PROIETTORI
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di galassie e sculture, di mistici e melma, di destini genetici e specchi che non riflettono.
Benvenuti, questo è il numero centododici di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di galassie e sculture, di mistici e melma, di destini genetici e specchi che non riflettono.
Sono esterno al mondo dell’arte, un bambino che cammina tra le fila di un’orchestra. Sento che quello fa pirulì, quella bum bum bum; cerco di capire. Ma se continuo a girarci intorno è perché mi è concesso che qualcosa mi piaccia senza sapere perché. Poi, se si è fortunati, si può conoscere chi fa le cose e parlarci.
La prima volta che ho visto delle sculture di Michele Gabriele ero in una chat, all’inizio dell’anno scorso, ce le mandava una complice venendoci in soccorso; le utilizzammo infatti per un’intervista a Laura Tripaldi, per parlare del suo libro pieno di vyta. Le immagini ci hanno fatto conoscere, e questo inverno ho potuto vedere delle nuove sculture crescere accumulandosi, fino a trovare posto nello spazio mentale che le ha generate.
Treti Galaxie (Ramona Ponzini, Matteo Mottin; dal loro sito: “crediamo che l’arte abbia il potere di migliorare la vita di chi ne fa esperienza”) ha curato The vernal age of miry mirrors, l’ultima mostra di Michele Gabriele a Firenze, negli spazi di NAM – Manifattura Tabacchi.
Camminando nella penombra, ci si trova di fronte a dei pensieri che hanno preso una forma vivente. Nascono da un sentimento, direi un impulso sentimentale, perché investe le aspettative le abitudini e i ricordi dell’artista che, chiuso in casa nella pandemia, rivive nella nostalgia i tempi della socialità; i ricordi mandano il sangue in giro, il sangue arriva alla testa, dove si accende la logica nella costruzione delle forme. L’idea si riveste di materia: la materia si riveste di un universo tecnico che non esiste, ma che potrebbe.
Invece della sintesi, Treti Galaxie ha aggiunto alla mostra un altro strato di interpretazione, curando i testi della videoarte a cui assistono le sculture: il titolo della mostra di Gabriele insomma ne nasconde un altro (Misty Wavelength Sonata), le informazioni vere (poche) si mescolano a quelle false, tra Pavel Florenskij e funghi atomici, e solo così ci si avvina all’immaginario dell’artista, in un processo di mistificazione in cui ci riconosciamo. Su MEDUSA ci è capitato di mescolare narrativa e divulgazione, cose vere piene di roba falsa, poesie scritte da fantasmi. Ne sentiamo il bisogno, perché oggi c’è troppa “realtà”, questa catena di anelli che decidono di stare insieme; una dimensione che si fa soggettiva e discreta nel momento in cui, incontrando altre intelligenze diffuse sul pianeta, scopriamo che quella che chiamiamo realtà è quella che si misura secondo i nostri sensi.
Ecco la conversazione tenuta a Firenze lo scorso 29 aprile insieme a Michele Gabriele e alla metà di Treti Galaxie, Matteo Mottin.
Matteo Mottin: Le sculture nascono da un’idea di nostalgia. Prima chiacchierando si diceva che la nostalgia non è un sentimento legato tanto al tempo, quanto allo spazio… Quello che mancava a Michele era uno spazio particolare, il paesaggio umano. Era il 2020 e non si poteva accedere a niente, ovviamente neanche alle mostre, e quello che mancava a Michele erano un tipo particolare di persona, quella che approccia per la prima volta uno spazio espositivo, che si trova costretta a nascondere un certo disagio.
