HUUÙ
di Nicolò Porcelluzzi. In questo numero leggerete di fiumi e bambini, di gasdotti e cuculi, fontane e miraggi, danzatrici fluorescenti e gatti nel buio.
Benvenuti, questo è il numero centonove di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di fiumi e bambini, di gasdotti e cuculi, fontane e miraggi, danzatrici fluorescenti e gatti nel buio.
C'era inoltre la sensazione di essere coinvolti in una crisi veramente radicale, non solo politica, ma quasi metafisica. Ci spaventava non tanto il collasso degli istituti, e delle meschine idee su cui era fondato il nostro mondo di prima, quanto il dubbio istintivo sulla natura ultima di ciò che c'è dietro a tutti gli istituti, la struttura della mente stessa dell'uomo, l'idea di una vita razionale, di un consorzio civile. Sentivamo la guerra come la crisi ultima, la prova, che avrebbe gettato una luce cruda non solo sul fenomeno del fascismo, ma sulla mente umana, e dunque su tutto il resto, l'educazione, la natura, la società.
Bisogna pensare che il crollo del fascismo (che ebbe luogo tra il '40 e il '42: dopo di allora era già crollato) era sembrato anche il crollo delle nostre bravure di bravi scolari e studenti, il crollo della nostra mente. Ora si vedeva chiaro quanto è ingannevole fidarsi delle proprie forze, credersi sicuri. Penso onestamente che ogni italiano che abbia un po' di sensibilità debba aver provato qualcosa di simile. Non si poteva dare la colpa al fascismo dei nostri disastri personali: era troppo comodo; e dunque pareva ingenuo credere che rimosso il fascismo tutto andrebbe a posto. Che cos'è l'Italia? che cos'è la coscienza? che cos'è la società? Dalla guerra ci aspettavamo queste e mille altre risposte, che la guerra, disgraziata, non può dare. Tutto pareva che fosse quasi un nodo, e questi nodi venivano al pettine. Che cos'è il coraggio? e la serietà, e la morte stessa?
[…]
“Il sole non brillò più, seguì un’era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso («la gente smise d’aver paura dei fascisti e prese ad aver paura del fiume») e macerò le stesse pietre della città. […] Al crepuscolo, Johnny si avvolgeva in un impermeabile inglese e nel peso e nel disgusto della pioggia andava agli argini dissolti. Alla porta della città lo accoglieva il rombo delle acque. Il fiume aveva annullato gli argini d’ottobre, le sentinelle erano rinculate addirittura contro la scarpata del viale grande. Il fango bulicante appariva anche più tremendo e letale delle acque impazzite. Gli altissimi flutti, veloci e come gettati in cemento, sfioravano le superstiti arcate del ponte. Nel tuonare del fiume potevi però cogliere i colpi di tosse delle invisibili sentinelle. Il caotico cielo, forgia di quel diluvio era odioso, si tirava le bestemmie.
Johnny risalì sul viale e di lassù scoccò un’ultima occhiata al fiume. Nella fattispecie, la natura stava riportando un eccezionale trionfo: una volta tanto la natura stava prendendosi la rivincita sugli uomini per il primato nell’incussione della paura; per ognuno era infinitamente meglio avanzare solo contro un’armata di SS piuttosto di aver a che fare con uno solo di quei flutti fangosi. Guardò ancora al fiume, quasi si rifornisse di materiale per il suo incubo notturno.
[…]
Sta il fatto che noi nodi li vedevamo venire al pettine, e ci pareva di sentire che perfino dietro la politica, la regina delle cose, ci sono forze oscure che lei non governa. Anche il fascismo è forse collegato con queste forze oscure. Il mondo è misterioso, e questo si sente molto di più quando si vive un pezzo in mezzo ai boschi.
Avevamo bensì, in questo gran sconquasso, la parte migliore della nostra cultura, quella acquistata non a scuola, ma fuori. Erano come appigli rocciosi in mezzo a una corrente. C'era l'antifascismo di Antonio; i poeti, Baudelaire e Rimbaud, alcuni altri: molte poesie singole e un gran mucchio di versi o emistichi; c'era il metodo che noi chiamavamo crociano, le distinzioni tra questa e quella forma della coscienza. Nei momenti di maggior ottimismo pensavamo che queste cose alla fine della guerra si sarebbero saldate insieme; la corrente si sarebbe ritirata, rivelando le saldature tra gli appigli, lo zoccolo di roccia, umido, del mondo nuovo. Ma questi momenti erano rari. Dopo la guerra forse il caos si sarebbe decantato: ma intanto ci eravamo in mezzo. Da ogni parte si sentiva manifestarsi un mondo infinitamente più complesso degli schemi trasmessi a noi dai filosofi e dai poeti. Si sentiva subito che questo mondo era reale: ma come era fatto? quanto grande era?
