RINASCITA
di MEDUSA. In questo numero leggere di Disfacimento e di racconti, di balene e di colori pastello, di morte e resurrezione, trasformazioni e fantasie.
Benvenuti, questo è il numero centodiciotto di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggere di Disfacimento e di racconti, di balene e di colori pastello, di morte e resurrezione, trasformazioni e fantasie.
Non ci sono altro che immagini, momenti sospesi nel guazzabuglio di un mondo in decomposizione. È tutto quello che che si concede alla vista, all'interpretazione, in una realtà che muta di continuo: cenni di forme, nuovi colori, una successione di eventi che solo a stento vuole farsi capire.
In questi giorni ho letto Disfacimento, fumetto di Linnea Sterte pubblicato in Italia da add con la traduzione di Claudia Durastanti. È un libro che crea una atmosfera unica, un panorama che sa essere al tempo stesso apocalittico eppure luminoso, accogliente, capace di entrarti sottopelle, di scatenare vibrazioni difficili da comprendere appieno.
Le tavole sono per lo più prive di parole. Il lettore si trova a boccheggiare assieme ad altre forme di vita in un deserto alieno, dove gli uccelli volano nello stesso fluido in cui volteggiano enormi pesci, piccole orche e altre specie ibridi. All'inizio è la stasi, poi la vita si raccoglie attorno al corpo di una enorme balena morente, insabbiata, immobile. Insetti, animaletti e ominidi alieni dai movimenti ancestrali si contendono placidamente i resti del cetaceo, si insinuano nel suo stomaco, tra le ossa, si nutrono di una decomposizione che sembra eterna, lentissima ma inarrestabile.
Ho letto Disfacimento, sarebbe meglio dire che ci sono precipitato dentro, l'ho riletto e rivisto e ripercorso più volte, avanti e indietro, cercando di abbandonare qualsiasi tentativo di comprensione di una trama che si nasconde. Nonostante tutto la storia va avanti, in una manciata di capitoli, attraverso cicli di vita di creature fantastiche, di ecosistemi mostruosi che prosperano nel disfacimento di mondi magnifici. Sterte crea una botanica e una zoologia parallela: scienze oniriche che non rispondono alle leggi della biologia che conosciamo, eppure non se ne discostano abbastanza da poterle rendere completamente incomprensibili. Nel desiderio di questo scarto nasce Disfacimento.
Sterte disegna mescolando gli acquarelli di Ernst Haeckel e le visioni fantascientifiche di Jean Giraud. Paesaggi immensi e dettagli microscopici. Le vite si formano attorno e all'interno del cadavere in decomposizione, lottano per sopravvivere, si combattono senza acrimonia, come fossero consapevoli di essere parte di un unico organismo che li comprende tutti. Le tinte pastello sono tenui, sognanti, all'inizio, ma subito si sciolgono in tonalità più scure e minacciose, e di pagina in pagina i colori dominanti continuano a cambiare senza che il lettore se ne accorga. È una questione di percezione, di luce. Tutto scorre. Tutto si trasforma.
Ci sono degli esploratori che cercano di catturare una creatura aliena dalle forme umane femminili, che però è morta, nel ventre della balena, e che eppure di colpo rivive. Allora viene esposta in un museo, ma subito scappa via dal soffitto, cambiando forma, spettro volante. Nel frattempo ci passano davanti altri ominidi post-umani, alcuni hanno le ali, le antenne, sono nomadi, sembrano africani, sembrano asiatici o europei. Altri organismi ancora convivono e lottano in panorami metafisici, assurdi: sono pesci, farfalle, fiori, uccelli, spugne, alberi, sono gli “embrioni fatti di cielo” e “le bestie fragili dei cieli superiori”. In Disfacimento le cose e gli organismi non rispondono più alla proprie funzioni. Sterte fa esplodere l'ordine del mondo naturale. Lo ricompone solo in parte, avvicina i pezzi seguendo il proprio istinto. Mescola deliberatamente mondi fantastici a ecologie familiari che descrivono, qui da noi, il mondo che chiamiamo natura.
