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Di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di riti neopagani e iPod, di teschi corallini e di virus congelati, di Angus Andrew e William Shakespeare.
Benvenuti, questo è il numero centoventitre di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di Liars e riti neopagani, di teschi corallini e di virus congelati, di volpi tibetane e William Shakespeare.
È il 14 febbraio del 2005 e hai diciannove anni anni. Al Circolo degli Artisti c'è un piccolo concerto indie. Ti sembra un atto sovversivo andarci da solo e proprio a San Valentino. Mentre paghi il biglietto all'ingresso pensi per un istante alla banalità soffocante delle serate che stanno vivendo i tuoi amici e le loro ragazze in qualche ristorante di pesce a Ostia, a Focene, a Fiumicino, in un posticino un po' lontano che ci si arriva solo in macchina. Non puoi dire di sentirti speciale ma diverso sì, e in fondo sei anche solo. Nessuno ascolta la musica che ascolti tu o conosce le riviste che compri.
Quando gli altri ti chiedono, con un filo di compassione, qual è il genere che ami di più, fantastichi di trovare l'insolenza per poter rispondere rock, folk, pop, elettronica, soul, hip hop, trip hop, noise rock, drone rock, indie post math rock, kraut rock, IDM, electro funky dream pop, drum and bass, shoegaze, dark, industrial, free jazz... Come puoi d'altra parte spiegare a parole il potere sacerdotale dell'iniziato che senti crescere ad ogni nuovo ascolto? Come potrebbero loro capire una cosa del genere? Tu hai fede nella natura puramente musicale della realtà, credi in una cosmogonia che origina dalle tenebre più assolute e che si sviluppa nella luce a poco a poco, seguendo un misterico ritmo ancestrale.
Il locale è ancora vuoto. C'è un banchetto con qualche CD usato e ti metti a spulciare le copertine. Un esercizio che ti dà particolarmente soddisfazione è ripassare le carriere dei grandi gruppi del passato. Riconosci una parabola morale in quelle evoluzioni musicali, nella volubilità delle vendite, nelle fortune dei dischi, nei cambiamenti di stile e di formazione. Ti affascinano le regole segrete del successo ma anche la deriva che sembra inevitabile dopo l'affermazione, le canzoni riempitivo, i lavori imbolsiti, svogliati, sciatti, il momento in cui i gruppi punk decidono di aggiungere le tastiere, i gruppi metal fanno le ballate, i cantautori vanno in tour con saxofoni e coriste.
Consideri il primo album dei Liars, la band che sei andato a vedere, “un buon compitino di funk-punk tirato e dissonante dove spiccano giusto due o tre tracce”. Dal disco hanno estratto un singolo danzereccio che ha in effetti raccolto un minimo successo. Con il secondo album hanno cambiato rotta. I testi sono ispirati alla caccia alle streghe del Sedicesimo secolo. La musica “è viscerale, gutturale, satanica”, come dici vagheggiando di avere qualcuno con cui discutere di queste cose, “è un fracasso no wave/post punk spettrale, ossessivo, e per questo esuberante, una marcia funebre infestata di vitalità". Per fortuna c’è internet, e in uno dei forum che frequenti più assiduamente hai potuto aggiungere: “È come se si fossero imbucati nell'elegante cena di gala dei gruppi arty newyorkesi e invece di prender parte ai rituali di società avessero deciso di rubare l'argenteria e dare fuoco alla tavolata”. Quattro utenti e un moderatore ti hanno dato ragione, eleggendoti implicitamente a esperto della scena. Ti avrebbe reso incredibilmente triste scoprire che i Liars li avresti presto persi di vista, che si sarebbero, a tuo giudizio, "infiacchiti in fretta", che passata la sbornia avanguardista già dopo il quarto LP si sarebbero trasformati in “una tiepida melassa elettronica senza guizzi” (da un tuo post sconsolato del dicembre 2008).
Quella sera però sei convinto che assisterai a qualcosa di unico. E così succede. La band sale sul palco e inizia subito a picchiare gli strumenti. Il cantante si sbraccia scheletrico goffo alto fino al soffitto, è uno sciamano indisciplinato che sbraita e si sdraia sul pubblico, si muove con un'intensità furiosa, una violenza senza cattiveria, oscilla avanti e indietro con passi lunghi. Come una folgore d'Indra scagliata su Roma Est, posseduto dallo spirito dionisiaco di un folle, inizia a salmodiare
IO NON VOGLIO PIÙ ESSERE UN UOMO!