Quando cantava il cuculo – perché in Altipiano cantano in maggio – noi non eravamo spettatori, turisti, che lo ascoltano per loro piacere. Noi abitavamo lì nello stesso bosco, erano cose vere e non spettacoli, ora che eravamo della stessa parrocchia anche noi.
La distinzione tra l'umano e il non-umano (sulla quale è fondata la società) sembrava sempre più vaga. Ma sì, una volta dicevamo di avere l'anima, e adesso lo spirito, è sempre la stessa minestra: abbiamo un osso buco sulle spalle, e dentro questo midollo specializzato, pieno di circuiti complessi ed eleganti ma (come schema) identici a quelli per mezzo dei quali questi uccelli invisibili sparsi per il bosco fanno huuù, huuù.
[…]
I gerarchi scesero e affondarono immediatamente nel fango fino al ginocchio, specie uno particolarmente obeso che già aveva attirato le smorfie e i sarcasmi delle guardie del corpo. I gerarchi più asciutti erano già abbastanza occupati a liberar se stessi, quindi il grassone tese le mani verso le guardie partigiane. Queste fecero catena e rudemente lo strapparono alla morsa del fango, per tutto il tempo dello sforzo emettendo liberi commenti sul lardo del gerarca e sulla lautezza della sua dieta.
Erano tutti sul sodo. Distribuirono i più larghi sorrisi ed i ringraziamenti più cordiali, osservarono con caricato humour le loro massive addizioni di fango, poi offrirono in giro sigarette tedesche. Infine si raggrupparono, facendo polo istintivo al più prestante di loro, un quarantenne bruno corvino di tipo sardo, che cercava di dissimulare il suo disprezzo per i partigiani non meno che per i suoi compagni di parlamento. Pierre si fece sull’uscio della fattoria e li introdusse.
Mezz’ora dopo tutto era finito. Pierre uscì il primo, per preparare il passaggio, ed era scuro in viso. Johnny ed Ettore lo scortarono alla ripa, ad avvisare i rematori di tener pronto il barcone. – Ce le daremo, – bisbigliò Pierre. Disse Johnny: – Meglio così. Dev’esser stata la commedia delle reticenze. Noi a tacere che abbiamo cinque ore di fuoco, loro a tacere che pigliarsi la città con la forza è una grossa seccatura. – Meglio così, – disse Ettore. Preferisco veder la città rasa al suolo. Che diritto ha alla città, per esempio, quel lurido grassone?
I gerarchi si reimbarcavano, abbastanza rischiosamente. Non sorridevano ma le loro facce non erano nemmeno particolarmente tese; l’esito della discussione era scontato. Il più aitante di loro sedette per ultimo, si rivolse alla ripa in generale e a Pierre in particolare. Disse distintamente: – Ci rivedremo sul campo. – Certissimamente, – rispose Pierre quietamente per tutti. I rematori puntarono e staccarono. – Aspettiamo, – disse Ettore. – Non è fuor del caso che facciano naufragio –. Ma non accadde.
[…]
Lasciai venire la notte; poi con molta circospezione scesi all' attraversai la conca, mi allontanai tra i dossi nudi di aperto, fronte. Dai crinali spuntava il chiaro della luna in arrivo. Camminai per qualche ora e quando raggiunsi il labbro della Valsugana la luna era alta; tutto era nudo, limpido, deserto. Cominciai a scendere per il declivio come scivolando, ma dopo un po' mi fermai e mi voltai indietro. Il prato era quasi in piedi dietro di me, astratto, grandioso. In vita mia non ho mai veduto una cosa che somigliasse di più a un sogno. Stetti a guardarlo un pezzo, pensando: "E solo la spalla dell' Altipiano" ma non pareva un paesaggio di questo mondo. Poi ripresi a scivolare all'ingiù e arrivando al bosco mi avviai per un sentiero pietroso che lo costeggiava.
