LUCUMONI
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di etruschi e Tik Tok, di "Nove" e di Nove, della Pontina Bis e Landolfi, di atmosfere e di crisi, di coatti e borghesi.
Benvenuti, questo è il numero centotrentaquattro di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
Quello che scriviamo su MEDUSA è gratuito per tutti. Se ti piace quello che facciamo, però, si possono donare 5€ al mese. Oppure 30€ l’anno (e quindi 2,5€ al mese). Oppure si può fare un’offerta libera annuale. Chi si abbona scegliendo una di queste opzioni, riceverà ogni tanto anche dei numeri extra, racconti, post o qualche esperimento pazzo. Se siete già iscritti, potete aggiornare il vostro abbonamento qui:
Per tutto il resto, la nostra homepage è medusanewsletter.substack.com
MEDUSA newsletter è solitamente divisa in tre parti: un articolo o racconto inedito e due rubriche: i link e i frammenti dei CUBETTI, e i numeri della CABALA. Per il resto, se volete scriverci potete rispondere direttamente a questa email o segnarvi il nostro indirizzo: medusa.reply@gmail.com. Siamo anche su Instagram.
Nella MEDUSA di oggi ospitiamo una chiacchierata con Alessio Mosca a partire dal suo libro d’esordio, Chiromantica medica (nottetempo, 2022). È la pima di una serie di conversazioni che porteremo avanti nei possimi mesi con scrittrici e scrittori che ci interessano.
In questo numero leggerete di etruschi e Tik Tok, di Nove e di Nove, della Pontina Bis e Landolfi, di atmosfere e di crisi, di coatti e borghesi.
Matteo De Giuli: Il tuo libro mi è piaciuto moltissimo, si porta dietro lo spirito puro di certi ambienti letterari un po' carbonari e un'idea forte di scrittura. È una raccolta coerente, in cui tutti i racconti respirano la stessa aria. Ma si può comunque dividerlo in due, secondo me: ci sono i racconti puramente “esoterici”, quelli impregnati di un’atmosfera magica, ancestrale e perturbante. Come “Gli esantemi e i lucumoni”, dove una paziente psichiatrica fugge dall’ospedale di Volterra e cerca di interpretare – sulle croste, le ecchimosi e le macchie del suo corpo malato – una mappa che la guidi tra necropoli, acropoli e ipogei e che la possa ricondurre al marito, che è morto ma che con lei comunica dalle viscere della Terra. Oppure “Agro Pontino”, dove racconti di una campagna violenta e marcia schiacciata tra forze primitive e scarti della modernità, “una terra lurida e puzzolente concimata con tappi di latta e vetri di bottiglia, gonfia di sputi e profilattici dei contadini, dove rimasugli di fili elettrici la smuovono come vermi”.
E poi ci sono i racconti che definirei forse più "sociali", o più pop, comunque quelli in cui emergono i protagonisti, le loro relazioni e i loro mondi. Che sono tre: “Io odio l’Ikea” (un ragazzo romano benestante e inetto scopre che nei libri da esposizione dell’Ikea di Porta di Roma si nasconde la traccia del piano di alcuni terroristi fascisti che vogliono instaurare in Europa una sorta di matriarcato islamista), “Cristo si è fermato a Spinaceto” (la storia di un giovane coatto che tra serate, violenze e abusi, durante una rissa a coltellate per una donna capisce di essere il Messia) e “La verità vi prego su Tik Tok” (su un rapporto impossibile padre-figlia, lei adolescente che passa le notti in segreto a girare video soft-porn e aumentare il numero di maniaci che la seguono sui social, lui quarantenne, inquieto, ricco, destrorso, cocainomane, che ritrova una scintilla di vita destabilizzante nell’incontro fortuito con “un trans brutto, piccolo, come dire, fatto male”). Adesso che ci penso questi tre sono pure gli unici tre in prima persona, no?
Alessio Mosca: “Io odio l’Ikea”, “La verità vi prego su Tik Tok” in prima persona, “Cristo si è fermato a Spinaceto” in seconda. In quest’ultimo sì, c’è stato una sorta di mio scatto, inizialmente non mi sentivo pronto a parlare dell’attualità e della vita borghese. In qualche modo, la provincia, la terza persona, il fantastico e anche lo stile degli altri racconti – perché sono racconti in cui c’è una prevalenza stilistica rispetto al contenuto–, erano un modo di evadere dalla contemporaneità che trovavo estremamente difficile da raccontare, perché siamo in un periodo storico iper-moderno, pieno di contraddizioni in estrema evoluzione. Poi, ecco, quando mi sono sentito pronto è uscita fuori la prima persona, ed è uscito fuori il desiderio di descrivere queste contraddizioni. È stato proprio uno scatto.