IO VOGLIO ESSERE UN CAVALLO!
GLI UOMINI HANNO PENSIERI PICCOLI!
HO BISOGNO DI UNA CODA!
DATEMI UNA CODA!
RACCONTATEMI UNA STORIA
DI BAMBINI CHE SI MISERO DI TRAVERSO
ALL'INVERNO INFINITO!
DELLA STREGA BIANCA CHE DESIDERA FARSI STORPIARE, IMPALARE!
IO, IO SONO IL RAGAZZO!
LEI, LEI È LA RAGAZZA!
LUI È L'ORSO!
NOI SIAMO L'ESERCITO CHE VEDI ATTRAVERSO LA ROSSA NEBBIA DEL SANGUE
SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE SANGUE
SANGUE SANGUE SANGUE…
E mentre con la mano sinistra finge di avere una coda che gli parte da sopra il culo, il chitarrista e il batterista rimangono invece composti, o forse sconvolti, pervasi comunque da una sorta di lucida furia, lo sguardo inerme, e tu pensi con pena ai tuoi amici che non sono lì con te ad ascoltare questa non-canzone perfetta che è “Broken Witch”, che su disco è bella ma dal vivo è un'orgia panteistica. I tuoi amici non potranno mai sapere che cosa è la devozione, l'esercizio dello spirito che si fa corpo, lo spettacolo che i Liars stanno regalando a te e agli altri quindici o venti spettatori. Il cantante, con le sue braccia lunghe come radici, giganteggia sull'altare del Circolo illuminato dai fuochi vedici dei faretti sopra al palco. È sorprendente dove si può incontrare dio, la rivelazione si può compiere ovunque. E si sta compiendo qui e adesso, in quest'amalgama improbabile che ha unito il tuo spirito con quello di tre ricchi ragazzotti statunitensi che per nessun valido motivo al mondo se non il desiderio di farlo stanno evocando presenze primordiali, spiriti e demonietti, forze sovvertitrici, vitali, creative che fiottano dagli amplificatori, mentre insieme consumate l'ossigeno di una sala concerti semivuota, costruita senza i permessi del Comune ai piedi un acquedotto romano del 50 dopo Cristo.
Passano diciotto anni ed è di nuovo il 14 febbraio. Ti svegli all'alba per andare a correre prima di attaccare a lavoro. Fai l'account in un'agenzia di marketing con sede a Piramide. Le campagne social di San Valentino sono sempre un casino e oggi sarà una giornata terrificante. Mentre scendi le scale ti infili le cuffie in-ear. Lo shuffle di Spotify fa partire la playlist 200 Pitchfork's best songs of the 2000s. Ascolti le prime note, il riverbero ipnotico e torpido di “Broken Witch”. Non la riconosci neanche. Con un tocco dell'indice sull'auricolare passi alla canzone successiva.
#1 ROBA RICA, ROBA STRANA
C’è un famoso passaggio dalla Tempesta di Shakespeare, nel canto di Ariel, dove lo spirito induce Ferdinando a credere che Alonso (suo padre) sia morto nel naufragio:
Full fathom five thy father lies;
Of his bones are coral made;
Those are pearls that were his eyes;
Nothing of him that doth fade,
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange.
[A ben cinque braccia nel mare
tuo padre si giace sepolto:
coralli son l’ossa,
son gli occhi due perle nel volto.
Ma niente di lui sarà vano
che per un incanto del mare
dovrà trasformarsi in qualcosa
di ricco e di strano.]
Sono versi molto noti (per dire, T. S. Eliot li ha ripresi nella Terra Desolata, “I remember / Those are pearls that were his eyes”), che Meneghello nelle sue carte ha tradotto così:
L’è soto acua to popà.
Coralo gli ossi da morto
perle nei busi dei oci
popà de perle, popà de coralo.
De le polpe che se desfa
il mare ne gà fato
roba rica, roba strana.
