GUERREPACE
di Nicolò Porcelluzzi. I trucchetti del conte Lev Tolstoj ci tengono vivi? Il romanzo russo come antidoto alla Teoria del Tutto.
Benvenuti, questo è il numero centosettantanove di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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In questo numero leggerete di Tolstoj e caos, di baci furtivi e cuginette, di ricchi e poveri, della sofferenza in mezzo.
Sono tempi di anti-intellettualismo, se è mai esistito qualcosa di diverso. Una newsletter potrebbe non essere la sede adatta per sdottorare sulla legittimità di questo sentimento diffuso. O forse a pensarci meglio, guardandomi intorno e considerando altri progetti italiani, le newsletter – che in diversi casi raggiungono più persone di alcuni dei quotidiani storici che orientano il dibattito – sono diventate invece uno degli ultimi spazi che permette di lavorare sulla complessità. Permettono uno spazio di analisi più ampio di un post su Instagram, più sobrio di un faccione su YouTube, più versatile di un editoriale in colonna.
Anti-intellettualismo, allora. Da dove nasce? Non lo so. Se però indosso le infradito richieste dalla sociologia da bar, mi sembra che dalla pandemia in poi – tra Airbnb, cripto, rendite varie – la società si sia divisa tra chi lavora dieci ore al giorno, e chi nessuna o un paio. E che forse le fasce di ceto (broker e operai, rentier e cassintegrati) siano trasversali al fenomeno, e possano interessare entrambi i casi.
La gente vuole oro, carne rossa e piscine. Non ho un granché da opporre, a livello teorico. Gli e le intellettuali sono insopportabili quando cercano di insegnare la complessità a chi la vive.
Siamo una nazione sempre più povera e, lo si legge fino alla nausea, il corpo sociale non è mai stato così frammentato. L’intellettuale non è mai stata così frammentata, tra l’essere e il fare: la parola stessa, e si ripete da decenni, mette i brividi. Ognuno col suo viaggio, ognuno diverso, e ognuno in fondo perso dentro i fatti suoi. A cascata, diventa difficile costruire brillanti Teorie del Tutto. Almeno sintetiche: qui proviamo a rifilarne dei frammenti, uno alla volta, una ventina di pezzi del Tutto all’anno. Un linguaggio alla volta.
Oggi il linguaggio che mi interessa è quello letterario. “La letteratura” ignora il mandato della teoria del Tutto. Non ci crede, e si occupa di fare altro. Oggi lo status della letteratura, e ci ho messo anni a masticare e digerire il boccone, più del necessario, non solo non è in prima posizione rispetto ad altre industrie dell’intrattenimento, ma neanche tra i primi. Mi sembra però che la letteratura, una volta accettato il suo status ancillare, ma direi anche infimo rispetto alle altre industrie, possa ancora candidarsi a malattia elettiva di questo esoscheletro che ci muove ogni giorno; che possa trasformarci nel virus, nella maledizione dello spirito dei tempi, nell’alternativa al mondo del pacchetto Office.
Lo sanno gli slavisti anche più giovani, le teorie del Tutto possono provare a ricostruire la realtà della Russia dei Romanov in saggi di migliaia di pagine, e studiarli a vent’anni macera per sempre dei grappoli di cervello, ma nessun testo può farlo all’altezza di Guerra e Pace, e nessuno di quei testi ha raggiunto tanti lettori, neanche da lontano.
Sono morti i generali e i loro consiglieri, nessuno sa chi sia il principe Kutuzov, ma la lettura di Guerra e Pace costringe la nostra vita a rincorrere l’intensità di quell’altra, quella che sarebbe finita da duecento anni. Se ho voglia di parlarne, è perché in questi mesi Tolstoj mi ha aiutato a ritrovare fede nella vecchia idea, ovvero che il mondo lì fuori briga e disbriga, va e viene, e così le persone amate e quelle non, ma finché c’è il racconto del cane che corre nel bosco, del primo amore, della morte come ritorno, finché c’è da leggere qualcosa di bello c’è ancora qualcosa da fare.
Va bene, entriamo nel libro. Non voglio né rovinare il romanzo a chi l’ha solo iniziato, né passare sopra alla testa di chi non lo conosce, mi prendo soltanto questo paragrafo per inquadrare il soggetto. In Guerra e Pace ci sono quattro o cinque protagonisti, e diverse decine di comprimari. Nel passaggio che segue leggeremo di Nataša, che se all’inizio del libro è una ragazzina intorno ai tredici anni, ora è ormai una giovane donna che riceve le prime attenzioni dagli uomini della nobiltà russa. Attenzioni forse precoci, sconsiderate, ma nella realtà del romanzo giustificate dal suo fascino, che non è soltanto una questione di aspetto anzi, è una prova luminosa di come l’anima possa trasformare il corpo, l’energia le forme.
