NONNI
di Ivan Carozzi. Tradizioni inventate e vera nostalgia: il filo d'oro che lega le origini del Mulino Bianco all’antropologia del pane.
Benvenuti, questo è il numero centottandue di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero siamo felici di ospitare un articolo di Ivan Carozzi, scrittore e autore. Carozzi è stato caporedattore di Linus e ha scritto per la televisione, per la radio e realizzato podcast. I suoi ultimi libri sono Fine lavoro mai (Eris, 2022) e, assieme a Enrico Deaglio, i primi due volumi del progetto C’era una volta in Italia (Feltrinelli, 2023 e 2024).
In chiusura l’unica certezza: i numeri della CABALA.
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In questo numero leggerete di biscotti e designer, di magia e tenerezza, di fertilità e marketing, amuleti e statistiche.
Un grigio e piovoso sabato mattina di febbraio ci siamo radunati in una libreria dell’usato che si chiama Potlatch, in via Padova a Milano, per raccontare insieme le origini di un vecchio marchio di biscotti: il Mulino Bianco. Eravamo quaranta, forse cinquanta persone, bagnate dall'acquerugiola e ciascuna con il proprio ombrello abbandonato da qualche parte fuori dalla porta. Abbiamo preparato cinque moka di caffè con un fornellino da campo e un pentolone di latte caldo. Era uno di quei grandi pentoloni che si vedono sotto le fiamme nelle cucine dei ristoranti o delle mense e sembrano capaci di emanare dai loro fianchi d'acciaio uno speciale senso di felicità e umanità. Ognuno aveva portato da casa una tazza, riempita via via di latte, con il mestolo che pescava adagio dal pentolone. Sparsi su un paio di vassoi c'erano i biscotti del Mulino, ma pure dei biscotti fatti a mano da Anna di Potlatch.
Lisa Rampilli, illustratrice e ceramista, ha preparato una coppia di grandi riproduzioni in ceramica di due famosi biscotti del Mulino: il taralluccio e il galletto. Due sculture, modellate con pazienza e mestiere, messe a cuocere in un forno e poi a raffreddare per giorni, fino alla doratura finale.
I granelli trasparenti di zucchero, che diffondono luce come strass o cristalli e contraddistinguono il galletto, sono stati ricreati grazie a delle schegge di vetro raccolte per strada a Milano e poi pigiate, una per una, dentro l'argilla. I due biscotti quindi erano fatti anche con il materiale di risulta di un incidente stradale: specchietti esplosi, frammenti di un fanale, eccetera.
Enrico Gabrielli e Alessandro Grazian hanno eseguito, con flauto e chitarra, la melodia folk scritta da Franco Godi per i primi spot del Mulino Bianco. Livia Satriano ha accompagnato la proiezione di alcune vecchie animazioni, disegnate da Grazia Nidasio per il Mulino, con le analisi che Roland Barthes ha dedicato all'amore e all'attrazione erotica in Frammenti di un discorso amoroso (i protagonisti delle animazioni sono infatti un uomo e una donna, un mugnaio volenteroso e una procace e sorridente ragazza dai capelli color del grano).
Per quanto mi riguarda, ho raccontato la storia delle origini del marchio del Mulino. È una vicenda fatta di molte tappe, dove entrano in gioco sguardi diversi. Osservazione e misurazione della realtà, del mercato, dei consumi alimentari e in particolare dei prodotti da forno, accanto a una vena di sorprendente umanesimo e a un’acuta sensibilità per il bello, i simboli e le culture scomparse. Il Mulino Bianco aveva intercettato la nostalgia per il mondo perduto della civiltà contadina e dei prodotti della buona tavola, nel momento esatto in cui quel sentimento prendeva forma e si diffondeva fra le maglie di un ceto medio più esteso di quanto non sia oggi.
I professionisti coinvolti nella creazione del marchio avevano catturato una vibrazione, avevano preso quel primo nucleo di coscienza ecologica e di embrionale resistenza alla civiltà dei consumi e lo avevano trasformato in un prodotto da supermercato. Fu un caso di appropriazione culturale? Sì, e no. Era un gruppo di persone che vivevano in mezzo ai fenomeni, nella società, erano mammiferi, avevano gusti, debolezze, epidermide, inclinazioni e non mi pare credibile affermare che agirono sistematicamente per estrarre valore dal mondo.
