MITO
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di cacciatori e zagaglie, di Carl Gustav Jung e Nastassja Martin, Paesi Baschi e immaginari, ricercatrici e faraoni.
Benvenuti, questo è il numero centoquarantasei di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di cacciatori e zagaglie, di Carl Gustav Jung e Nastassja Martin, Paesi Baschi e immaginari, ricercatrici e faraoni.
Nelle settimane che ci separano dai due mercoledì mensili, in mezzo ai lavori vari, alle presentazioni, agli articoli, succede che tra noi ci si confidi l’esistenza di pezzi “che si scrivono da soli”. Lo facciamo sottovoce, nella penombra. Si tratta di una chimera del mondo editoriale, secondo le più attente ricercatrici questi articoli autoscriventi, semplicemente, non esistono.
Eccone invece un raro esemplare:
Nel Paleolitico superiore la caccia all’orso è attestata solo eccezionalmente, ma finora la scienza ha prestato poca attenzione alla questione, e non è sempre facile distinguere tra caccia e necrofagia. L’eccezione che conferma la regola è il notevole esempio di caccia all’orso proveniente dalla grotta di Le Bichon, in Svizzera, dove gli speleologi hanno trovato, adagiati l’uno accanto all’altro, lo scheletro di un giovane adulto d’uomo e quello di una femmina di orso bruno, entrambi datati al 17 000 BP [15.050 avanti Cristo]. Gli studiosi hanno potuto ricostruire il probabile corso degli eventi grazie a una punta di selce conficcata in una delle vertebre dell’animale e ai numerosi carboni rinvenuti all’ingresso: dopo aver ferito l’orsa, l’uomo l’ha inseguita fino alla soglia della sua tana. Non essendo riuscito a stanarla affumicando la cavità con tizzoni ardenti, si è infine avventurato all’interno, dove la bestia ferita lo attendeva per un ultimo abbraccio mortale.
Il tempo sacro delle caverne – Gwenn Rigal
Senza Sonja Bers non ci sarebbero stati Guerra e Pace e Anna Karenina, battuti a macchina in bella copia tutti interi più di una volta, come ogni cosa che lui scriveva in un corsivo minuto impossibile, ricopiati fino a notte fonda: e quando era ora di riposare, incinta di uno dei tredici figli, Sonja Bers racconta che si distendeva su una pelle d’orso nero, ai piedi del marito artista, predicatore vizioso, sensuale e beghino, ossessivo nel dettaglio e massimalista nel disegno; un complessato provvisto di assurda intelligenza compositiva, emotiva, tecnica; insomma pensavo a queste cose, alle folte sopracciglia di Anna, al suo collo, a come nessuno potesse intravedere quei capolavori nella faccia di Tolstoj giovane, che oscillava tra la caserma e le passeggiate al bordello: e poi la caccia, tanta tanta caccia, continuata fino all’età adulta, fino a quando era Tolstoj scrittore-dio, prima che dio gli guastasse la scrittura, quegli anni di grazia che sono al centro di un libro che mi piace molto leggere, i diari di Tatiana Tolstoj, la secondogenita, una di quelle persone che a prima vista si pensano estinte, e invece ne è ancora pieno il mondo, solo che quelle persone forse non scrivono più, o comunque non così bene, perché i messaggi vocali sono più comodi e nessuno legge i libri difficili, eccetera eccetera; quelle persone gentili, tutte sensibili ecco, […] e tra questi ricordi nitidi, nei suoi diari c’è lei che si ammala da bambina, si alza all’alba “con l’emicrania” e cammina sonnambula fino alla camera dei genitori, dove si sdraia pure lei sull’enorme pelle d’orso, e bambina poggia la testa su quella dell’animale: sembrava vivo, aveva gli occhi neri, i denti bianchi, “ma soprattutto sapevamo che quell’orso aveva addentato papà, lasciandogli sulla fronte una cicatrice a forma d’arco”, aneddoto