MITZPE
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di astronauti e spine dorsali, di Marte e Chardonnay, di archivi e bombe nucleari, asini selvatici e salti nel vuoto.
Benvenuti, questo ĆØ il numero centosei di MEDUSA,Ā una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi ā in collaborazione con Not.Ā
MEDUSA ĆØ una newsletter che parla di cambiamenti climatici e culturali. Ogni due mercoledƬ. Come forse avete notato, anche qui dentro sono cambiate un paio di cose. Prima di tutto, abbiamo cambiato la piattaforma su cui ospitare la nostra newsletter. Abbiamo cercato di mantenere il nostro abito, approfittando della novitĆ per giocare un poā con la grafica. Poi: rivisitando il nostro percorso, abbiamo pensato che fosse ormai tempo di ridefinire la nostra ragione dāessere, semplificandola. MEDUSA ĆØ una newsletter, il posto che abbiamo costruito per scrivere e sentirci liberi, la scatola cosmica che ci permette di sperimentare e di andare nelle direzioni che preferiamo. Un oggetto semplice, che ci ha permesso e ci permetterĆ di sondare altri linguaggi: non solo articoli e racconti, ma anche audio, video, mostre, ibridi vari.
āStorie dalla fine del mondoā, il sottotitolo della newsletter, era la nostra idea poetica di una veritĆ geologica, l'Antropocene: abbiamo deciso di lasciarlo al nostro primo libro, che si intitola MEDUSA. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo). Da oggi qui saremo solo MEDUSA newsletter.
Unāultima notizia: tutto quello che scriviamo su MEDUSA, ogni due settimane, resta gratuito per tutti. Da oggi, però, se ti piace quello che facciamo, si possono donare 5⬠al mese. Oppure 30⬠lāanno (e quindi 2,5⬠al mese). Oppure si può fare unāofferta libera annuale. Chi si iscrive scegliendo una di queste opzioni, riceverĆ ogni tanto anche dei numeri extra, racconti, post o qualche esperimento pazzo. Potete aggiornare la vostra iscrizione qui:
Per tutto il resto, la nostra homepage ĆØ ora medusanewsletter.substack.com. Siamo contenti di rivederci qui, e vi ringraziamo.
Di solito la newsletter ĆØ divisa in tre parti: un articolo inedito e due rubriche, i link e i frammenti di testo dei Cubetti, e i numeri della Cabala. Per il resto, se volete scriverciĀ potete rispondere direttamente a questa email o segnarvi il nostro indirizzo:Ā medusa.reply@gmail.com. Siamo anche su Instagram.
In questo numero leggerete di astronauti e spine dorsali, di Marte e Chardonnay, di archivi e bombe nucleari, asini selvatici e salti nel vuoto.
La notte non è mai buia, e anche sulle strade senza lampioni riverbera una luce cinerea e bluastra, come se la Luna fosse grande il doppio o due volte più vicina. Durante il giorno il panorama è indistinguibile dalle foto di Marte; pietre rosse, arancioni e ocra fino all'orizzonte.
Mitzpe Ramon ĆØ una cittĆ di cinquemila abitanti, un centinaio di prefabbricati, capannoni e edifici bassi nel deserto del Negev. Si affaccia sul ciglio di uno strapiombo di centinaia di metri. LƬ inizia il cratere Makhtesh Ramon, una valle lunga quaranta chilometri e larga otto di cui ĆØ impossibile abbracciare i confini con lo sguardo. Sembra lāimpronta lasciata da un immenso asteroide ma ĆØ una depressione naturale che si ĆØ formata grazie al peso del tempo, quando lāoceano ha lasciato spazio al deserto e il terreno ha iniziato a collassare su se stesso solo poco alla volta, roccia dura che preme su minerali morbidi per milioni di anni.