Per Tolstoj Nataša è la vita senza spiegazioni. Ormai vicina a qualche prima forma di maturità, ma solo vicina, inizia a fare il conto delle proposte di matrimonio. Dopo quella di Vasilij Denisov, un caro amico del fratello (chi ha letto il romanzo ricorderà la sua erre moscia), torna anche lo squallido Boris, il parvenu, il personaggio che nel libro è il puro vettore dell’arrivismo, della grettezza conformista, le catene poke e i completi Boggi, il doppio fine e le scarpe a punta.
Di fronte alla vita senza spiegazioni, Boris è soltanto una brutta nuvola di passaggio. Nataša ci scherza sopra con la madre, in un paio di pagine tra le più accennate e adorabili del libro. La scena si struttura intorno agli obiettivi del dialogo – condotto dalla solita serenità tolstoiana – ma viene impreziosita dalle descrizioni iperrealistiche dei gesti minimi:
Notando che la madre continuava a pregare, corse in punta di piedi fino al letto, strusciando svelta un piedino contro l’altro si liberò delle pantofole e saltò su quel ‘giaciglio’ che la contessa temeva potesse diventare la sua tomba [l’autore si riferisce al contenuto della preghiera, esplicitato poco prima nel libro. Notare ora il contrasto tra la gravità funerea della preghiera e le condizioni materiali della contessa]. Quel giaciglio era alto, di piume, con cinque guanciali di grandezza decrescente. Nataša saltò su, sprofondò nel piumino, rotolò verso la parete e cominciò a dimenarsi sotto la coperta, cercando una posizione comoda: piegava le ginocchia verso il mento, sgambettava e rideva appena appena, ora nascondendo la testa sotto la coperta, ora sbirciando la madre.
Una figlia innamorata, ma di nessuno in particolare, disturba la preghiera della madre. La madre finisce comunque di pregare e, vedendo al posto della figlia un mucchietto di risolini, non riesce a prendersela. Le sorride. Iniziano quindi le confidenze di un rapporto di coppia non solo squisito, direi anche fantascientifico per la maggior parte delle lettrici e lettori che l’hanno letto negli ultimi centocinquant’anni – penso al rapporto tra le madri e le nonne e le bisnonne venete, ma in generale alla severità dei costumi contadini ante ‘68.
Le due si confidano dicevamo, e all’improvviso, nel mondo delle crinoline e delle carrozze e delle candele di sego, trovandosi a descrivere gli uomini che le girano intorno Nataša lascia scivolare delle associazioni sinestetiche (ovvero quando un senso contamina gli altri, anche a livello concettuale):
“Mamma, ma lui è molto innamorato? Quanto, secondo voi? Di voi sono mai stati innamorati così? Ed è molto carino, molto, molto carino! Solo non è del tutto di mio gusto: è così stretto, come l'orologio da tavolo... Non capite?... Stretto, sapete, grigio, chiaro... - Quante assurdità! - disse la contessa. Natasa continuava: – Come fate a non capire? Nikolenka capirebbe... Bezuchov invece è blu, blu scuro con del rosso, ed è quadrato. - Civetti anche con lui, - disse ridendo la contessa. - No, lui è un frammassone, l'ho saputo. È bravo, blu scuro con del rosso, come posso spiegarvi...”
È chiaro. In questa paginetta nascosta in mezzo alle altre milleseicento, con un filo di parole lungo qualche riga Tolstoj ricostruisce il processo oscuro e frustrante che formula i pensieri della vita quotidiana, la nostra macchina del pensiero che muove nel caos, per associazioni dendritiche, combinazioni sensoriali… Nataša è la vita, l’energia infinita incarnata in un sistema nervoso che unisce una testa a dei piedi. Cosa vuole saperne, un orologio da tavolo? Una roba grigia, stretta?
Questa sinestesia liberata è solo uno sbuffo, un gioco che si concede un autore abituato a nasconderci il processo, a renderlo più digeribile. Parlo della tecnica alla quale Tolstoj è fedelissimo, c’è chi dice mutuata da Omero, chi da Dickens: quella per cui ogni personaggio viene presentato accennando un suo tratto distintivo, l’erre moscia di Denisov, il “labbruzzo” di Liza, le spalle nude di Helene, eccetera.
Il passaggio appena citato ci fa capire che, fosse per lui, Tolstoj ci direbbe che un orologio grigio è più antipatico di un quadrato blu scuro, e che pure troverebbe il modo per farci annuire in segno di assenso.
Torniamo a Nataša. Non esiste realtà priva di tensioni antagoniste, è naturale: ecco perché al dialogo seguono una serie di paragrafi che mostrano quali estremi possa raggiungere la vanità della ragazza, il riflesso interiore che arriva ai limiti del narcisismo, anzi direi che va qualche spintina più in là… finché Nataša era ragazzina, Tolstoj premiava questa sicurezza come un attributo dell’infanzia, dell’ingenuità incantevole: dopo qualche anno di fiori e cantatine, l’autore sembra volerci segnalare – ma di nascosto e innamorato, senza che lei se ne accorga – che Nataša stia crescendo allo specchio, in una famiglia dove è stata sempre poggiata, a fin di bene, su un piedistallo.