Matteo De Giuli: Per questa chiacchierata ti ho chiesto di mandarmi, qualche giorno prima di incontrarci, cinque titoli che hanno influenzato il tuo. Mi hai scritto:
1) Terminus Radioso, Antoine Volodine
2) Superwoobinda, Aldo Nove
3) Meridiano di sangue, Cormac McCarthy
4) Nove, Alberto Chimal
5) A caso, Tommaso Landolfi
Landolfi è il primo che è venuto in mente anche a me leggendoti, per via di quel suo perturbante italico, una sorta di unheimlich familiare che avete in comune. È una cosa a cui siamo ancora poco abituati: al di fuori di Landolfi e di pochi altri scrittori, associamo istintivamente un certo tipo di immaginazione weird e eerie a romanzi e film stranieri, soprattutto statunitensi. Il nostro immaginario è colonizzato. E così da lettore quando poi scopri che invece anche da noi qualcuno ha fatto e fa cose del genere è un'epifania. I racconti "horror" di Landolfi, ambientati in centro Italia, forse proprio per questo sono ancora più paurosi, perché più vicini a noi e più ancestrali e più perturbanti (è una sorta di ur-unheimlich, se vogliamo coniare un nuovo termine): gli animali diventano più bestiali e spaventosi, le case infestate ancora più agghiaccianti. Quando da lettore incontri per la prima volta Landolfi ti sembra un segreto nascosto in piena vista, e ti dici che è assurdo non averlo scoperto prima.
Alessio Mosca: Sì, anche per me Landolfi è stato una scoperta. Il fantastico italiano è sempre stato un po’ snobbato, messo ai margini. C’è sempre stata da noi questa idea che la letteratura impegnata avesse maggiore dignità relegando al fantastico un ruolo marginale. Ma appunto esiste una tradizione sotterranea di “bizzarro” italiano, da Landolfi a Morselli, passando per Buzzati e ai racconti fantascientifici di Primo Levi. Quelli di Primo Levi sono stati una scoperta sorprendente, aveva delle idee assolutamente innovative, moderne, qualcosa di davvero inaspettato. Ed ecco, il discorso che facevi tu con la letteratura americana, è un tema cui tengo molto. Mi sa che tra quei libri che ti ho citato manca una grossa fetta di mie letture, quella del sud degli Stati Uniti, quindi: Cormac McCarthy, William Faulkner…
Matteo De Giuli: McCarthy lo avevi messo, in effetti, Faulkner no. Ma pure io ho pensato a Faulkner, per la provincia…
Alessio Mosca: È per quello! Insomma, noi siamo immersi nella cultura americana, e gli Americani riescono a fare dell’epica incredibile a partire dalla loro provincia che sappiamo essere meno ricca rispetto alla nostra, che invece è densa di mitologie, immaginario e tradizioni. Quindi: perché se lo fanno gli americani, noi no? Nella letteratura italiana la provincia è sempre qualcosa di cui vergognarsi, da cui fuggire, esiste quasi un filone che ha come tema la fuga dal paese e l’arrivo in città, e la provincia viene sempre ricordata con disprezzo, arretratezza: si diventa subito cittadini disprezzando da dove si è venuti. Il mio è alla fine un ritorno alla provincia, rivalutando l’immaginario folcloristico e mitologico che in essa è presente.
Matteo De Giuli: Tra l’altro c'è stato a lungo questo bispensiero del mercato editoriale italiano che dagli scrittori italiani voleva quasi solo il romanzo del tinello borghese e invece da quelli stranieri, e statunitensi in particolare, voleva i racconti di provincia. Non saprei dire quando è iniziata questa moda, ma poi è durata almeno fino ai primi Duemila: appena veniva tradotta una roba un po' on the road, o con un pastore protestante in crisi o dove qualcuno aveva con un cappello da mandriano, o dove c'era un diner polveroso e scalcagnato, era un successo. È una cosa puramente percettiva la mia, non mi chiedere dei dati. Però mi sembra che appunto noi italiani, editori e lettori, abbiamo a lungo cercato ardentemente quella provincia lì e non la nostra, forse perché quella era distante abbastanza da poterla romanticizzare.