che il padre raccontava a tutti i bambini stregati dalla ferita, di quando a Smolensk aveva sparato a un orso e quello infuriato si era gettato su di lui buttandolo a terra, “papà diceva di avere sentito sulla faccia l’alito ardente della bestia”, e di essere salvato da un mužik, uno di quei contadini reazionari che sarebbero diventati i nemici naturali dei bolscevichi, fucilati all’infinito: “sdraiata sulla pelle ruvida toccavo con le dita i denti dell’orso pensando al pericolo corso da papà”, quindi Tolstoj sopravvissuto a un orso, come gli spacciatori di Cocaine Bear, o quell’antropologa francese qualche anno fa, Nastassja Martin, diventata una medka per gli sciamani, metà donna metà orso, “a regnare è l’indistinto, e io sono questa forma incerta dai lineamenti scomparsi sotto gli squarci aperti del viso, ricoperta di umori e di sangue: è una nascita, visto che con tutta evidenza non è una morte”; penso ai russi emigrati, penso a Ceausescu, che in venticinque anni ha ucciso quattrocento orsi girando per le riserve rumene, così per divertimento, con i funzionari che gli acchittavano il gioco, alla maniera del faraone Amenofi II, l’assassino di centodue leoni; forse è un dittatore comunista, nato contadino e poi calzolaio, l’uomo che ha ucciso più orsi nella storia dell’umanità.
Tatiana (da MEDUSA) – Nicolò Porcelluzzi
È possibile istituire un collegamento tra alcuni miti baschi e l’arte delle caverne? L’ipotesi è stata avanzata per il cosiddetto tabu «dell’orecchio dell’orso», che proibisce ai pastori di pronunciare ad alta voce il nome del plantigrado, il cui udito è ritenuto assai fine. I Baschi lo chiamano semplicemente «lui», «il tizio» o «l’altro». Anzi, il termine usato per designare l’orso in basco è scomparso. È stato sostituito dalla parola hartz, di origine celtica. Possibili echi di questa storia risuonano nell’arte paleolitica dei Pirenei; ad esempio, dei sette orsi raffigurati nel santuario di Trois-Frères, nell’Ariège, due sono « travestiti », cioè dotati di caratteri anatomici estranei alla specie, e altri due sono trafitti da frecce. Sul versante dell’arte mobiliare, viene subito alla mente il motivo dell’uomo di fronte all’orso. A Mas-d’Azil è una rondella di osso, forse usata come taumatropio, a rappresentare un uomo armato di bastone che affronta un’enorme zampa d’orso; sull’altra faccia, un uomo sembra essere colpito dalla stessa zampa. Si incontra un motivo simile in Dordogna, su un’incisione mobiliare della grotta di Péchialet, nella quale un uomo cade sotto il colpo di una zampa d’orso, ma anche su una rondella del riparo di La Madeleine.
Ricordiamo inoltre che a Montespan, nell’Alta Garonna, si trova la modellatura senza testa di un orso crivellato da quelli che potrebbero essere dei colpi di zagaglia, e che negli stessi Paesi Baschi spagnoli, nella grotta di Ekain, si può ammirare un orso acefalo disegnato in nero. Di fatto, tutte le rappresentazioni dell’arte delle caverne relative all’orso per le quali si è avanzata l’ipotesi di una magia di distruzione potrebbero essere espressione del rifiuto di pronunciarne il nome. Quanto alle orecchie dell’orso, si tratta del particolare anatomico più spesso rappresentato nell’arte del Paleolitico superiore, e il 60% di esse è situato sulla linea della nuca, di profilo, secondo una convenzione grafica lontana dalla realtà. Per Elena Man-Estier, questo peculiare trattamento mira probabilmente a mettere in evidenza le orecchie dell’orso. È perché sono uno dei tratti caratteristici che consentono di identificare l’animale, oppure c’è un motivo più simbolico, legato alle credenze degli uomini preistorici relative al suo udito?
