EXTRA! OCEANO
di Matteo De Giuli. Un'intervista a Sylvia Earle dove leggerete di canzoni delle balene e glorie del rock, di immersioni e delfini, di elefanti e record.
Benvenuti, questo è un nuovo numero extra di MEDUSA, la newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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Oggi vogliamo condividere con voi un’intervista di Matteo all’oceanografa Sylvia Earle. Leggerete di canzoni delle balene e glorie del rock, di immersioni e delfini, di elefanti e record.
Ho incontrato Sylvia Earle poco prima che compisse 83 anni, mentre girava il mondo come una vecchia gloria del rock, dormiva in camere d’albergo per 300 giorni l’anno, si esibiva ogni settimana per un pubblico diverso in qualche conferenza sulla biodiversità. Senza lasciar intuire alcun calo d’entusiasmo si sottoponeva a decine di interviste ogni volta, rispondeva a domande che probabilmente si somigliavano sempre moltissimo, domande sulla sua carriera di oceanografa ed esploratrice, curiosità sui suoi record, su tutte le volte che è stata “la prima”.
“Essere vivi è un miracolo” mi ha detto durante il nostro incontro, e aveva il tono evangelico e lo sguardo febbrile di chi ha la certezza di avere una missione nella vita. “La natura, ovunque si guardi, è motivo di infinita meraviglia. Niente può toglierti la gioia di essere vivo”. Oggi, a 86 anni, dopo la pandemia, ha rallentato il ritmo del tour a un paio di eventi al mese, ma continua a essere eternamente attiva nel ruolo che si è ritagliata dopo la pensione, quello di una sorta di ambasciatrice degli oceani.
All’alba dell’esplorazione delle profondità marine, a partire da metà degli anni Sessanta, Sylvia Earle è stata una delle prime a indossare i moderni equipaggiamenti per i viaggi subacquei. Le sue ricerche scientifiche sono partite dalle alghe marine dietro casa, nel Golfo del Messico, in Florida, e l’hanno portata in Cina, alle Bahamas, alle Galapagos, nell’Oceano Indiano. Nel 1968, in immersione solitaria con il sommergibile Deep Diver, ha raggiunto i 1.000 metri di profondità. Nel 1970 ha vissuto per due settimane a 15 metri sotto il livello del mare con tre colleghe. Nel 1979 ha camminato sul fondo marino nei dintorni delle isole Hawaii, a 381 metri di profondità, esplorando autonomamente il fondale grazie a una muta speciale.
Tra il 1990 e il 1992 è stata chief scientist (la prima donna chief scientist) della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA). Dal 1998 è explorer-in-residence (la prima donna explorer-in-residence) della National Geographic Society. (E come non manca di ripetere ogni articolo a lei dedicato: Earle è stata ribattezzata “Sua profondità" da New Yorker e New York Times, “Leggenda vivente" dalla Biblioteca del Congresso, “Eroina del pianeta” da Time).
La prima volta che ho letto una sua dichiarazione era qualche anno fa, quando trovai online una vecchia intervista al Washington Post dove lei diceva: “Le canzoni degli anni Sessanta sono incredibilmente più belle di quelle degli anni Settanta”. Parlava delle canzoni delle balene, però, non di quelle umane.
[ride] È vero. La complessità del canto delle balene un tempo era, anche alle nostre orecchie, più melodiosa, semplicemente più bella, di ciò che poi sarebbe diventata dovendo competere con tutti gli altri suoni che immettiamo nell’oceano. I primi a osservarlo furono Roger Payne e Katy Payne, due ricercatori che hanno studiato il comportamento delle balene e il loro canto basandosi su decenni di ascolto. Erano dispiaciuti nel dover ammettere che le osservazioni erano diventate meno complesse. Chissà che cosa è bello per loro, per le balene, ma per noi i loro canti erano diventati meno armoniosi.