Alessio Mosca: Sì appunto, il mandriano americano va bene, invece leggendo i romanzi italiani sembra che nel paese vivano solo scrittori o giornalisti oppure sfilze di commissari, avvocati, medici, giudici…
Matteo De Giuli: Esatto, come le case dei film italiani che sono sempre luminose e stupende, con la cucina a vista e le mensole piene di libri, è sempre la casa borghese del centro di Roma.
Alessio Mosca: Io ho una teoria: secondo me i produttori utilizzano le case dei set per farci poi delle feste il weekend. Perché qual è il senso in base a cui un tassista dovrebbe avere l’attico al Colosseo?
Matteo De Giuli: Beh se fosse così, se fosse solo una truffa per fare festa avrebbero tutto il mio rispetto. Comunque, tornando a noi, nel tuo libro c'è invece questa scelta di campo di sfruttare l’epica, gli spettri, la violenza della provincia italiana, mostrandone le viscere mitiche, come faceva anche Landolfi. Hai fatto un lavoro di ricerca (storica, iconografica, eccetera) per costruire queste atmosfere, o è bastato lo spirito di appartenenza a quei territori?
Alessio Mosca: Guarda, di ricerca c’è poco. Io sono un figlio del centro Italia, nel senso che sono nato a Roma ma la famiglia di mio padre è di origine abruzzese, mentre quella di mia madre umbra, con alcuni parenti che sono migrati nell’Agro Pontino. Io però sono cresciuto in un contesto urbano borghese, a Roma, quindi immagina io da bambino che vado al paese dove c’era il nonno che ammazzava il maiale, lo vedevo come un che di esotico, un po’ come fa Malaparte ne La pelle, dove lui deforma Napoli però proprio in virtù del suo occhio borghese. Io andavo a visitare questi parenti che facevano una vita che era così diversa dalla mia ma che in qualche modo mi apparteneva, pur non avendolo vissuta, mi dicevano che io venivo da là...
Matteo De Giuli: Poi è anche vero che il centro Italia è pieno di storia che Roma, di solito, fagocita. Una storia anche un po' occulta, e il fatto che venga spesso dimenticata la rende ancora più esoterica. Hai presente la zona della Tuscia, attorno a Vitorchiano, dove ci sta anche il giardino Bomarzo, che è già un bell'esempio, lì attorno ci sono anche delle necropoli e una piramide etrusca, praticamente nascoste nel bosco, abbandonate; la piramide era un edificio sacrificale, un altare rupestre, ha ancora le canaline di scarico per far defluire il sangue degli animali uccisi sulla cima. È stata scoperta da un appassionato [Salvatore Fosci] che era così convinto della sua presenza che praticamente quindici anni fa si è messo a scavare finché non l'ha trovata.
Alessio Mosca: Sì, c’è tutto questo immaginario fantastico, mitico ma anche di estrema violenza. Ricordo che quando dovevo andare a trovare i miei parenti di Aprilia, ricordo la Pontina, la Pontina Bis, con tutte quelle prostitute, i loro fuochi nella notte... Una cosa che faccio morbosamente è guardare la cronaca locale, quella laziale, abruzzese, dove ci stanno dei crimini collegati a una malavita violenta e arcaica, una malavita quasi casereccia. Anche questo aspetto mi inquietava molto, dopotutto ho scritto le cose che mi divertivano, ma anche e soprattutto le cose che mi inquietavano.
Matteo De Giuli: Uno scrittore che chiaramente c’è nel tuo libro, ma che non hai citato nella lista, è Roberto Bolaño.
Alessio Mosca: Sicuramente Bolaño è presente tra le mie influenze, come tutta la letteratura fantastica sudamericana, Cortàzar, Borges, Laiseca, Alberto Chimal, sono stati una grossa ispirazione. Ma loro in particolare perché, come Bolaño, riescono a rendere la “scrittura delirante”. Io come psichiatra sto in mezzo ai paranoici, e in quanto tale assorbo tutti i loro deliri e forse mi hanno influenzato. Devo dire che se tu leggi delle pagine di Jaspers in cui riporta i deliri dei pazienti sembra di leggere Bolaño. Per me la grandezza di Bolaño è la sua capacità di ricostruire questa “scrittura delirante”, c’è sempre quell’allusività: lui non ti rivela quasi mai cos’è o dov’è il male, cosa c’è, ma tu lo percepisci dalle allusioni, da uno sguardo, da un’atmosfera, senti che c’è qualcosa di inquietante. È questo, è il perturbante freudiano, il familiare che diventa minaccioso, ciò che anch’io ho tentato di fare a mio modo… l’intenzione era che il lettore percepisse che c’era qualcosa, un male, senza poi rivelarlo. Perché per me non c’è niente di peggio di rivelare l’assassino, secondo me deve sempre rimanere in sospeso. Ecco che 2666 è l’apoteosi di questo discorso, soprattutto lì ne “La parte degli assassini”. Sai che c’è qualcosa, c’è il male ma non riesci a dargli un volto preciso. Non c’è un volto, e quindi, non venendo mai rivelato, il male può essere ovunque, può essere tutto e tutto diventa minaccioso. E questo non detto è ciò che mi terrorizza.