Il fumetto ricorda un film: Il pianeta fantastico, di René Laloux e Roland Topor, del 1973: una sorta di versione fantascientifica (e cupa) delle animazioni che Terry Gilliam in quegli stessi anni disegnava per i Monty Python. Inizia con un cucciolo di essere umano che viene adottato e allevato come animale da compagnia da una famiglia di creature aliene giganti, menti riflessive. Pelle blu e occhi rossi. È considerato uno dei primi film antispecisti mai girati.
Al di là delle specie, nel libro di Linnea Sterte la bellezza è nella decomposizione, come da titolo. In inglese invece è Stages of Rot, una formulazione che ricorda le fasi del lutto. Nel fumetto le attraversiamo tutte; c'è una languida alienazione, la distruzione, la morte, ma anche una terribile speranza, e la resurrezione. Nel sogno febbrile che Sterte ha disegnato, la vita brulica solo dentro alla morte, in un ciclo eterno che mescola simbiosi, marcescenza, conflitto e crescita.
C'è pace in questo fumetto surreale. L'ansia da fine del mondo è irretita nella meraviglia dell'impossibile e non viceversa. Le vicende degli ominidi implorano di farsi spazio, tra le pagine, ma non riescono mai a conquistare importanza. Come tutto il resto, le loro storie come le nostre, sono solo il riflesso di una pena più grande. Per un attimo ci sentiamo liberi.
#1 TRASFORMAZIONI
La settimana scorsa è uscito un numero speciale di MEDUSA come parte di un takeover della newsletter di Verso, un programma di Fondazione Sandretto Re Rebaudengo progettato e prodotto con l’Assessorato alle Politiche Giovanili della Regione Piemonte, nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche giovanili.
MEDUSA è arrivata a chiudere il progetto che ha coinvolto anche altre newsletter: Complotti!, Iceberg, Senza Rossetto, Link Molto Belli e Il Colore Verde. Qui potete leggere tutti gli altri contenuti.
Per questo il speciale di MEDUSA x Verso abbiamo pensato a un percorso di lettura che unisse alcune delle cose che abbiamo scritto negli ultimi mesi: racconti, pezzi e approfondimenti. Visto che è una cosa che facciamo ciclicamente anche qui a casa nostra, lo proponiamo anche a voi sperando di fare un servizio sia per chi ci conosce – e magari aveva bisogno di un riassunto di quello che si è perso – sia per chi ci legge per la prima volta, che salutiamo. Una buona occasione per leggere qualche arretrato: il prossimo numero di MEDUSA torna a settembre.
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Abbiamo iniziato l’anno anticipando l’aria di siccità estrema che si respira ormai da mesi, raccontando una parte di mondo che sembra già anticipare una delle forme che può prendere il nostro futuro sul pianeta. Qui Matteo racconta la sua visita a Mitzpe Ramon, un angolo di deserto del Negev:
Dal punto di vista meteorologico questa terra è un disastro, mi dice Yotam, l’aria è secca, d’estate fa un caldo infernale, tutto l’anno non piove quasi mai e quel poco che piove non resta perché viene spazzato via nelle inondazioni lampo tipiche del Negev che trascinano giù a valle fiumi di fango. Ma proprio per queste caratteristiche Mitzpe Ramon è diventato un laboratorio. Il futuro del pianeta è Mitzpe, mi dice. L'azienda vinicola del suo amico, che fa parte di una rete di vigneti costruiti in zona, è una piccola surreale vivace macchia verde in mezzo ai colori pallidi del deserto. I filari delle viti mi sembrano troppo esigui per ricavare un numero dignitoso di bottiglie, e Yotam mi spiega che in effetti quelle aziende sono utilizzate soprattutto come luoghi di sperimentazione per capire come l’uva possa crescere in condizioni estreme.
(...)Con il caldo l’uva va a maturazione più velocemente, e questo scombina ovviamente l'intera filiera, i vini diventano più zuccherosi e troppo poco acidi, escono fuori con colori sbagliati e soprattutto degradano in sapore e gradazione alcolica. Ma, aggiunge Yotam, adesso, dopo anni di duro lavoro, stanno riuscendo a ottenere, e addirittura mettere in commercio, le prime bottiglie buone. Anche nel deserto, anche in queste condizioni climatiche.
