NAZI–DIET
di Nicolò Porcelluzzi. Hitler mangiava i canederli? E cosa possiamo imparare dalla vecchia storia d'amore tra capitalismo tecnologico e destra autoritaria?
Benvenuti, questo è il numero centosettantasei di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di Rachel Carson e Adolf Hitler, di ecologia e illibertà, di parathion e broccoli, miti e genoma.
Il pensiero ecologista moderno nasce con Primavera silenziosa di Rachel Carson, un saggio pubblicato nel 1962. Nella sua ricerca Carson, spiegando e accompagnando, mette in fila gli effetti letali dell’uso massiccio e incontrollato dei pesticidi sintetici. Oltre alle formule chimiche e i retroscena politici, Carson include in ogni capitolo decine di microstorie terrificanti, e sono queste a lasciare le impressioni più durevoli, anche a dieci anni dalla prima lettura. Per esempio:
“Il pericolo principale e più comune che il loro impiego comporta [si parla di un gruppo di insetticidi, i fosfati organici, ndR] è la grande facilità con cui essi intossicano gli addetti alle disinfestazioni, e chiunque altro entri in contatto con il getto del materiale cosparso, o con la vegetazione irrorata o con i contenitori dell’antiparassitario. In Florida, due ragazzi che avevano trovato un sacchetto vuoto, e se ne erano serviti per riparare un’altalena, furono colti poco dopo dalla morte; tre dei loro compagni di gioco caddero ammalati. Il sacchetto aveva contenuto una volta l’insetticida chiamato parathion, uno dei fosfati organici di cui abbiamo già parlato”.
Il parathion e altre di queste sostanze, il cui uso si sarebbe moltiplicato nel dopoguerra, vennero sintetizzate nella Germania nazista per essere poi convertite a uso civile.
Come a solo pochi libri succede, il saggio di Carson è diventato negli anni oggetto di culto e materia di mito, non soltanto perché scrivendolo Carson avrebbe “cambiato il mondo”; ma per le condizioni che ha patito negli anni della stesura, malata infatti di un tumore al seno che, gravandola di complicanze, l’ha uccisa a qualche anno dall’uscita del libro.
In Primavera silenziosa vengono citati molti studi, ricerche e nomi; tra questi torna in diversi capitoli quello del dottor Wilhelm Hueper “del National Cancer Institute, una vera autorità in campo oncologico”. Vengono citati studiosi a ripetizione, com’è ovvio, ma nessuno o quasi merita gli elogi riservati a Hueper e al suo Occupational Tumors, secondo Carson e non solo “una monografia classica sull’argomento”. Ecco altri due passaggi:
“Difficilmente sarebbe stato possibile maneggiare le sostanze arsenicali con maggior dispregio della salute pubblica di quanto non si sia fatto nel nostro paese durante gli ultimi anni,” afferma il dott. Hueper del National Cancer Institute, un’autorità nel ramo dell’oncologia.
[…]
A questi interrogativi il dott. Hueper – un uomo che dovremmo ascoltare per l'autorità che gli deriva dalla sua preparazione scientifica in questo campo – risponde con la consapevolezza di chi ha meditato lungamente su di essi durante un'intera esistenza spesa nello studio e nelle ricerche.
Nato povero a Schwerin, Germania settentrionale, Hueper emigra negli Stati Uniti negli anni Venti e nel giro di qualche decennio, diventa “il padre della carcinogenesi professionale americana”. I suoi studi hanno rivoluzionato la nostra comprensione del cancro, allontanando milioni di persone dalla morte certa. Nel 1919 Hueper portava già la svastica sull’elmetto dei Freikorps, e il 28 settembre 1933 scriveva a Bernhard Rust, il ministro nazista della cultura, sperando di farsi una posizione nella nuova Germania.
Tocca capire allora perché un’eccellenza della ricerca medica, già primario e libatissimo, desiderasse lavorare nella Germania nazista: e rispondersi riducendo al fanatismo, alla risatina sul nazi, sarebbe non solo stupido, ma un’occasione persa per ragionare sull’attuale interdipendenza tra capitalismo tecnologico e destra autoritaria.
La disamina lucida del contesto accademico-scientifico nazista è al centro di un vecchio saggio di Robert Proctor, La guerra di Hitler al cancro. In meno di vent’anni, insieme ai campi di sterminio vennero infatti inventati o perfezionati la televisione, i calcolatori, i jet, il microscopio elettronico, la fissione atomica, le autostrade, il sarin e il metadone e tanto altro.
Poi: molteplici scoperte e intuizioni nel campo oncologico. Dall’alleanza tra medicina e dittatura nasceranno feroci campagne anti-tabacco, riforme nell’agro-alimentare, i primi screening di massa, rivolti anche e soprattutto alla popolazione femminile (troppo lunga in questa sede una parentesi sul controllo autoritario del corpo della donna negli anni Trenta).