Mi venne in mente che non mangiavo e non dormivo da un pezzo, e provai a fare il conto delle ore, ma era troppo difficile; avevo sete, e non mi ricordavo di aver bevuto, né stanotte, né ieri, né la notte prima, né il giorno prima, e neanche la notte prima ancora, la notte sul dieci. Camminai un pezzo, poi a una svolta del sentiero mi fermai. A destra avevo un valloncello scosceso, praticamente impassabile. Arbusti e alberi proiettavano come una tettoietta d'ombra, e sotto a questa vidi due grosse meduse. Erano i primi animali che vedevo da un bel pezzo. Erano posate sul pendio, a un paio di metri da me, ma irraggiungibili a causa del valloncello pieno d'ortiche e di stecchi spinosi.
Erano a mezzo metro l'una dall'altra, come impigliate tra gli arbusti del sottobosco, e palpitavano lievemente: opalescenti, quasi trasparenti. Restai vivamente sorpreso, la cosa mi pareva quasi incredibile. Come saranno venute quassù queste meduse? D'altro canto erano lì vere e reali, e dunque qualche spiegazione doveva esserci Questo tipo di situazione mi ha sempre attirato: quando c'è una cosa che pare assurda e tuttavia si vede che c'è, e dunque deve essere razionale.
Mi piace cercare di circoscrivere la delle verità possibili, e poi, risolto il problema, verificare se la spiegazione vera ci cade dentro. Qui però non mi veniva in mente nulla; proprio non riuscivo a pensare una spiegazione plausibile.
Raccattai dei sassolini, e mi misi a tirarli addosso alle meduse per farle muovere; stranamente i sassi le attraversavano senza disturbarle, e questo aumentò ancora il mio senso di irritazione e di delusione. «Andate in quel paese» dissi infine, e ripresi a camminare. Appena fatta la svolta, in piena luce della luna, vidi che c'era una fontanella, e provai un moto di piacere, dato che avevo una gran voglia di bere. Non me la ricordavo questa fontanella, e anzi mi pareva una bella bizzarria che l'avessero costruita proprio lì, in una landa deserta di montagne, dove non ci sono né case né niente. Era stata costruita da poco, e moderna di stile; c'era un pilastrino fatto di pietre levigate a profilo irregolare; dalla canna ricurva verso il basso scaturiva un bel getto pieno. Mi appoggiai al pilastrino e mi curvai con la bocca aperta, ma il pilastrino non mi sorresse, lo attraversai con tutto il corpo e feci una cascata sul fianco, una gran cascata, perché il terreno andava ancora all'ingiù.
[…]
Al cessato allarme, nell'affacciarsi fuori di là, si ritrovarono in una immensa nuvola pulverulenta che nascondeva il sole, e faceva tossire col suo sapore di catrame: attraverso questa nube, si vedevano fiamme e fumo nero dalla parte dello Scalo Merci. Sull’altra parte del viale, le vie di sbocco erano montagne di macerie, e Ida, avanzando a stento con Useppe in braccio, cercò un’uscita verso il piazzale fra gli alberi massacrati e anneriti. Il primo oggetto riconoscibile che incontrarono fu, ai loro piedi, un cavallo morto, con la testa adorna di un pennacchio nero, fra corone di fiori sfrante. E in quel punto, un liquido dolce e tiepido bagnò il braccio di Ida. Soltanto allora, Useppe avvilito si mise a piangere: perché già da tempo aveva smesso di essere così piccolo da pisciarsi addosso.
Collage di testi di Luigi Meneghello (I piccoli maestri), Beppe Fenoglio (Il partigiano Johny), Elsa Morante (La Storia).
#1 TRACCE
“Dove andiamo domani?”
“Andiamo nella natura”.
Per il nostro gruppo di amici, la risposta è stata a lungo ovvia, assodata e senza complicazioni, mai messa in discussione. Poi è arrivato l’antropologo Philippe Descola che, con il suo Oltre natura e cultura, ci ha insegnato come l’idea di natura fosse una strana credenza degli occidentali, un feticcio di questa civiltà che ha, per l’appunto, un rapporto problematico, conflittuale e distruttivo con il mondo vivente che chiama “natura”.