Michele Gabriele: L’anno scorso ho fatto una mostra personale in Svezia, tra un lockdown e l’altro. C’erano gli aeroporti deserti, mi sentivo molto privilegiato; poi sono tornato e il giorno dopo è scattato il secondo lockdown. Considerando che ho avuto una brutta esperienza professionale con il gallerista lì, comportamenti tossici ecco, e non solo, avevo pure quella depressione da post-opening, quel bisogno di condividere che veniva frustrato… Allora concentrarmi su questa nuova produzione è diventato un modo per dare una nuova forma a certe riflessioni; intanto il rapporto con l’opera, la distanza tra opera e osservatore, tutta questa roba che mi ossessionava da un po’, ma era anche un modo per ritrovarmi, capirmi di nuovo; e così facendo sono tornato a quel disagio, al ricordo di quel disagio, perché in fondo quella persona ero io. Sono andato alla ricerca di questo immaginario, ho chiesto materiale di archivio a un amico che si è occupato di video e performance, Enrico Boccioletti, perché lì è più facile trovare del pubblico stravaccato, e a me interessava quella cosa lì. Quella postura che simula agio, tranquillità, quel qualcosa che ero io e che stavo perdendo di vista.
MM: Quindi da questo paesaggio umano Michele è andato a comporre una serie di strutture su cui sono stati innestati dei particolari ispirandosi a una nostra modalità percettiva che direi primordiale, ovvero il nostro atteggiamento di fronte a una novità. Come reagiamo a qualcosa di nuovo? La prima strategia del cervello è non percepirla come novità, non vederla, eliderla: la nostra facoltà di percepirla diventa assimilabile a uno specchio che ha momentaneamente perso la capacità di riflettere. La seconda è concentrarsi su qualche dettaglio che ci ricorda qualcosa che già conosciamo, per costruire un’immagine della realtà totalmente soggettiva. Come quando di fronte a un dipinto astratto andiamo a riconoscere un fiore, una casa, qualcosa che non è presente ma a cui ci appendiamo. Michele ha ricostruito una serie di particolari che catturano la nostra attenzione, dandoci la possibilità di renderle in qualche modo familiari. Le opere hanno due titoli proprio per ricalcare questa duplicità nel riconoscimento. Una duplicità già presente nel titolo della mostra, e nel suo impianto allestitivo: The vernal age of miry mirrors (circa “L’epoca primaverile degli specchi melmosi”). L’epoca primaverile è quella delle persone che si affacciano alla novità, gli specchi melmosi sono le opere che ricalcano gli spettatori stessi.
Nicolò Porcelluzzi: In questi giorni sto lavorando a un piccolo testo da pubblicare tra qualche mese. Mi sono trovato a rileggere delle lettere di Gadda e Parise, dove si legge anche di cose minute, Parise che regala il vino a Gadda, e Gadda che gli regala L’origine delle specie di Darwin, influenzando le opere successive di Parise, le sue aspirazioni… A Gadda, che era filosofo quanto scrittore, interessava capire perché certe cose esistano e altre no: perché le cose esistono? Perché noi, e non altri? Da queste domande nell’opera gaddiana partono le indagini sui rami filogenetici che danno vita alle dinastie e agli incidenti, il nesso di cause e conseguenze per cui del DNA si passa da un vivente all’altro. Accucciato tra le tue sculture pensavo ad alcune teorie – molto chiacchierate negli ultimi anni – che ci richiamano ad alleanze interspecifiche, idee importanti, utili, ma che non c’entrano. Donna Haraway, il richiamo del compost, l’intreccio tra organico e inorganico, mondo animale e umano, la generazione e il canto di corpi ibridi e proteiformi eccetera... non mi sembra il caso di scomodarla, queste radici filogenetiche che hanno portato alla luce le tue sculture non hanno niente in comune con la nostra esistenza. Sono statue viventi, forme aliene che sono comparse da un’altra dimensione. Cosa significa creare qualcosa che prima non esisteva? Come ti senti nei confronti delle tue sculture? Non hanno chiesto di essere nate…
MG: Non è mica vero! [ride] Io le chiamo sculture, perché per me sono forme astratte che hanno avuto la sfortuna di essere investite di dettagli che le avvicinano a qualcosa che conosciamo. Sono partito da alcune pose, e poi le ho astratte, rendendole delle forme geometriche; ho quindi cercato di fraintendere le forme, attraverso uno sguardo deformante. Da un lato ho cercato di ipotizzare cosa può succedere a una forma quando viene osservata da qualcuno, dall’altro ho pensato di investirla di più informazioni possibili. Ho accontentato quello che poteva essere la “diffusa idea di me”, quello che si può pensare del mio lavoro, gli stereotipi che mi vengono appiccicati. Le cose sono andate un po’ da sole, un po’ secondo stereotipo.