Non così diversamente dalla cultura egemonica di questo decennio, quella nazista era “una curiosa miscela di modernità e romanticismo”, di strenua tensione alla Leistung, cioè al Rendimento (un esempio attuale, tra i tanti: Brian Johnson, il poveretto che da anni sta finanziando degli studi sulla sua immortalità grazie a siringhe, sensori e broccoli lessi), l’idea che il corpo non possa bastare, che vada potenziato e aumentato, purificato, e così il corpo sociale, e quello nazionale, e quello mondiale.
Il saggio di Proctor non è di certo una lettura allegra. La ricerca scende negli anni Trenta e Quaranta, ci convive e si ambienta. E se c’è un vuoto che risucchia l’energia dei ricercatori nazisti è il terrore del cancro, il pensiero ossesso del suo luogo d’origine, osceno e illeggibile, nascosto nel nostro corpo, che è la nostra coscienza. Qualsiasi persona che abbia visto manifestarsi un cancro in famiglia, e uccidere, sa di cosa scrivo. Anche Hitler vide sua madre morire per un cancro del seno, a diciott’anni. Una volta adulto, avvertiva in ognuno dei suoi crampi allo stomaco la malattia terminale che sicuramente l’avrebbe ammazzato.
Devo ammettere che prima della lettura del saggio non mi ero interrogato quanto basta sul ménage affettivo hitleriano, né sulla sua ipocondria, né su altre minuzie della sua giornata. Sapevo le solite due cose, che fosse vegetariano e monorchidico, ovvero che avesse una palla sola. Non tollerava il tabacco e l’alcool, sostanze che in sua presenza erano vietate, non tollerava il consumo di carne, con l’eccezione dei canederli (uno o due?) che gli preparava Heinrich Hoffmann, un amico fotografo. Di rado si concedeva qualche fetta di prosciutto. Il brodo di carne, Hitler lo chiamava il “tè di cadavere”.
Sembra che avesse smesso di mangiare carne nel 1931, secondo alcuni per dei disturbi digestivi; secondo altri, basandosi sulle sue dichiarazioni, furono le idee wagneriane la ragione principale: solo astenendosi dalla carne si sarebbe raggiunta la redenzione. Le due teorie non si escludono a vicenda.

Da metà Ottocento ai primi decenni del Novecento il tumore allo stomaco era la causa principale di morte, nella casistica del cancro. In quegli anni i prodotti alimentari erano spesso “molto salati, spesso fermentati, e non di rado avariati […] contaminati da muffe, funghi, batteri e altri agenti cancerogeni”. Ma soprattutto:
Sappiamo che i cibi erano spesso adulterati con coloranti vistosi e conservanti, tra cui vivaci tinture a base di catrame minerale, solfati di rame verde vivo […] e molti altri. La liquirizia, per esempio, era spesso colorata con nerofumo derivato dalla combustione delle candele. Non è difficile immaginare che l’ampio uso di coloranti e conservanti abbia causato alcune delle forme di tumore gastrico dell’epoca.
Come già accennato, insieme allo sviluppo economico, nella Repubblica di Weimar aumentavano le vittime della nuova malattia, ereditata poi dal Terzo Reich. Fiorivano allora i tentativi, le teorie e i dogmi: bisogna mangiare i cereali, la frutta e le fibre, invece la carne insaccata ti uccide. Nell’Ottocento si diceva che i pomodori causassero il cancro, e che la neoplasia potesse nascere dal consumo eccessivo di frutta e verdura. Mezzo secolo dopo si diceva che i macellai fossero, almeno in parte, esenti dal cancro; poi arrivavano degli studi nazisti che, garantiti da un eccezionale apparato burocratico e statistico (necessario allo sterminio di quindici milioni tra ebrei, disabili, rom, omosessuali), sconfessavano l’ipotesi; eccetera, la lista dei sospetti e delle smentite è lunga e fantasiosa.
Piaga genetica e ambientale, all’epoca il cancro suggerisce miti della razza che – per quanto sballati e irrazionali – come l’orologio rotto ogni tanto beccano l’ora giusta: per esempio la corrispondenza tra la circoncisione e le bassissime incidenze di tumori del pene nella popolazione ebraica, un caso in cui “la cultura aveva vinto il cancro”, dice Arthur Hintze nel 1939, radiologo nazista.
Secondo altri studi gli ebrei anziani, in Ucraina, presentavano il doppio delle morti di cancro rispetto ai coetanei ucraini o russi: tra gli ebrei inoltre si riscontravano percentuali anomale di cancro dello stomaco. “Si sosteneva alternativamente che quelle degli ebrei erano malattie della povertà o della ricchezza”, scrive Proctor, e si diceva che il cancro dello stomaco potessere essere “un segno della loro tenace lotta per arricchirsi”.