Baptiste Morizot è un filosofo e scrittore francese. Due anni fa è uscito in Italia il suo Sulla pista animale, volume in cui espone il proprio pensiero sul rapporto tra umano e vivente raccontando le esperienze di “tracciamento sul campo”, ovvero le giornate e le notti passate in mezzo alle foreste sulle tracce di lupi, orsi e altri animali selvatici. Come ha detto in un’intervista a Repubblica:
Il tracciamento filosofico è diventare sensibili alle modalità con cui gli altri esseri viventi abitano questo mondo. È una nuova forma d'attenzione per il vivente: senza negare possibili conflitti e rapporti di forza ma con l'obiettivo di stabilire un modus vivendi il più pacifico possibile. È una via che supera l'opposizione tra pensiero e sensibilità, tra pratica e teoria. Nel tracciamento, per interpretare gli indizi lasciati da un cervo o una pantera delle nevi, occorre legare tra loro sensi, corpo, intuizione, immaginazione e ragionamento. Siamo lontani dai dualismi ereditati dalla Modernità.
Il libro di Morizot è stato lo spunto per creazione di La notte è il mio giorno preferito, uno spettacolo ideato dalla danzatrice e coreografa Annamaria Ajmone, una “riflessione sul rapporto con l’Altro attraverso una meditazione sugli animali e gli ecosistemi in cui vivono”. Da qualche mese sta girando i teatri; metà di MEDUSA l’ha già visto: è uno spettacolo perturbante, potente, capace di emozionare estraniando.
L'impianto scenico è a cura dell’artista Natália Trejbalová, mentre la ricerca drammaturgica è stata fatta da Stella Succi. Prima di andare a vederlo potete allora rileggervi “Miraggi”, il numero di MEDUSA in cui Stella Succi conversava proprio con Natália Trejbalová attorno all’immaginario dei suoi lavori.
Per le prossime date di La notte è il mio giorno preferito, invece, tenete d’occhio il sito di Annamaria Ajmone.
#2 MEGLIO NON AVERLO NEL SACCO
Ecco dei consigli per chi magari in questi mesi sta traslocando ed è preoccupato per la nostalgia dei suoi gattini. Sul finire dell’Ottocento Jean-Henri Fabre, tra i capostipiti dell’entomologia, così scriveva nei suoi Diari:
Il primo a mettermi su questa strada fu Favier, uomo impagabile per tale genere di informazioni. Mi raccontò che quando si vuole trasferire un gatto da una fattoria a un’altra piuttosto lontana, lo si infila in un sacco che al momento della partenza si fa ruotare rapidamente. Così si impedisce all’animale di ritornare alla casa da cui è stato allontanato. Dopo Favier, molti altri mi parlarono di questa pratica. A sentir loro, la rotazione dentro un sacco era un sistema infallibile; il gatto, disorientato, non ritornava più. Riferii in Inghilterra quanto avevo appena saputo; raccontai al filosofo di Down come il contadino avesse anticipato la scienza. Charles Darwin era sbalordito; lo ero anch’io, e tutti e due contavamo sul successo dell’esperimento.
Questa trovata tornava utile a Fabre per un suo esperimento, incoraggio da Darwin stesso, che se lo chiedeva per i piccioni: come fanno le api, inesorabili, a tornare nel loro nido?
Se ne incaricò Favier. Aveva scoperto sulle rive dell’Eygues, a diversi chilometri dal paese, una catapecchia abbandonata dove si era stabilita una popolosa colonia di calicodome. Voleva servirsi della carriola per trasportare le pietre con le celle, ma io lo dissuasi: i sobbalzi del mezzo su quei sentieri così sassosi potevano danneggiare il contenuto delle celle. Fu preferito un canestro portato a spalla. Favier si fece accompagnare da un aiutante e partì. La spedizione mi procurò quattro tegole densamente popolate.
[Segue una quantità esorbitante di dettagli sulle abitudini e le morfologie della calicodoma muraiola]
Resta da risolvere la faccenda del congegno rotatorio. Charles Darwin mi consiglia una scatola rotonda azionata per mezzo di un asse e di una manovella. Non ho sottomano niente del genere. Sarà più semplice e altrettanto effcace usare il metodo del contadino che, per mettere fuori strada il gatto, lo fa ruotare chiuso in un sacco. I miei insetti, posti ciascuno nel suo cartoccio, saranno collocati in una scatola di latta, i cartocci saranno sistemati in modo da evitare gli urti durante la rotazione; la scatola sarà attaccata a una corda, e io farò ruotare il tutto come una fionda. […] Un sentiero che costeggia la mia abitazione si presta benissimo a questa manovra preliminare; spero proprio che non ci sia nessuno in giro nel momento in cui agiterò la mia fionda. In fondo al sentiero c’è una croce; mi fermo ai suoi piedi.
