CO2.