Lungo la linea che separa Mitzpe Ramon da un salto nel vuoto non cāĆØ neanche uno steccato. Una persona molto distratta potrebbe semplicemente precipitare giù durante una passeggiata. Ma gli esseri umani che si avvicinano allāorlo sono pochi, ci si avventurano invece con più disinvoltura decine di stambecchi selvatici, che non ĆØ raro sentire zoccolare anche per le vie più centrali della cittĆ . I maschi hanno delle corna minacciose, semicerchi lunghi un metro decorati da nodi e rigonfiamenti che ricordano le vertebre della spina dorsale. Al tramonto i più spavaldi si fanno largo tra i tavolini dei pochi bar della cittĆ per rovistare tra i cestini.Ā
Dicembre e gennaio sono i mesi peggiori per i turisti, il cielo ĆØ spesso coperto e le temperature di notte scendono anche decine di gradi sotto lo zero. Io arrivo in una sera dei primi di gennaio, e lo stupore per il luccichio argenteo della Luna non riesce a ricompensarmi dal freddo che mi aggredisce appena scendo dallāautobus. Lāostello ĆØ essenziale ma non sgradevole, pulito e sobrio, più o meno gli stessi aggettivi che potrei utilizzare per descrivere Yotam, il ragazzo che mi accoglie alla reception. Ć vestito da montagna, con i pantaloni pesanti e un maglione di pile di una taglia più grande della sua. Mi chiede da quale tappa del viaggio vengo e rispondo solo Gerusalemme senza aggiungere che sono stato tre giorni in Palestina. Oltre a lavorare per lāostello, YotamĀ ha un terreno, poco fuori il centro abitato, dove alleva alpaca, lama e una razza locale di asini selvatici che chiama asiatic wild ass. Mi dice che il giorno dopo ha mezza giornata libera e se voglio mi può scarrozzare un poā in giro.
La mattina mi sveglio presto e prima di incontrare Yotam mi incammino per la cittĆ , inizio a spiare dentro ai negozi. Incontro: un discount, un negozio di abbigliamento sportivo; ristoranti, di cui uno indiano, uno messicano, uno caucasico e tre vegani; un supermarket bio, un supermarket per animali domestici, un piccolo mcdonalds, due palestre di yoga; le indicazioni per raggiungere un albergo di lusso con piscina e una decina di centri turistici che organizzano āesperienze unicheā nel deserto. Passo accanto a queste vetrine estranee e familiari durante una mattinata nuvolosa. Cerco di buttare un occhio anche dentro alle finestrelle che si aprono sulle facciate pallide delle abitazioni private ma non riesco a scorgere nessun dettaglio interessante delle stanze. Le strade sono ampie, lāasfalto ĆØ un poā sconnesso. Tra gli edifici c'ĆØ qualche albero a basso fusto e dellāerba stenta.
Da qualsiasi punto della città , si vede la possente torre idrica comunale. à in cemento armato, con la testa a cono rovesciato. Per austerità e robustezza potrebbe essere stata catapultata lì dall'Unione Sovietica. Questa sensazione di leggera ucronia è rafforzata dalle scritte in cirillico che appaiono a macchia sui cartelli per strada, cosa non rara in Israele dove il russo è la lingua madre non ufficiale più diffusa.
Lāaltro edificio degno di nota, che spezza la monotonia urbanistica di Mitzpe Ramon e intensifica lāatmosfera extraterrestre, ĆØ il Visitor Center costruito a pochi passi dal dirupo del cratere. Ha la forma di un verme schiacciato che si attorciglia su se stesso. Si affaccia sul makhtesh con una grande vetrata curva che ricorda la visiera di un casco da astronauta. Mitzpe dāaltra parte significa āpunto di osservazioneā. Ć un edificio bizzarro, ma messo lƬ, appena fuori dal centro abitato, in contrasto allo schema ortogonale delle case tutte uguali colpisce come un capolavoro dimenticato di Frank Lloyd Wright.Ā
Per entrare al Visitor Center devo schivare lāinteresse inquieto di un gruppo di stambecchi che bivacca nei dintorni. Allāingresso, come se mi si rivelasse la parte più evidente di un mistero ostinato, scopro che quellāedificio, oltre a essere una sorta di pro-loco, ĆØ anche un piccolo museo dell'astronautica dedicato a Ilan Ramon, colonnello dell'aviazione israeliana, il primo ebreo a volare nello spazio, morto il primo febbraio 2003 nell'incidente dello Shuttle Columbia dopo una missione spaziale di due settimane. Nato con il nome di Ilan Wolferman, all'inizio della carriera militare, prima ancora di diventare astronauta, lo cambiò in Ramon proprio per rendere omaggio a quel pezzo alieno di deserto.