Oggi sappiamo che strane variazioni dell’incidenza tumorale su scala planetaria sono spesso dovute a qualche anomalia o errore nella raccolta dei dati. Storicamente, le persone marginalizzate, povere e segregate non venivano censite con la stessa cura delle altre. Da qui le aberrazioni statistiche. Così come per gli afroamericani, un secolo fa negli USA si pensava “talvolta che gli italiani fossero resistenti al cancro, un'idea che indusse alcuni americani a sostenere che il matrimonio con donne italiane avrebbe reso la prole resistente al cancro”.
Curioso però come uno di questi miti mi sia tornato in faccia studiando i dettagli di un film recente, nella fattispecie le scene iniziali di Uncut Gems.
La guerra di Hitler al cancro è del 1999, e gli studi su ereditarietà e malattia sono andati avanti per un altro quarto di secolo. Una questione ancora aperta riguarda il carattere ereditario di alcune forme tumorali, e una storia che risale all’epoca hitleriana riguarda proprio il nesso tra ebrei aschenaziti e cancro del colon.
Nonostante una moltitudine di studi stia cercando di risolvere il dilemma, è risaputo nella comunità aschenazita che nel suo codice genetico sia leggermente più comune la variante APC I1307K, associata a un maggiore rischio di tumore del colon-retto. Tuttavia, ieri come oggi, i dati possono portarci a conclusioni affrettate. Essendo una variante presente nel resto della popolazione, ed essendo presente anche in individui sani, si tratta probabilmente di un polimorfismo, niente di letale.
Ma queste cellule e queste credenze si autoriproducono anche oggi, a un secolo di distanza. Così diffuse le storie familiari, e il terrore per la malattia, che nel 2019 la colonscopia di un gioielliere ebraico è diventata l’incipit di Uncut Gems, dove a subire la procedura è Adam Sandler diretto dai fratelli Safdie, tutti e tre di origine aschenazita (sto scrivendo un saggio breve sul film, se lavori per un editore scrivimi pure).
Nella sequenza l’occhio dello spettatore viene dirottato dai giochi di colore di un opale etiope, pietra del mistero e della salute, alle pareti dell’intestino crasso del protagonista. Grazie al monitor dell’ospedale ci vengono forniti il nome e l’età, quarantotto anni. Sandler è il ritratto della vulnerabilità. Più avanti nel film si scoprirà che l’esame nasceva proprio dall’ansia aschenazita, l’orrore del “male incurabile”, o restando in Veneto, del male oscuro. Il gioielliere, come tutti gli ipocondriaci, si concentra su quello che non ha per distrarsi dai mali incurabili che lo accompagnano dalla nascita, il rivo strozzato che gorgoglia, l’incartocciarsi della foglia riarsa, eccetera.
Il gastroenterologo intanto indica ai colleghi l’eventualità di un polipo piatto (flat polyp) di due centimetri circa, “voglio fare delle biopsie”. Studiando la scena scopro che il medico in realtà sta recitando una sequenza di tratti anatomici tutti rimescolati, la valvola ileocecale e il colon sigmoideo, la flessura splenica e il colon medio-trasverso, tutto un po’ alla rinfusa.
Ma noi che ne sappiamo, mica siamo medici?
Per concludere: la medicina nazista, prima di prestarsi allo sterminio di massa, agli esperimenti sulla temperatura e la pressione che il corpo può sopportare, alle iniezioni di coloranti nell’iride, ad altre forme di tortura che non serve esplicitare, ha avuto qualche buona intuizione sulla prevenzione oncologica.
A guidarla c’era quest’uomo:
Poco dopo avere assunto la sua carica, [Hitler] organizzò un incontro con un’ottantenne di Bad Godesberg (“conosciuta lungo tutto il Reno come la Seniorin del vegetarianismo, dei bagni terapeutici d’acqua fredda e della cura con le erbe”) per discutere i benefici di un’alimentazione vegetariana. Lo stesso giorno, quando il capo della Gestapo [la fonte stessa dell’episodio] cercò di accennargli alla necessità di semplificare la complessa struttura burocratica del partito, Hitler ribatté che c’erano “cose di gran lunga più importanti della politica, per esempio riformare lo stile di vita dell’uomo. Ciò che quella vecchia mia ha detto stamattina è molto più importante di qualunque cosa io possa fare nella mia esistenza”.
Uno studio appena pubblicato su Nature ha analizzato 52 campioni di cervello umano, 28 appartenenti a persone decedute nel 2016 e 24 nel 2024.
La presenza di microplastiche e nanoplastiche in questi campioni è allarmante: secondo i ricercatori si possono ricomporre fino a 10 grammi di plastica spersa nel cervello, più o meno un cucchiaino per il caffè in ogni testa.
Il quantitativo misurato dagli studiosi è del 50% maggiore oggi rispetto a 8 anni fa. Sono ancora pochi dati, ma sembra che ci possa essere una correlazione tra la presenza di microplastiche e alcune malattie, come la demenza.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 426,53 ppm (parti per milione) di CO2.