Mi fa assaggiare il loro Chardonnay, senza però versarsene anche lui un goccio. È troppo presto di mattina ma non posso rifiutare. Per quello che ne capisco mi sembra un vino terribile, molto intenso e terroso, minerale, troppo alcolico. Mi dà subito alla testa. This is future that awaits us all, mi dice Yotam con un tono di voce indecifrabile. Cerco di sorridere e finisco il bicchiere.
Ci sono idee che viaggiano nei secoli lungo le latitudini più diverse, inoculandosi nei popoli più lontani, per le ragioni più varie. Il paesaggio non è un fondale incollato all’orizzonte, è un’intelligenza che ci penetra, ci guida, distorce le sensazioni: il paesaggio altera la nostra coscienza, da Israele alla Francia medievale dilaniata dalle guerre intestine. Nei primi giorni dell’invasione russa in Ucraina, Nicolò scriveva:
In questi giorni ho riletto delle pagine di un saggio di Peter Turchin (uno storico controverso, negli anni criticato e annusato da varie testate, Guardian, Atlantic, ecc) che si chiama War and Peace and War. Nel libro Turchin analizza le dinamiche di espansione e collasso degli Imperi, da quello romano a quello zarista. Nella seconda parte, “Imperiopatosi”, l’autore si concentra sul Basso Medioevo.
Tra il 1300 e il 1450 in tutta Europa, soprattutto in Francia, la crescita della curva demografica si è bloccata. Si è ridotto il tasso di natalità, è aumentato quello di mortalità. Per diversi motivi: il lungo ciclo pandemico della peste nera, gli scontri di potere tra le élite che portavano a guerre massacranti (non così diversamente dalla crisi del Trecento italiano), guerre che portavano a gravi carestie, e da qui povertà diffusa, criminalità, brigantaggio.
I campi erano lasciati incolti, eccetto nei pressi delle fortificazioni dove, ai primi avvistamenti, le campane iniziavano a rintoccare nelle torri; la gente che faticava nei campi tornava al paese, lungo le mura si preparavano le difese. I boschi godevano, indifferenti della miseria umana, le temperature si abbassavano. Tutta questa coreografia si inserisce, scrive Turchin, in quello che viene definito landscape of fear (“il paesaggio della paura”), un concetto preso in prestito dalle scienze naturali. Il paesaggio della paura è una mappa-dispositivo che mette in relazione le scelte degli individui in un ecosistema: nella mente delle prede, la mappa della paura si sovrappone a quella fisica, riconfigurando il paesaggio. Ci saranno allora vette di paura, valli di tranquillità, spazi virtuali che si mescolano a quello materiale.
Il paesaggio della paura può includere vittime e carnefici. La guerra in Ucraina, così specifica e contingente, somiglia però a tutte le guerre; distrugge, uccide. Innesca tutta la serie di contraddizioni e assurdità che si accavallano nella mente di chi si trova a combattere. Se si parla di assurdità, una delle storie di guerra più incredibili che tornano alla mente è quella di Hiroo Onoda, il soldato giapponese che per quasi trent'anni nessuno riuscì ad avvertire, o quantomeno a convincere, che la Seconda Guerra Mondiale fosse finita. La parabola di Onoda la racconta Matteo in “Sogno”, in una rilettura del romanzo che Werner Herzog ha dedicato alla faccenda, pubblicato da poco in Italia.
Nel 1944 era stato inviato con una manciata di uomini a Lubang, nelle Filippine, con il compito di impedire l'avanzata del nemico. Una missione fallimentare perché l'esercito giapponese venne disperso in fretta dagli Alleati sull'isola. Ma se una battaglia ha un inizio e una fine, la guerriglia può durare per sempre. Così Onoda scappò, non si arrese, si nascose con qualche compagno prendendo la via delle montagne. Gli era stato detto di non fidarsi di nessuno e di non darsi mai per vinto e così fece fino a che il tempo non perse di senso.
Continuò a combattere anche quando rimase completamente solo, una guerra personale fatta di attesa, disciplina, paranoia e clandestinità. Rimase nascosto nella vegetazione tropicale, tra le nebbie della giungla. Ricavava olio dalle palme con cui massaggiava le armi contro la ruggine, rubava capi di bestiame negli allevamenti dei villaggi vicini e uccideva ogni tanto qualche civile per rappresaglia o avvertimento. Tornò a casa soltanto quando un giovane esploratore giapponese, attratto dalla leggenda che nel frattempo si era creata attorno al suo nome, si mise in testa di doverlo scovare – come fosse un animale mitico, lo yeti o il mostro di Loch Ness. Era il 1974.