In Israele sorti ostili e memorie inconciliabili si trovano a dover sopravvivere convivendo, e cosƬ per un museo che celebra un eroe nazionale ce nāĆØ probabilmente un altro che chiede di raccontare una storia differente. Non fatico a scoprire che quella di Ilan Ramon ĆØ una figura dibattuta, anche se di questo nei pannelli del Visitor Center non c'ĆØ traccia. Nei suoi anni di aviazione militare prese parte alla prima guerra in Libano, bombardando la popolazione civile, e partecipò all'attacco aereo del 1981 sul reattore nucleare di Osirak in Iraq.
L'esposizione museale ĆØ spoglia e tristarella, ci sono delle teche che conservano le tute pressurizzate usate da Ramon, molte foto e qualche modellino di sonda spaziale. Una stanza del museo ĆØ dedicata poi alla storia geologica unica della zona: tre campioni di roccia ā arenaria, calcare e granite ā sono esposti sotto una teca di plexiglass. Su un pannello leggo che, grazie alle sue condizioni meteo e alla conformazione del terreno, Mitzpe Ramon ĆØ stata effettivamente scelta dall'agenzia spaziale israeliana per simulare missioni umane su Marte. I partecipanti faranno piccoli esperimenti, raccoglieranno dati sui rischi di contaminazione biologica e i loro comportamenti saranno studiati per testare la tenuta psicologica di un gruppo di persone in condizioni di isolamento quasi assoluto.
Torno allāostello per incontrare Yotam. Lo trovo che mi aspetta al volante di una jeep. Mi racconta che con quella, in alta stagione, porta i turisti in giro per il deserto. Ć il suo terzo lavoro, se non ho perso il conto, e il numero ĆØ destinato subito ad aumentare: da qualche mese per due o tre giorni alla settimana aiuta anche un amico nella sua azienda vinicola. Ć lƬ che stiamo andando.Ā
Mi chiedo che cosa significhi per lui essere nato e vivere in questo avamposto della civiltĆ ricco ma desolato, tra le rocce e gli stambecchi, dove le case sono cubi e parallelepipedi bianchi di uno, due o tre piani. Lāeffetto che fa a chi la visita ĆØ che Mitzpe Ramon non sia mai riuscita a diventare una cittĆ , che sia rimasta un insediamento. Il suo spirito ĆØ ancora quello della fondazione, negli anni Cinquanta, quando in mezzo al nulla furono costruite lƬ le prime case di un campo operaio, durante i lavori per la strada statale che porta al mar Rosso. Oggi, vista da lontano, non può che far pensare a una colonia umana in un pianeta ostile. Vorrei dirlo a Yotam, ma decido che in fondo la musica nella jeep ĆØ troppo alta e il mio inglese troppo pigro perchĆ© io possa parlare di ācoloniā con un ragazzo israeliano senza essere sicuro che questo non porti a una sciarada di fraintendimenti. Sto zitto e guardo fuori, finchĆ© non arriviamo.