Il tempo sacro delle caverne – Gwenn Rigal
Ancora più comune è il fenomeno contrario, quello cioè dell'acquisizione di un significato negativo da parte di una parola connotata positivamente: è il meccanismo per il quale con “buona donna” si indica una prostituta, cioè una donna socialmente percepita come “non buona”, oppure con benedetto s'intende “maledetto” in una frase come “Quando passerà questa benedetta influenza?”. Il motivo dello slittamento semantico di buona donna e benedetto è evidentemente di tipo eufemistico: il parlante evita le parole prostituta (o meretrice, puttana ecc.) e maledetto per la connotazione rispettivamente disdicevole e blasfema dei referenti, provvedendo a sostituirle con i loro antónimi, cioè con le parole di senso opposto, spesso non senza una componente ironica più o meno marcata.
Nella tipologia degli eufemismi, benché senza alcuna componente ironica, può essere fatto rientrare anche il caso di donnola, che evidentemente non continua il latino classico mustela, bensì deriva da un originario diminutivo dominula (signorina). Il motivo di una denominazione simile, che ha riscontri anche nei dialetti (cfr. il trevigiano beladona) e nelle altre lingue romanze (in spagnolo la donnola è la comadreja, cioè letteralmente la “piccola comare”), è il fatto che la donnola era considerata un animale cattivo, in quanto «apportatore di malattie per gli esseri umani e per gli animali che vivono con l'uomo». Proprio perché era temuto, si preferiva chiamarlo non con il suo nome (mustela) ma con un vezzeggiativo con funzione apotropaica, credendo cioè di poterselo ingraziare e di riuscire così a tenerlo lontano da sé e dal proprio bestiame.
L’etimologia – Daniele Baglioni.
Un terzo metodo volto a svelare i miti preistorici, praticato già da Georges Dumézil e Claude Lévi-Strauss, consiste nell’individuare, dappertutto nel mondo, le varianti di una stessa storia. È il caso del tabu che vieta di pronunciare il nome dell’orso, che si estende in realtà ben oltre i confini dei Paesi Baschi. L’esistenza di un tale tabu è di solito postulata, ad esempio, per giustificare la scomparsa in slavo, baltico e germanico della radice indoeuropea *rksos per «orso». In effetti, ritroviamo questo tabu ovunque in Eurasia e in America del Nord. Ora, la presenza di un simile divieto su entrambi i lati dello stretto di Bering si spiega solo se si fa risalire al Paleolitico superiore l’archetipo del mito che si presume veicolare questo tabu, perché quello è l’ultimo periodo nel quale si poteva ancora attraversare lo stretto camminando sulla terraferma. Così, siamo ormai in grado di risalire all’origine di alcuni miti dell’èra glaciale. In questo campo, Abler e Oda hanno svolto un lavoro pionieristico, classificando i miti per gradi di parentela mediante strumenti solitamente applicati alla classificazione degli esseri viventi.
Più di recente, Julien d’Huy si è reso conto che i miti godono di una grande stabilità nel tempo e che evolvono, come i genomi, per « equilibri punteggiati»; ciò significa che per lunghissimi periodi non si evolvono affatto, per poi subire un cambiamento repentino in occasione o di tensioni ambientali, o di episodi migratori. Queste somiglianze tra l’evoluzione dei miti e quella delle specie lo hanno indotto a cercare di ricostruire informaticamente gli «alberi filogenetici » di alcune famiglie di miti. Questi alberi funzionano secondo il seguente principio: più due versioni dello stesso mito sono diverse, maggiore è il numero di trasformazioni che le hanno interessate, e più tali versioni devono essere distanziate tra loro nel tempo. In questo modo è possibile identificare e classificare cronologicamente diverse varianti regionali intorno a uno stesso archetipo di base; ciò consente talora ai mitologi di determinare il luogo di nascita di un mito e le sue vie di propagazione.