Mi sono imbattuto nella storia del marchio Mulino Bianco mentre lavoravo con Enrico Deaglio a un libro, il secondo volume di C'era una volta in Italia-Gli anni Settanta. In rete si trova un PDF molto ricco e documentato sulla nascita del Mulino. Mentre si scorre la pagina, sembra di entrare nello studio di un'artista, tra la confusione degli schizzi e dei bozzetti buttati un po’ sui tavoli e un po’ a terra.
Come per ogni marchio, infatti, la creazione del Mulino Bianco è preceduta da una ricerca iconografica, in questo caso assai raffinata e profonda, all’altezza della migliore cultura italiana. Siamo a Parma, la stessa provincia, lo stesso grembo dove qualche anno più tardi nascerà FMR, il mensile di arte e cultura dell'immagine fondato da Franco Maria Ricci. Un caso? Secondo me, no.
Comunque la storia è questa.
1974. La Barilla vuole lanciare un nuovo prodotto, diverso dalla pasta: i biscotti. Però, pensano, è meglio farlo partendo da un marchio originale, per evitare sovrapposizioni con gli spaghetti e i maccheroni. Il progetto viene seguito passo passo dal direttore della Divisione Nuovi Prodotti della Barilla, Gianni Maestri. Bisogna creare un mondo da zero.
Essendo una delle patrie del biscotto, l'Inghilterra, pensano, è il modello da studiare e da prendere a esempio. Sbagliato. Un sondaggio rivela che solo la punta del campione, ovvero le famiglie con alti livelli d'istruzione, sono in grado di riconoscere e apprezzare il riferimento britannico, con tutte le sue preziosità e gli impliciti riferimenti carichi di umori aristocratici. Il resto del campione è indifferente. Perciò vengono cestinati i due progetti pronti per le linee packaging, già battezzati con i nomi “Biscuit House” e “Mary Ann”.
Una nuova ricerca di mercato, inoltre, rileva che la diffidenza verso il cibo industriale è in crescita e che nelle famiglie contano ancora molto due figure: il nonno e la nonna. Capita che vivano nella stessa casa a due piani dove abitano i figli e i nipoti. A volte il nonno e la nonna vivono nello stesso appartamento. Sono loro che nell'Italia degli anni Settanta trasmettono ai figli e ai nipoti la memoria di un mondo che sta scomparendo, e della bontà della tavola contadina.
L’intuizione di Gianni Maestri trova almeno una conferma nella mia biografia e nel ricordo di mio nonno materno seduto al tavolo della cucina, mentre mangia con coltello e forchetta un caco, posato su un piattino, dopo averlo rubato da una pianta, l'unica pianta di caco sopravvissuta nel brandello di campagna cementificato dove sono cresciuto, a Massa. Maestri capisce che la chiave per un nuovo marchio di biscotti è il passato, è scavare nel passato, è cercare nel passato simboli e immagini magiche ed eloquenti.
Il logo del Mulino Bianco viene ideato dallo studio del creativo Gio Rossi e disegnato da Cesare Trolli, cromolitografo specializzato nella confezione di biscotti. L’obbiettivo di Rossi è isolare “una matrice emozionale differenziale” e distinguersi “dalla subordinazione del prodotto alla confezione e dai display nei punti vendita”. Secondo Rossi gli scaffali dei supermercati “sono caratterizzati da una isterica ricerca di contatto visivo, tramite grossolane affettazioni di sapore filo-americano”. Interessante. Gio Rossi, mi chiedo, era “comunista”? Flirtava, come tanti, con la sinistra extraparlamentare del tempo? Frequentava, all'inizio degli anni Settanta, qualche collettivo? Leggeva i fogli della stampa underground? Era un fedele lettore di Re Nudo? Se ne serviva per conoscere e arricchirsi o per appropriarsi di qualche idea? Per arraffare o per lasciarsi attraversare dal proprio tempo e colorare di nuove idee e immagini? A naso, era una persona curiosa, che amava il proprio lavoro e al quale piaceva giocare e sperimentare.