Matteo De Giuli: È quello se vuoi il modo in cui nasce la letteratura. La cosa di 2666, di Detective e di Bolaño in generale è che anche le storie "di mistero" girano appunto più che altro attorno alle ossessioni del narratore e dei personaggi. La risoluzione dei misteri è secondaria. E così il lettore non si trova, alla fine del libro, a dover solo verificare di aver trovato la soluzione di un enigma, come fosse una roba da settimana enigmistica.
Alessio Mosca: C’è una sovrapposizione in qualche modo tra il detective e il paranoico, anzi il detective deve essere il più paranoico di tutti… ed è quindi il lettore deve diventare un detective paranoico attraverso l’apofania, il collegamento di elementi eterogenei, lontani, li unisce cercando di costruire una storia, costruisce un delirio che dia in qualche modo una risposta che non troverà mai, deve vedere che c’è una possibile storia, uno schema dietro al quale alberga questo male, questo complotto, da cui però non può uscire.
Matteo De Giuli: Molti dei tuoi personaggi si ritrovano a fare i conti con il fatto che i loro desideri non potranno mai realizzarsi.
Alessio Mosca: Penso che la crisi è più interessante della realizzazione. La crisi dice sempre qualcosa in più del mondo: cosa descrive meglio il crollo del patriarcato della crisi del maschio bianco che vede il suo privilegio sfumare? Secondo me nel patologico c’è sempre una lettura della società, la crisi descrive meglio tutto ciò. Sono sicuramente più un tipo da tramonti che da albe.
Matteo De Giuli: Ma hai sempre avuto l'idea di fare una raccolta, o hai radunato un po' di cose edite e inedite che avevi scritto?
Alessio Mosca: Io non pensavo in alcun modo di pubblicare i racconti, se mai avessi dovuto esordire credevo che l'avrei fatto con un romanzo. Poi, quasi per gioco, mi è venuto in mente di mettere insieme i racconti e mandarli al Calvino. Ho avuto la menzione al Calvino e da là mi ha contattato Alessandro Gazoia e quindi, dopo aver inserito altri inediti, la raccolta è stata ultimata e pubblicata.
Matteo De Giuli: Quindi non ti senti uno scrittore di racconti? Cioè, in effetti oramai lo sei, però intendevo... Non ti definiresti "ideologicamente" uno scrittore di racconti?
Alessio Mosca: No, anzi, mi sono sempre pensato come scrittore di romanzi, sia perché leggo prevalentemente romanzi sia perché penso per romanzi. Molti dei racconti nascono dalle riviste, ed erano pensati per le riviste, in particolare da “Verde”, di cui faccio parte della redazione. Molti dei racconti nascono da lì, da un forte spirito carbonaro, dall’idea che la letteratura fosse una cosa ben precisa, una cosa che aveva a che fare con lo stile, con la lingua, qualcosa sempre di estremo. Poi, dopo, ho capito che si poteva fare qualcosa di buono anche con un linguaggio parlato medio, ad esempio “Io odio l’Ikea” e “La verità vi prego su Tik Tok” hanno una lingua e uno stile medio, un italiano più simile al giornalistico, rispetto ad altri che hanno uno stile più elaborati. Ma il fatto che fossero racconti era perché c’erano le riviste. Quello che per me conta è l’idea di letteratura che c’è dietro, che si parli di forma breve o lunga. Ecco, questa contrapposizione, a dirti la verità, tra romanzo e racconto la vedo un po’ retorica.