NP: L’artista si trova a estendere il proprio Io sul mezzo che ha scelto, estende l’Io sulle cose come i neonati [a posteriori noto una preoccupante tendenza metaforica verso l’infanzia: colpa di una piccola nipotina, ndR]. Se questo è il tuo Io esteso, oggi abbiamo scoperto qualcosa. La mostra infatti è immersa in un non-suono, un sottofondo drone, come i fiumi di sangue nelle orecchie, la cabina di un aereo; ci sono poi dei video che si avvicinano a non-video, sono vischiosi e fangosi; le tue sculture poi sembrano portare una non-carnagione, un colore che non offre informazioni biologiche rispetto a chi lo indossa, e lo stesso colore ricopre i dispositivi-monili di cui sono ricoperte. Siamo di fronte a un accumulo di negazioni. Il paradosso: da quando ti ho conosciuto mi hai detto che lavori per addizione, che quando pensi all’accessorio, al gioiello, all’ornamento, hai sempre un approccio massimalista.
MG: Quando lavoro cerco di essere generoso, di dare molte, molte informazioni. Le sculture stesse hanno due titoli, e i titoli sono troppo lunghi, perché voglio dare molto… però mi diverte questo paradosso per cui la moltitudine di informazioni invece di aiutare lo spettatore tirano su un muro, mi ostacolano pure; per esempio questi titoli troppo lunghi non mi permettono di essere pubblicato sulle riviste con le caption corrette, per dire, perché chiedono troppo spazio. Io lo sento come un dovere però, perché non farlo? Le sculture danno tanto, danno molti suggerimenti e anche contraddittori, la pelle stessa è troppo lavorata, troppo dettagliata, fino a non capirci più niente… tutta questa indeterminatezza mi sembra possa aiutare a sentirsi coinvolti, sentire di più, a provare qualcosa: una volta superato il fatto che alcune cose non sono per forza da analizzare allora magari ci si sprofonda, ci si ritrova dentro. Ci spero almeno, è un tentativo. Questo overdressing, che mi caratterizza (se non sto attento tendo a esagerare, mi riempio di anelli, collane eccetera) mi fa empatizzare molto con loro, che sono un po’ patetiche, che mi fanno un po’ pena.
MM: È come se questo sovraccarico di informazioni andasse a formare una nebbia. Come quando ci troviamo in montagna, e vediamo salire la nebbia e ci camminiamo dentro per tanto tempo, non importa in che direzione andremo, sappiamo che a un certo punto ci sentiremo bagnati. Non importa in quale direzione della mostra andiamo, a un certo punto ci troviamo completamente fuori luogo.
NP: Raccontaci di queste figure più o meno umane, vestite di blu; sono un elemento funzionale, di struttura e non di espressione.
MG: Sì, diciamo a metà. È un discorso molto semplice: questa mostra, tra le cose che fa, indaga l’invisibile. Sai, se quando esponi crei un’opera volante dovrai appenderla a qualcosa, a un cavo, a qualcosa che esce dalla parete, e così facendo chiederai implicitamente a chi guarda che quella cosa non esista. Così come chiedi di non guardare il proiettore, l’uscita di sicurezza, l’estintore… le sculture hanno lo stesso colore che si può eliminare in post-produzione grazie al blue screen, ecco, se fossero filmate permetterebbero alle opere di galleggiare. Rendono possibile il volo alle altre sculture. Le ho accolte con molto piacere perché mi sembravano sempre utili a un tipo di spettatore del mio lavoro, magari a chi mi conosce meno, li aiuta a capire che il mio sguardo non è proprio lì dentro, ma è un poco più fuori.
NP: Aggiungono informazioni.