Questi versi insomma ci sono venuti in mente leggendo un articolo che racconta una nuova frontiera del marketing funerario, la sepoltura nel fondale marino. Per la precisione, una sepoltura che prevede la miscela dei resti cremati nella composizione di cupole di cemento perforato (reef ball): le ossa dei morti si mescolano a queste palle che poi diventano l’habitat di una barriera corallina artificale, roba rica (tra i 3.000 e i 7.500 dollari), roba strana.
Eternal Reefs collabora con la Reef Ball Foundation e con Reef Innovations, che costruisce le sfere. Con un'altezza di oltre un metro e una larghezza di due metri e un peso di 250 kg – 1.800 kg, le sfere presentano una superficie ruvida che permette a piante e animali marini come coralli e alghe di crescere su di esse. L'organizzazione ha finora depositato quasi 3.000 memorial reef in circa 25 siti, dal Texas al New Jersey.
L’autrice del Guardian, Abby Young-Powell, fa elencare ai suoi intervistati i vantaggi della pratica. Il primo è Murray Roberts, professore di biologia marina presso la scuola di geoscienze dell'Università di Edimburgo: “non riesco a vedere un'ovvia controindicazione. […] Una volta che esistono delle barriere artificiali che contengono resti umani, immaginate lo sgomento che ci sarebbe se quell'area dovesse essere ripulita con le reti a strascico”.
Poi arriva il dottor Ken Collins, del Centro nazionale di oceanografia dell'Università di Southampton. Collins, la cui specializzazione sono le barriere artificiali, non vede problemi nel cemento marino: “qualsiasi impatto scompare nel giro di pochi giorni”.
Si aggiunge quindi Frankel, l’amministratore delegato di Eternal Reefs: “Ricevo telefonate in continuazione. […] Non ho dubbi sul fatto che diventerà mainstream”.
Infine, con un colpo di teatro annunciato ma comunque (involontariamente) comico, l’autrice evidenzia gli aspetti problematici della faccenda, che ne sono anche alla base: la cremazione e il cemento.
“Se le persone vogliono fare davvero la differenza, non scelgono la cremazione”, afferma Rosie Inman-Cook, responsabile dell'associazione Natural Death Centre. “La cremazione è un disastro”.
La cremazione rilascia 400 kg di anidride carbonica nell'atmosfera per ogni corpo. E la produzione del cemento è responsabile fino all'8% delle emissioni globali di CO2.
La cosa migliore resta incamminarsi al tramonto e buttarsi nell’umido (se non hai otturazioni, placche di titanio, pacemaker, lenti a contatto, piercing).
#2 MEDUSA A MILANO, CLIMA STORIA E CAPITALE
Dopo un anno in giro per l’Italia a parlare del nostro libro MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo) abbiamo deciso di mettere in pausa le presentazioni, è vero. E però mercoledì 9 novembre saremo comunque alla libreria Linea d'ombra di Milano per parlare di Clima, storia e capitale libro di Dipesh Chakrabarty che abbiamo curato, anche questo un annetto fa, per nottetempo. Con noi ci sarà Ludovica Lugli del Post.
Via San Calocero 29 ore 18:30, vediamoci lì.
#3 CIAO
Prima della CABALA, vi salutiamo con la foto di una volpe tibetana, nome scientifico Vulpes ferrilata, chiamata anche volpe delle sabbie tibetana o semplicemente volpe delle sabbie.
Nei ghiacciai sono intrappolati da millenni dei virus sconosciuti. Nel 2021 i ricercatori della Ohio State University hanno annunciato di aver trovato materiale genetico di 33 virus - 28 dei quali inediti - in campioni di ghiaccio prelevati dall'altopiano tibetano in Cina.
In base alla loro posizione, si stima che i virus siano risalenti a circa 15.000 anni fa.
Nel 2014, gli scienziati del Centro nazionale francese per la ricerca scientifica di Aix-Marseille sono riusciti a rianimare un virus gigante isolato dal permafrost siberiano, rendendolo nuovamente contagioso per la prima volta dopo 30.000 anni.
L'autore dello studio, Jean-Michel Claverie (72 anni, più di 500 pubblicazioni), ha dichiarato alla BBC che esporre gli strati di ghiaccio depositatisi nei millenni potrebbe essere “una ricetta per il disastro”.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 415,29 ppm (parti per milione) di CO2.