Il tempo sacro delle caverne – Gwenn Rigal
Sei un mito, sei un mito per me
Sono anni che ti vedo così irraggiungibile
Sei un mito, sei un mito perché
Tu per tutti noi sei la più bella ma impossibile
Quasi esplodo quando mi dici: "Dai
Vieni su da me che tanto non ci sono i miei"
Io mi fermo a prendere una bottiglia perché
Voglio festeggiare questa figata con te
Anche se forse non mi sembra neanche vero
È incredibile abbracciati noi due
Un ragazzo e una ragazza senza paranoie
Senza dirci "io ti amo", "io ti sposerei"
Solo con la voglia di stare bene tra noi
Anche se soltanto per una sera appena
Sei un mito, sei un mito per me
Perché vivi e non racconti in giro favole
Sei un mito, sei un mito perché
Non prometti e non pretendi si prometta a te
Sei un mito, sei un mito per me
Perché vivi e non racconti in giro favole.
“Sei un mito” – Max Pezzali, Mauro Repetto
Negli anni in cui si prepara a scrivere Simboli della trasformazione [Jung] è ossessionato dallo studio della mitologia. Le letture e la pratica di medico lo hanno sempre più convinto che la mitologia e la schizofrenia sono due manifestazioni simmetriche. Si potrebbe dire che da un pensiero in continua ebollizione, e per molti aspetti oscuro per lo stesso Jung, emerge un’idea: ciò che per l’umanità è l’immenso sedimento sotterraneo della mitologia, nel singolo individuo si manifesta come patologia. È un’immagine terribilmente drammatica dell’esistenza quella che ne viene fuori. Questo inconscio collettivo, infatti, non sembra affatto, per come ne parla Jung, un’eredità capace di orientare il singolo, una bussola affidabile e sicura. C’è molta saggezza nei miti, questo lo si può concedere in astratto, ma quello che ci portiamo dietro fin dalla nascita è un mondo di pulsioni oscure e generalmente ingovernabili. La povera coscienza nuota sulla superficie di questo abisso, ma se ne viene risucchiata la sua partita è persa.
La casa del mago – Emanuele Trevi.
#1 TI OFFRO DUE MELE PER UN IPHONE
C’è un tweet diventato “virale” negli ultimi giorni:
A Bali (non è specificato dove) una scimmia (sembra un macaco cinomolgo) ruba lo smartphone a una turista (o è una balinese?). Il video mostra la contrattazione che segue al furto: il cellulare viene restituito all’essere umano in cambio di due frutti (mele?).
Questi comportamenti sorprendenti riscontrati in alcuni primati sono stati registrati per la prima volta qualche anno fa. Ripeschiamo un articolo di Repubblica del 2017 che parlava proprio di un caso simile.
A BALI, nei pressi del Tempio di Uluwatu, da una trentina d'anni i macachi che abitano nella lussureggiante vegetazione attorno all'edificio sacro hanno un comportamento molto particolare, che per la prima volta è stato descritto in uno studio scientifico. Una volta sottratto con destrezza e agilità un bene ai turisti - come un paio d'occhiali da sole, un foulard o un cappello - invece di scappare via come tutte le altre scimmie, i macachi di Uluwatu rimangono sul luogo del delitto, di preferenza appolaiandosi dove sono meno facili da raggiungere, e iniziano a “contrattare”.
[…]
È la prima volta che un comportamento così sofisticato da assomigliare a un vero e proprio baratto viene descritto in una popolazione di scimmie che non vivono in cattività" [spiega Fany Brotcorne, primatologa dell'Università di Liegi]. “In cattività, le scimmie imparano ad associare a certi oggetti non commestibili - che chiamiamo ‘token’ - un certo valore, e a scambiarli con del cibo. Ma in quel caso è cruciale l'addestramento impartito dai ricercatori. A Uluwatu, invece, per quello che abbiamo potuto ricostruire tramite osservazioni sul campo e interviste alla popolazione locale, i macachi mettono in atto questi piccoli “ricatti” da decenni, e senza che ci sia stato un addestramento in tal senso”.