MG: Mi è venuto spontaneo. Altra cosa che me le ha fatte accettare senza troppa sofferenza – visto che mi capita di accettare sculture che non dovrei accettare, che non per forza mi piacciono, però se non le faccio io chi le fa? – è la loro ridondanza, quella cosa lì pacchiana, è un elemento che all’interno della sinfonia andava ad aggiungere qualcosa che mancava, di cui c’era bisogno. Solitamente le mie opere sono goffe, queste un po’ meno.
NP: Sempre andando in moto ondivago, senza sapere dove finiremo… uno degli stimoli che ci ha portato a iniziare MEDUSA è stata una mostra fotografica di Armin Linke che ho visto al PAC, L’apparenza di ciò che non si vede. Era una mostra fotografica grossa, grandi foto stampate anche a raffica, accumulate sui muri, un’idea di abbondanza… Lui per molti anni si è occupato di esplorare quegli incroci di relazioni e tecnologie che di solito passano inosservati. Ricordo per esempio grandi foto di mercati ipertecnologici come quello di Amsterdam, dove di fronte a una pioggia di cifre digitali e monitor si decidono i destini di qualcosa che è molto materiale, le piante, i fiori; oppure una veduta aerea di un bosco ucraino dove è stata disboscata una enorme X, e all’incrocio di questa X si uniscono gasdotti russi e ucraini, una realtà fisica tanto importante quanto apparentemente invisibile; vado a memora ma gli esempi sono tanti, il mondo materiale dei satelliti, della telecomunicazione…
La nostra sopravvivenza dipende da oggetti, in apparenza, noiosi. Mi vengono in mente i proiettori esposti nella tua mostra, il ronzio quasi elettrico… La natura si nasconde nella corrente, nella fibra ottica, nei computer che sono fatti di sabbia, eccetera: questo processo di trasformazione continua è da mappare, raccontare, e soprattutto – a noi sembra – offre un infinito materiale poetico. Qualcosa che si rigenera ogni giorno, se abbiamo la forza e la presenza per captarlo. Se cominciassimo a interrogarci da dove arriva la corrente elettrica di Manifattura Tabacchi potremmo arrivare a qualche traliccio ronzante lynchano dove si consumano orrori inimmaginabili. Ci sono cose che ci attraggono senza logica, e le idee magari arrivano mesi, anni dopo. Quando camminando per la tua mostra vedo quei proiettori lampeggiare mi succede qualcosa, sono contento.
MG: Prima di tutto noi abbiamo allestito una mostra video. Poi le sculture le abbiamo inserite in un secondo momento, per simulare il comportamento di quegli spettatori, di me, di te, di noi. Alcune, spocchiose, stanno al centro della stanza; altre si nascondono a ridosso delle colonne, la metà di loro sono tutte accalcate di fronte a un video… in uno spazio di 650 metri quadri poteva essere una scelta strana, pericolosa. Invece ci abbiamo lavorato su, sono stato da solo con loro per un bel po’ di tempo. Matteo mi ha dato degli ottimi consigli (alcune delle cose che sono successe in questa mostra sono successe soltanto grazie a Matteo e Ramona: hanno capito che non avevo bisogno di una presenza intellettuale che semplificasse il caos che stavo offrendo, non cercavo la sintesi come spesso succede nel nostro ambiente: l’esigenza della mia ricerca era trattenere quella sensazione, quel rumore bianco); non volevamo fare un grande spettacolo e nemmeno un giochino, però ci è piaciuto mettere una scultura di fianco a un proiettore, dove solitamente si chiede allo spettatore di non guardare (“lì finisce il mondo, non ci andare!”). Però quando sei insicuro, quando ti trovi a disagio, è proprio lì che ti nascondi. Ci è piaciuta questa cosa, d’ora in poi esporremo –
In coro: Proiettori.
Michele Gabriele, The Vernal Age of Miry Mirrors, a cura di Treti Galaxie. 2022. Courtesy dell’artista e NAM.
Foto: Flavio Pescatori.
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