Dal punto di vista meteorologico questa terra ĆØ un disastro, mi dice Yotam, lāaria ĆØ secca, dāestate fa un caldo infernale, tutto lāanno non piove quasi mai e quel poco che piove non resta perchĆ© viene spazzato via nelle inondazioni lampo tipiche del Negev che trascinano giù a valle fiumi di fango. Ma proprio per queste caratteristiche Mitzpe Ramon ĆØ diventato un laboratorio. Il futuro del pianeta ĆØ Mitzpe, mi dice. L'azienda vinicola del suo amico, che fa parte di una rete di vigneti costruiti in zona, ĆØ una surreale vivace macchia verde in mezzo ai colori pallidi del deserto. I filari delle viti mi sembrano troppo esigui per ricavare un numero dignitoso di bottiglie, e Yotam mi spiega che in effetti quelle aziende sono utilizzate soprattutto come luoghi di sperimentazione per capire come lāuva possa crescere in condizioni estreme. In fondo tra non molto anche le campagne italiane e francesi potrebbero ritrovarsi immerse in un clima simile a quello del Negev. CosƬ queste imprese si sostengono grazie ai finanziamenti delle universitĆ , delle grandi aziende vinicole europee e dalle societĆ di irrigazione che stanno testando lƬ le loro tecnologie.
Yotam si avventura in molti dettagli tecnici, e io che sono in vacanza non ho intenzione di seguirli. Li dimentico subito ma provo a ricostruirli: con il caldo lāuva va a maturazione più velocemente, e questo scombina ovviamente l'intera filiera, i vini diventano più zuccherosi e troppo poco acidi, escono fuori con colori sbagliati e soprattutto degradano in sapore e gradazione alcolica. Ma, aggiunge Yotam, adesso, dopo anni di duro lavoro, stanno riuscendo a ottenere, e addirittura mettere in commercio, le prime bottiglie buone. Anche nel deserto, anche in queste condizioni climatiche.
Mi fa assaggiare il loro Chardonnay, senza però versarsene anche lui un goccio. à troppo presto di mattina ma non posso rifiutare. Per quello che ne capisco mi sembra un vino terribile, molto intenso e terroso, minerale, troppo alcolico. Mi dà subito alla testa. This is future that awaits us all, mi dice Yotam con un tono di voce indecifrabile. Cerco di sorridere e finisco il bicchiere.
#1 DOVāĆ LāARCHIVIO
I più attenti avranno notato che con il cambio di piattaforma si ĆØ perso lāarchivio degli utlimi numeri. Da qui in poi, però, su medusanewsletter.substack.com troverete tutti i nuovi episodi. Per chi volesse recuperare le nostre vecchie cose, alcuni estratti della newsletter sono stati pubblicati in questi anni sul sito di Not (qui quelle scritte da Matteo, qui quelle scritte da Nicolò). Altri frammenti delle vecchie MEDUSE sono finiti nel nostro libro. Ci sono invece numeri del passato che rimarranno in giro in un posto indefinito dellāetere. Magari ne rispolvereremo qualcuno come contenuto extra per gli abbonati.
#2 SE SAI COME FARLO
Il problema dellāemergenza climatica si trascina conseguenze pratiche, di sopravvivenza, che colpiscono soprattutto le persone abbandonate in difficoltĆ , cioĆØ povere, che vivono in realtĆ povere, sfruttate. Per quanto riguarda gli aspetti psicologici della questione invece, non per forza connessi agli effetti materiali della crisi, a soffrire di angoscia e depressione ĆØ una fetta di popolazione che sembra prescindere dal genere, dalla classe sociale, dallāetĆ .
Almeno, questa sembra la tesi di un reportage pubblicato qualche settimana fa dal New York Times, āClimate Change Enters the Therapy Roomā. I protagonisti del pezzo rappresentano diverse generazioni: cāĆØ la madre di famiglia, il nonno, la diciottenne. A unirli, aggiungiamo noi, ĆØ un certo livello di istruzione che forse li aiuta a deprimersi. La consapevolezza dellāemergenza climatica, e il suo ruminare, possono portare a una patologizzazione della sofferenza psichica. Quali possono essere i primi segnali? Attacchi di panico e oppressioni toraciche, lāimpossibilitĆ di proiettare il pensiero nel futuro, moti di rabbia e alienazione verso chi sembra āvivere come niente fosseā. Se provi alcune di queste sensazioni, non sei sola: sempre meno, anzi, al punto che si stanno sviluppando dei nuovi campi di ricerca negli studi psicologici.