Lì, rotazione delle api in piena regola. E proprio mentre descrivo con la scatola dei cerchi in senso inverso e spirali a otto, mentre giro su me stesso facendo perno sui talloni per raggiungere le varie direzioni, passa di lì una brava donna, che mi guarda in un modo, oh! ma in un modo... Ai piedi della croce, e che gesticolo in quella maniera assurda. La voce si sparse. Era un rito necromantico! Non avevo forse dissotterrato un morto qualche giorno prima? Certo, avevo frugato dentro una tomba preistorica, ne avevo estratto gigantesche tibie di età veneranda, vasellame funerario e, come viatico per il grande viaggio, qualche spalla di cavallo.
Andremmo avanti a lungo, ma meglio andare verso la conclusione di questo prezioso capitolo di scienza: l’esperimento non dà i risultati sperati. La percentuale di api che torna al nido non varia al variare delle rotazioni, dei sentieri, dei venti… Fabre inizia a interrogarsi su ogni aspetto delle sue premesse, fino ad arrivare alla dolorosa conclusione: il buon Favier, il suo tuttofare enciclopedico, gli ha detto una cazzata.
Se una tale convinzione si è radicata tanto a fondo nell’animo del contadino, dobbiamo pensare che alcuni fatti l’abbiano di tanto in tanto avvalorata. Ma se il metodo ha avuto successo, allora è probabile che i gatti disorientati fossero giovani, non ancora indipendenti. Con questi novellini, basta un po’ di latte per cancellare le pene dell’esilio. Che siano stati fatti ruotare o meno dentro un sacco, a casa non tornano. Per maggiore prudenza, avranno subìto la rotazione nel sacco, pratica che è stata ritenuta efficace quando è stata coronata da un successo che in realtà non dipendeva da lei; ma, per poterla ritenere valida, essa avrebbe dovuto disorientare il gatto adulto, il maschio non castrato. Su questo punto, alla fine ho trovato le testimonianze che desideravo. Alcune persone degne di fede, assennate, capaci di fare un po’ di luce sulle cose, mi hanno raccontato di aver sperimentato il metodo del sacco rotante per impedire a dei gatti di ritornare a casa. Con l’animale adulto, il metodo non ha mai avuto successo. Pur trasportato a grande distanza, in un ambiente diverso, l’animale tornava sempre a casa, anche dopo una scrupolosa rotazione.
#3 NEVER ENDING TOUR
Continuano le date di presentazione del libro.
Il 4 aprile saremo a Feltre, e ringraziamo molto il comune per l’invito. Se passate da quelle parti, potete prenotarvi qui.
L’8 aprile invece Matteo sarà a Bologna ospite del Festival dell’Antropologia 2022 per un incontro dal titolo “Raccontare l’Antropocene”. Con Emilio Padoa-Schioppa e Matteo Oreggioni. Prenotazioni qui.
Ogni anno l’Italia acquista dalla Russia 29 miliardi di metri cubi di gas.
In queste settimane l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, è sempre al fianco di Di Maio nelle missioni internazionali. Descalzi ha dichiarato che “potremmo rimpiazzare almeno il 50% del gas che viene dalla Russia durante l'inverno 2022-2023 e circa l'80% entro l’inverno successivo”.
Nel frattempo si parla del progetto EastMed-Poseidon, un gasdotto di oltre 1.900 chilometri che porterà il gas prelevato dal Bacino Levantino nel Mediterraneo orientale, tra Israele, Egitto e Cipro, fino a Otranto.
L’idea è trasportare 10-12 miliardi di metri cubi di gas all’anno con possibilità di raddoppiare la capacità.
Secondo l’ultima deroga all’autorizzazione, firmata da Cingolani, i lavori inizieranno entro ottobre 2023, per finire – si crede – entro il 2025.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 420,30 ppm (parti per milione) di CO2.