Matteo De Giuli: Torniamo alla lista. Nove di Chimal, che hai già citato. Lì c'è il fantastico ma c'è anche l'elemento pop-letterario. Uno dei racconti di Nove è una storia surreale in cui Leonardo Di Caprio dopo l’affondamento del Titanic si trova imprigionato nei corridoi di un labirintico Palazzo dei sogni, assieme a Batman e ai protagonisti del film del Mago di Oz. Poi hai messo Superwoobinda di Aldo Nove. Che è anche questo un capolavoro. Lì Nove fece una cosa incredibile, riuscì, erano gli anni Novanta, a riappropriarsi del linguaggio televisivo; Superwoobinda è un libro che è come fare zapping in TV, sono micro racconti, spesso violentissimi, ma che citano marche di innocui prodotti commerciali, merende e bagnischiuma, e che si interrompono a metà di una parola, appunto come fosse uno zapping. E lo scrisse indipendentemente dall’avant pop statunitense, la coda del postmoderno, in contemporanea o addirittura prima. Lo sottolineo perché la generazione di “scrittori cannibali” di cui Nove faceva parte venne chiamata subito “generazione pulp”, o "tarantiniana", come se fosse una moda importata come al solito dagli Stati Uniti. Ma se ricostruisci le cose ti accorgi che Nove, Santacroce, Scarpa, eccetera, non potevano essere tarantiniani, nel senso che scrivevano le prime loro cose quando Tarantino girava le sue prime cose. Solo erano cresciuti tutti quanti mescolando i classici, i fumetti, i B-movie, il linguaggio delle pubblicità. Ma la generazione cannibale non fu una copia carbone degli americani, fu una cosa tutta nostra. Detto questo, mi piace molto il modo in cui hai deciso anche tu di inserire alcune schegge pop nei tuoi racconti. In uno c’è Rocco Siffredi, che in una storia di mistero paranoide alla Bolaño è sospettato di essere la reincarnazione del dio Pan. E poi c’è Tik Tok, nell’ultimo racconto.
Alessio Mosca: Sicuramente la letteratura cannibale è stata una lettura importante, perché appunto ho citato Aldo Nove ma potevo citare Matteo Galiazzo, perché secondo me era, uso l’imperfetto perché non scrive più, era uno degli scrittori più interessanti che ci sono stati. Io da lui ho tratto questa volontà di provare a mettere nello stesso racconto più livelli di discorso, a sintetizzare nel testo vari saperi. Lui riusciva nello stesso racconto a parlare di mitologia, informatica, televisione, citazioni pop, aveva una conoscenza trasversale capace di creare questi cortocircuiti interessanti. Ma anche il primo Ammaniti se è per questo, ed ecco, penso che come loro vivevano di questa influenza dei mass media che era la televisione, per noi la stessa cosa avviene con interne: sono i social network come Instagram e Tik Tok che hanno azzerato le barriere tra noi e le celebrità. Il fatto che ci fosse Siffredi per dire… è che ormai è facile trovarsi dentro le case delle persone celebri… scorrendo Tik Tok puoi trovarti davanti al video della persona famosa che ti porta dentro casa sua ai cacciatori di bisce in Malesia, si vengono a creare questi cortocircuiti che rendono il mondo più piccolo ma più denso e inquietante allo stesso tempo.
Matteo De Giuli: L’ultimo che rimane della lista è Antoine Volodine.
Alessio Mosca: Volodine è un grandissimo creatore di atmosfere. Con qualche elemento, qualche accostamento tu ti ritrovi in un’atmosfera alla Stalker di Tarkovskij, il suo perenne stare con un piede nel sogno, un sogno che forse è un delirio nel sogno. Ed è appunto l’atmosfera il vero legante di tutti i miei racconti, perché non c’è una cornice, non ci sono personaggi che ritornano; però allo stesso tempo credo che sia una raccolta organica, questo perché la chiromantica medica è l’atmosfera che poi alla fine del libro ti senti addosso. Quello era il mio obiettivo: far vedere al lettore che c’è una seconda realtà, più violenta e segreta all’interno di quelle che sono le nostre vite. Una realtà segreta nella realtà.
Illustrazioni dalle copertine di Chiromantica medica, Woobinda e Nove.
Buone notizie dalle Galapagos. A 600 metri di profondità, sulla cima di una montagna sottomarina non ancora cartografata, la ricercatrice Michelle Taylor e i suoi colleghi hanno avvistato delle barriere coralline “incontaminate e brulicanti di vita”.
Prima di questa scoperta si pensava che Wellington Reef, nell'estremo nord dell'arcipelago, fosse una delle poche barriere coralline sopravvissute alla distruzione provocata dalla corrente El Niño nel 1982/83.
Lì protetti dall’immensità dell’Oceano Pacifico, a 1.000 chilometri dalle coste dell’Ecuador, proliferano ancora “polpi rosa, pesci pipistrello, aragoste e una serie di pesci d'alto mare, squali e razze”.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 424,03 ppm (parti per milione) di CO2.