Anche se ci sono pochi dati empirici sui trattamenti efficaci, il campo si sta espandendo rapidamente. La Climate Psychology Alliance fornisce un elenco online di terapeuti consapevoli del clima; la Good Grief Network, una rete di supporto tra pari modellata sui programmi di dipendenza in 12 passi, ha generato più di 50 gruppi; cominciano a comparire programmi di certificazione professionale in psicologia del clima.
E niente porta a escludere che realtĆ del genere possano comparire nel nostro Paese. Per quanto agli albori, si tratta però giĆ di una novitĆ problematica: tra gli esperti ci sono dei dubbi rispetto a questo presunto ingresso delle opinioni nel rapporto di cura; cāĆØ chi non si mostra convinto rispetto a una presunta diversitĆ clinica tra lāansia climatica e unāansia sociale più generalizzata (terrorrismo o quant'altro). Alcuni attivisti invece, aggiunge Ellen Barry, temono che lāansia climatica possa essere scambiata per un pensiero disfunzionale, qualcosa da tacere, e che invece andrebbe urlato.
āMa la signora Black non era interessata ad argomenti teorici; aveva bisogno di aiuto subitoā. E lo trova, racconta lāautrice, nella terapia offerta dal Dr Doherty. Doherty, oltre allāascolto, offre ai suoi pazienti delle riflessioni che non escono dal Problema, nel tentativo di alleviarne la condizione.
Il dottor Doherty ascoltò [la signora Black] in silenzio. Poi le disse, scegliendo attentamente le parole, che il tasso di cambiamento climatico suggerito dai dati non era così drastico come quello che lei stava immaginando. "Nel futuro, anche con gli scenari peggiori, ci saranno giorni buoni", le disse, affidandosi ai suoi appunti. "Le catastrofi accadranno. Ma, in tutto il mondo, ci saranno giorni buoni. Anche i vostri figli avranno giorni buoni". A questo punto, la signora Black ha cominciato a piangere.
Nellāarticolo viene citato al volo un libro di Viktor E. Frankl, Lāuomo in cerca di senso, quel Frankl che potrebbe risuonare in tempi pandemici, dove tutti i bisogni materiali della maggioranza, quelli alla base della piramide di Maslow, sono più o meno soddisfatti, ma ĆØ sempre più incipiente il vuoto in cima, dove per Maslow starebbe il benessere psicologico. Sopravvissuto a quattro campi di sterminio, Frankl scrisse a Maslow che anche in mancanza di pane il bisogno più urgente può diventare la volontĆ di significato. Un bisogno indipendente dagli altri, interclasse, intergenerazionale, oggi si direbbe intersezionale. La consapevolezza, citando quella battuta, ĆØ la causa e la soluzione dei nostri problemi.
#3 WASTEOCENE
Soltanto scrivere āAntropoceneā, quando abbiamo aperto la newsletter, rientrava in una piccola forma dāazzardo; era un concetto noto nei climate studies, nel mondo dellāarte, ma lontano da essere uno strumento alla portata di tutti. In questi anni forse non ĆØ diventato pienamente mainstream, ma ha avuto comunque molto successo e potremmo dire che ĆØ uno dei termini che ha contribuito alla nascita di una nuova consapevolezza ecologica. Nel frattempo, come abbiamo raccontato giĆ diverse volte, ĆØ stato però anche a lungo discusso, attaccato, ripensato. CāĆØ chi ha proposto di sostituirlo con Capitalocene, Plantationecene, Chthulucene, Anthrobscene, Misanthropocene⦠Negli anni i nuovi -cene si sono moltiplicati in una lotta di narrazioni forse troppo settoriale che, insieme all'abuso del termine Antropocene, rischia di far perdere interesse allāintera faccenda. Anche per questo, però, vale la pena prestare particolare attenzione ai rari casi in cui la nascita di un nuovo -cene nasconde uno sforzo genuino di illuminare qualche aspetto poco raccontato del presente. E ci sembra che questo sia il caso di āWasteoceneā, lāera degli scarti, termine proposto dallo storico dellāambiente Marco Armiero. Anche se magari non ĆØ un vocabolo che avrĆ la forza di affermarsi nel dibattito, porta con sĆ© un racconto del mondo che merita di essere ascoltato. Citiamo da una intervista che gli ha fatto Stefano Dalla Casa:
Più che degli scarti intesi come rifiuti in senso letterale (che sono un problema enorme) secondo Armiero il Wasteocene ĆØ lāera delle relazioni di scarto (wasting relationship), cioĆØ i processi che scartano sistematicamente anche gli esseri viventi, umani e non umani, i luoghi, i saperi e persino i ricordi.