Gridò a Dunjaša di spegnere la candela, e Dunjaša non aveva fatto in tempo a uscire dalla stanza che era già passata nel mondo ancora più felice dei sogni, dove tutto era facile e bellissimo come nella realtà, ma ancora migliore, perché era diverso.
Ecco. Un uomo che ha superato i cinquant’anni, che ha combattuto in guerra, che ha ucciso animali e uomini, che spadroneggia su decine di famiglie contadine, che continua a irretire per anni le donne del villaggio, che vive ancora di ideali aristocratici e conservatori, severo e ossesso, eccolo ricordarsi ancora cosa si prova a essere una giovane ragazza fulminata dall’amore, dalla speranza; eccolo convincerci che lui è stato lei e tutti quanti, perché Tolstoj e Dio – citazione di quelle apocrife – lottano come due orsi nella tana.
Prima di chiudere mi è venuta voglia di mostrare un’altra scena, questa volta si tratta del fratello Nikolaj, citato dalla sorella anche nella scena precedente (“Nikolenka capirebbe”), che dopo tentennamenti vari e speculazioni zoologiche – è pur sempre mia cugina! – si decide di dare un bel bacio a Sonja, l’amica di Nataša che non aspettava altro, e da molto tempo.
Siamo nei giorni tra Natale e San Silvestro, la famiglia riposa nella casa di campagna. Il terzo giorno, come da tradizione il salone viene invaso dai domestici mascherati: “orsi, turchi, bettolieri e nobildonne”, una scena che si ripeteva ogni anno anche nella casa del conte Tolstoj, e che nelle sue memorie la figlia Tatiana ricorda bene.
Mezz’ora dopo anche i giovani signori si sono camuffati per gioco, irriconoscibili: Nikolaj è un’anziana nobildonna, Sonja “un circasso” – tribù del Caucaso. Esaltati dalla festa e dai balli in maschera, i ragazzi decidono di andare in visita dai proprietari della tenuta accanto. Le slitte corrono sulla neve tagliando una notte cristallina, indimenticabile, e i vicini li accolgono con lungo banchetto, improvvisato e russissimo. È una di quelle scene che sembrano prendersi molto più spazio del necessario, e proprio per questo diventano parte dell’arredamento della nostra memoria. Inventandosi un goffo trucchetto, Sonja e Nikolaj riescono a vedersi di nascosto nel giardino innevato, mentre gli altri festeggiano.
Sonja si avvicinava imbacuccata nella pelliccetta. Era già a due passi, quando lo vide; anche lei lo vide diverso dal ragazzo che conosceva e di cui aveva sempre avuto un po' paura. Era vestito da donna, con i capelli spettinati e un sorriso felice e per lei nuovo. Sonja corse rapida verso di lui. «Completamente diversa eppure la stessa», pensava Nikolaj guardando il suo viso, tutto illuminato dal chiaro di luna. Infilò le mani sotto la pelliccetta che le copriva la testa, l'abbracciò, la strinse a sé e la baciò sulle labbra sormontate dai baffi e odorose di sughero bruciato. Sonja lo baciò proprio in mezzo alle labbra, liberò le piccole mani e gliele posò sulle guance, dai due lati.
1810 circa. Un uomo vestito da donna bacia una donna perché finalmente si è dipinta dei baffi. A Nikolaj sembra di vedere Sonja per la prima volta, truccata come un maschiaccio: “completamente diversa eppure la stessa”.
Mi sembra che la verità si trovi nelle cose che cercano di nascondersi alla descrizione. Nelle cose che si vedono da entrambi i lati. Mi sembra che l’arte cerchi di convincerci dell’esistenza di queste cose trasparenti, contro ogni ragionevole dubbio. Mi sembra infine che ci sia ancora qualcosa da fare.
Dopo tre anni di guerra in Ucraina, le emissioni di gas serra dovute al conflitto sono pari a circa 230 milioni di tonnellate. Un dato a cui si è arrivati sommando gli incendi, la ricostruzione degli edifici, i danni alle infrastrutture energetiche, il movimento dei rifugiati e dell’aviazione civile.
Le emissioni derivate direttamente dagli sforzi bellici – le emissioni di carri armati, aerei da guerra, la costruzione di fortificazioni, l’esplosione di ordigni eccetera – hanno contribuito per il 36% del totale (con 82,1 tonnellate di gas serra).
La ricostruzione incide circa il 27% del totale delle emissioni.
Con l’aumentare delle spese militari in Europa (almeno 650 miliardi di euro complessivi per un periodo di quattro anni), difficilmente vedremo diminuire le emissioni di climalteranti.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 427,61 ppm (parti per milione) di CO2.