Gio Rossi decide che i biscotti del Mulino Bianco non dovranno avere la classica forma di bottone. Inizia prima ad analizzare gli stampini dei biscotti tradizionali che trova nelle botteghe degli antiquari, e poi s'immerge nello studio dell'antropologia del pane e dei prodotti derivati dal grano. L'obbiettivo è risvegliare un “sogno di artigianato di qualità che dorme nelle stratificazioni del subconscio di ciascuno”. Dove trova questi pensieri, Gio Rossi? Che cosa sogna la notte? Dove dorme? Come sono fatte la sua casa e la sua camera da letto? Chi c'è accanto a lui mentre sogna? Dove lascia i vestiti dopo essersi spogliato? Mentre sogna, tocca e accarezza il corpo della persona che gli sta a fianco? Qual è il libro che ha appoggiato sul comodino prima di spegnere la luce e chiudere gli occhi? Rossi consulta cataloghi del 1915, del 1923 e dell'esposizione universale di Parigi del 1925. Gira per i mercatini di mezza Europa. Cerca un mix tra stile rustico e cultura cittadina.
Il mazzetto di spighe e fiori di campo raffigurati nel logo del Mulino Bianco sono ispirati a una stampa dei primi del Novecento. Le spighe contornate dai fiori di campo rappresentano la nostalgia della mietitura. I colori tenui e acquarellati ricordano i rosa e gli azzurri delle prime cromolitografie, usate per rafforzare gli incarnati e i lineamenti del volto. Secondo Gianni Maestri, le spighe e i fiori contengono “gli elementi espressivi della naturalità” e “i codici della fertilità”.
Avrei voluto partecipare a un pranzo tra Maestri e Gio Rossi. Il mulino è emblema dei valori di una volta. Il bianco evoca purezza, forza e luminosità. È “il colore della farina lattea”, dice Gio Rossi, “volevo che ricordasse la tenerezza. La tenerezza la vai a cercare nell’infanzia: il colore della farina lattea, della pasta dei biscotti rubata alla mamma prima che vadano in forno, o dello zabajone. Doveva essere il colore di una sostanza ricca, generosa e affettiva”.
Il mulino viene appositamente disegnato come se fosse una vecchia xilografia. La forma e l'intaglio finale dei biscotti sono preceduti da una serie da cento di disegni e formine. La maggior parte dei prototipi non andranno in produzione. Peccato. Restano solo alcune foto. Più che biscotti sembrano amuleti, oggetti magici, simboli araldici.


Nascono i Tarallucci, i Galletti, le Macine, le Pale, i Mugnai, le Campagnole. Le forme sono volutamente irregolari, quasi rozze. Devono sembrare fatti a mano. Per l'impasto e gli ingredienti la Barilla si affida a un Maestro Biscottiere inglese, un certo George Maxwell. Ho cercato il nome in rete e non ho trovato nulla. Forse è un personaggio d'invenzione, come il mugnaio. Le confezioni: basta astucci, la confezione deve ricreare l'esperienza tattile dei cartocci dove il fornaio mette il pane. Nasce così il sacchetto dei biscotti del Mulino Bianco.
Autunno 1975. Finalmente i prodotti del Mulino Bianco arrivano sugli scaffali e nelle case. La frase di lancio è: “Ti ricordi quei buoni biscotti che sapevano di burro, di latte, di grano? Domattina cereali al Mulino Bianco”. E poi: “Mangia sano, torna alla natura”.
Gianni Maestri una volta ha detto che il successo e la qualità del biscotto Mulino Bianco si devono non al fatto che è buono da mangiare, ma che è “buono da pensare”.
Nel 1925, durante il suo 16° congresso, l’Istituto Internazionale di Statistica ha accettato definitivamente come scientifico il metodo campionario.
Nel 2024 un sondaggio delle Nazioni Unite (“People's Climate Vote”) ha interpellato 75.000 persone in vari Paesi, raccogliendo un campione che rappresenta il 90% della popolazione mondiale.
L'80% degli intervistati ha dichiarato che i loro Paesi dovrebbero rafforzare il loro impegno sul fronte climatico.
Un sondaggio più recente (della American Economic Review), condotto su 40.000 persone in 20 dei Paesi più inquinanti del mondo, ha rilevato che l’86% delle persone la pensa allo stesso modo.
Esiste però un divario tra percezione e realtà. Uno studio statunitense del 2022 (Nature Communications) ha rilevato che le persone pensano che solo il 40% dei loro concittadini sia favorevole alle politiche climatiche: la percentuale reale è intorno al 75%.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 430,25 ppm (parti per milione) di CO2.