Il libro-manifesto di Armiero, Lāera degli scarti, ĆØ uscito qualche mese fa per Einaudi. Il resto dellāintervista che gli ha fatto Dalla Casa ĆØ sul Tascabile.
#4 COLLETTANEE
Sono passati ormai 10 anni: nel giugno del 2012 a Kassel inaugurava la tredicesima edizione di documenta ā una delle più note e prestigiose manifestazioni internazionali d'arte contemporanea in Europa ā con la direzione artistica di Carolyn Christov-Bakargiev. Le opere ospitate ruotavano attorno a questioni ambientali e di crisi ecologica: ruotavano attorno allāAntropocene e lāimpatto dellāessere umano sul pianeta. Fu quello uno dei contesti in cui ci si ritrovò anche a ricalibrare il dibattito ecologista che seguƬ negli anni. dOCUMENTA(13) - ten years later ĆØ il nuovo archivio digitale che in questi mesi ricorderĆ quella manifestazione; ĆØ ospitato sul sito del Castello di Rivoli, diretto oggi da Carolyn Christov-Bakargiev.
Sono passati invece meno di 10 giorni dallāuscita di una raccolta di cui torneremo presto a parlare: I racconti dellāapocalisse. Ć stata pubblicata dal Saggiatore e lāha curata Andrea Esposito. Contiene racconti, testi e frammenti di romanzi, nomi obbligati e altri inattesi, selezionati, connessi tra loro e introdotti da Esposito: H. G. Wells, Leopoldo Lugones, Secondo Lorenzini, Snorri Sturluson, Massimo Bontempelli, Frank L. Pollock, Aleksandr PuÅ”kin, Robert Barrr, Amando Nervo, H.P. Lovecraft, Giacomo Leopardi, Nathaniel Hawthorne, Gustav Meyrink, Jack London, George C. Wallis, Begum Rokeya Sakhawat Hossain, Ildegarda di Bingen, Mary Shelley, Jules Verne, M.P. Shiel, George Gordon Byron, Edgar Allan Poe, Sara Teasdale, Robert Walser.
01/03/1954: gli Stati Uniti testano āCastle Bravoā, ovvero quella che ĆØ passata alla storia come la quinta bomba nucleare più potente di sempre. Il laboratorio designato per questo esperimento ĆØ lāatollo Bikini, nelle isole Marshall, nel Pacifico.
Lāaltezza del fungo atomico arrivò a 40 chilometri. Circa 100 volte lāaltezza dellāEmpire State Building. Il diametro toccò i 100 chilometri.
A causa delle radiazioni, sulle isole iniziarono a registrarsi un numero eccezionale di patologie tumorali. 1/3 della popolazione si trasferì in Arkansas, dove trovò impiego negli allevamenti.
Oggi il 3% della popolazione dellāArkansas nordoccidentale ĆØ composta da persone provenienti dalle Marshall. Da quando ĆØ iniziata la pandemia, gli operai avicoli provenienti dalle Marshall morti per COVID-19 sono pari al 50% delle vittime di tutto lo Stato.
Al momento dellāinvio di questa newsletter, nellāaria danzano 421,29 ppm
(parti per milione) di CO2.