C’è chi in questi anni si è spinto già oltre. Come raccontava un altro articolo di qualche anno fa - questa volta di Giacomo Destro per Il Tascabile - ci sono ricercatori, come la psicologa Laurie Santos, che studiano come i tratti di molte scelte economiche istintive e irrazionali tipiche degli esseri umani siano rintracciabili anche in altri animali, soprattutto le scimmie (ma non solo). La verità è che di tutto questo non se sappiamo ancora molto. Ma vale la pena leggere alcuni dei resoconti di questi esperimenti, anche solo a livello aneddotico:
Riprendendo alcuni esperimenti economici classici sull’irrazionalità e applicandoli alle scimmie, Laurie Santos chiedeva alle cavie di scegliere tra un’opzione rischiosa (dominata dal caso) e un’opzione certa ma con un guadagno minore. Alle scimmie cappuccine veniva fornita una valuta finanziaria, un gettone senza valore in sé ma che poteva essere scambiato con degli acini di uva. Le cappuccine entravano in un ambiente controllato dove trovavano due ricercatori umani, ben differenziati e riconoscibili, differenziati da un abbigliamento con colori molto diversi. Il primo ricercatore offriva sempre un acino d’uva in cambio del gettone, il secondo offriva – a caso – talvolta due acini d’uva, talvolta niente.
Ripetendo l’esperimento per decine e decine di volte per renderlo statisticamente robusto, Santos fece una prima scoperta: le scelte delle cappuccine e degli uomini erano identiche. Scimmie e umani, in quel tipo di esperimento, avevano una spiccata avversione al rischio: tendevano a scegliere il ricercatore che dava un premio minore ma sicuro. I dati erano talmente aderenti che, sottoposti all’esame di alcuni economisti, nessuno riusciva a capire quali fossero quelli derivanti da esperimenti su umani e quali su scimmie.
#2 RACCONTARE IL MONDO IN MEZZO
In una recente MEDUSA ci dilungavamo sui tanti modi in cui la fantasia ogni giorno sborda nella realtà, incontrollabile. Nel frattempo sulla stessa lunghezza d’onda abbiamo letto un gran libro, Corso di recitazione, scritto e disegnato da Nick Drnaso (anche Sabrina era un gran libro, sempre Coconino). Una storia che procede su due piani paralleli, destinati però a convergere, di nascosto: da un lato c’è la vita quotidiana di queste persone senza arte né parte, coppie in crisi, madri single, o narcisisti inconsapevoli; dall’altro c’è il mondo in cui si proiettano nella recitazione, grazie al corso organizzato da un maestro misterioso, un po’ genio un po’ scemo. Poco a poco, quindi all’improvviso, il mondo recitato si innesta in quello vissuto.
Il tratto di Drnaso ha qualcosa dello stile piatto dei Chris Ware, o Adrian Tomine, ma non è sicuramente il suo punto di forza: leggendolo, ci si chiede se l’interscambialità delle facce di un paio di personaggi sia un sapiente dispositivo metanarrativo, o il frutto di una tecnica che non è di certo onnipotente.
L’ambizione di Drnaso però viene ripagata dalla costruzione delle sue scatole cinesi, dalla trasparenza dei piani temporali e delle loro intersezioni, un’abilità che porta il fumetto nel campo del migliore cinema. Parlando la lingua delle persone, spaventando con nuovi archetipi, doppelgänger e strade perdute, Corso di recitazione si carica il peso dei nuovi tormenti, la crisi della nuova umanità, sospesa a metà tra reale e immaginario. Insomma, ci è piaciuto.
Una nuova ricerca pubblicata su Science dettaglia la scoperta di 24 strutture artificiali in terra, nell’area amazzonica, costruite tra i 500 e i 1.500 anni fa.
Questi nuovi siti si aggiungono ai quasi 1.000 esempi simili già noti. Sono cumuli, fossati, motte che costituivano la nervatura di villaggi fortificati, insediamenti civili e perimetri religiosi.
Secondo le stime dei ricercatori, questo tipo di strutture in terra, di epoca pre-colombiana, sarebbero in tutto tra le 10.000 e le 25.000.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 418,62 ppm (parti per milione) di CO2.