Il pensiero della guerra genera rabbia, frustrazione, impotenza. Negli ultimi mesi, non del tutto consapevolmente, ne abbiamo parlato spesso. Nel numero che abbiamo chiamato “Huuuù”, come il verso del cuculo imitato da Luigi Meneghello, abbiamo mescolato citazioni dai Piccoli Maestri, Il Partigiano Johnny, La Storia. Sono libri che continuano a parlare.
C'era inoltre la sensazione di essere coinvolti in una crisi veramente radicale, non solo politica, ma quasi metafisica. Ci spaventava non tanto il collasso degli istituti, e delle meschine idee su cui era fondato il nostro mondo di prima, quanto il dubbio istintivo sulla natura ultima di ciò che c'è dietro a tutti gli istituti, la struttura della mente stessa dell'uomo, l'idea di una vita razionale, di un consorzio civile. Sentivamo la guerra come la crisi ultima, la prova, che avrebbe gettato una luce cruda non solo sul fenomeno del fascismo, ma sulla mente umana, e dunque su tutto il resto, l'educazione, la natura, la società.
Su MEDUSA continuiamo a scrivere quello che preferiamo, mescolando le forme e i generi: reportage veri e finti, divulgazione, poesia, racconti o estratti di novelle a cui stiamo lavorando. Nonostante le forme, i testi si parlano tra loro. Se a gennaio, in un suo pezzo Nicolò scriveva che “anche dove c’è più luce, e invenzione, e amore, arrivano anche lì: le parabole di LinkedIn, la sapienza motivazionale, il lessico della consulenza aziendale, le cause e gli effetti dell’ideologia che oggi, al netto di ogni vecchio malinteso militante o illusione filosofica, governa”, qualche mese dopo pubblicavamo un racconto estivo e apocalittico di Matteo che si chiama “Litorale”:
– Secondo me quest'anno, comunque, ci sarà uno sconvolgimento non da poco eh. Dei DM dei DR e degli AM.
– Eh Lui... Lui va giù duro me sa...
– Essì mi dà l'idea che Lui è fatto così. Alla fine è entrato con molta tranquillità. È arrivato il primo anno, tutto zitto, tranquillo, ha dato proprio solo un'aggiustatina. Invece poi in due anni ha già fatto il panico.
– Guarda Lui è una persona che devo dire mi sono trovato molto bene a livello umano proprio. Per quanto puoi conoscere un GM a livello umano, ovviamente... Io penso di averci parlato una volta, due volte al massimo. Ma a livello umano mi sono trovato benissimo.
– È vero, sì. Ci sa fare.
– Eh ma quest'anno, vedrete, ci sarà proprio il delirio.
Perché il racconto delle nostre vite, le vite di questa parte di mondo, ci sembra non possa fare a meno di mescolare il surreale all’aziendale, i Power Point alla lirica dei ricordi del passato. Un frammento di “Eden”, un testo di Nicolò:
Non si sentiva sott’acqua il silenzio dei raggi che rifanno i prati e gli oleandri, le strade e i nuovi palazzi bianchi che resteranno disabitati, la nuova sabbia nella nuova spiaggia, e gli altri trucchi del futuro. A vent’anni non avrebbero mai pensato che sarebbe stato il lavoro a tenerle giovani. All’erta, almeno. A quaranta dovevano iniziare ad abituarsi alle trasformazioni impreviste: l’Eden, l’azienda della luce, veniva privatizzata.
Più che cercare una voce stiamo cercando di conviverci, di farci possedere da questa voce che non ha un genere preferito, ma che si ostina a credere che le parole abbiano qualche significato.
Martedì 19 luglio, com’è noto, il Regno Unito ha vissuto la temperatura massima mai registrata nel Paese: 40.3°C nel villaggio di Coningsby.
Nel frattempo una ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha previsto che, tra 20 anni, un numero di famiglie che oscilla tra 65 e 100 milioni non sarà più in grado di rinfrescare in estate gli ambienti in cui vive – in India, Brasile, Messico e Indonesia.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 417,80 ppm (parti per milione) di CO2.