GAZA
di Matteo De Giuli. Ipocrisie, dissociazioni, consapevolezze tardive e racconti di un massacro. Una lettura di "Un giorno tutti diranno di essere stati contro", di Omar El Akkad.
Benvenuti, questo è il numero centottantacinque di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di bare di vetro e piccole redazioni, occidente e crimini di guerra, di partigianerie e di schiettezza, di crimini e scritture.
Una persona che conosco da molto tempo mi ha raccontato solo pochi giorni fa del clima insostenibile che si era creato nel suo ufficio dopo il 7 ottobre. Questa persona, relativamente giovane, politicamente attiva, si ritiene di sinistra. Lavora in una piccola redazione – una casa editrice progressista, una fondazione culturale, un’agenzia di comunicazione politica, non fa differenza.
Mi ha fatto qualche esempio dell’imprevisto e quotidiano stillicidio, parole sue, che ha vissuto in quei mesi, per colpa di ripetuti litigi su Israele e Palestina avvenuti con alcuni suoi colleghi. La vicina di scrivania, verso dicembre, quando la devastazione di Gaza era già evidente a chi la volesse vedere, si era annunciata nell’aula riunoni augurandosi a gran voce che tra loro, quella mattina, non ci fosse nessun "filo palestinese". La stessa collega, durante uno scambio concitato con un'altra persona, aveva definito la Nakba un inevitabile flusso migratorio, prima di abbandonare la conversazione uscendo dalla stanza e poi dalla redazione. Un altro collega, durante una pausa pranzo, aveva dichiarato accoratamente di essere convinto, e di non aver dubbi, che fosse stata Hamas a bombardare gli ospedali palestinesi colpiti in quei mesi, data la schifosa astuzia del “popolo arabo”, e il disprezzo che culturalmente questi individui nutrono per la vita umana, che sia delle donne, dei nemici o dei loro stessi simili.
Infine c’era la capa, che aveva deciso di non intromettersi, lasciando che i litigi esplodessero e si ricomponessero da soli, e si era esposta soltanto quando era inevitabile farlo, durante qualche pausa caffè, quando la conversazione finiva per scivolare lì. E anche allora lo aveva fatto con prudenza, invitando la redazione – una casa editrice progressista, una fondazione culturale, una piccola agenzia di comunicazione politica – a non intervenire pubblicamente sull'argomento, perché, d'altra parte, vista la situazione, un orrore evidente a tutti, cos'altro si poteva aggiungere, se non banalità, emotività, grossolanità che avrebbero svilito il discorso? Seguiva di solito un veloce biasimo nei confronti del TG1 per il suo approccio sfacciatamente propagandistico, filo governativo, ma poi il rimbrotto più sentito veniva dedicato a quelle figure "davvero troppo partigiane" che stavano emergendo sui social, in mancanza di altri spazi, come Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, o l'avvocata palestinese Noura Erakat.
A metà 2024, quando la cronaca delle cose che accadevano a Gaza e il racconto che se ne faceva in quelle stanze avevano ormai raggiunto una distanza inconciliabile, la persona che conosco ha pensato di licenziarsi, di cambiare lavoro, ha sentito l'esigenza di far volontariato, di abbandonare una realtà culturale che non si stava esponendo sulla strage in corso. Dopo ancora qualche mese di pulizia etnica, e qualche migliaia di morti in più, l'argomento è scomparso dal chiacchiericcio delle pause pranzo, nessuno l'ha più tirato fuori, se non per manifestare generico rammarico per la tragedia.
La persona che conosco mi ha raccontato tutto questo durante un aperitivo, dopo che l'ho vista impallidire davanti allo schermo del cellulare. Aveva letto un post sul profilo instagram della capa che denunciava le brutalità del conflitto, richiamava tutti i suoi contatti alla condivisione di una iniziativa per la pace, citava addirittura la parola genocidio (certo, accollandola tutta al governo estemista di Netanyahu come fosse un meteorite piombato senza preavviso sul pianeta e non il frutto avvelenato di 75 anni di storia). Il post aveva il like di tutti i suoi colleghi.
Un giorno
Come è evidente a chiunque, negli ultimi mesi qualcosa è cambiato nel discorso pubblico attorno a Gaza, nelle dichiarazioni dei politici europei, anche tra i più moderati, e nei titoli dei giornali, nel modo in cui insomma ci si aspetta che ogni decente essere umano parli di quello che sta succedendo nella Striscia, dei piani genocidari apertamente promossi e divulgati dal governo israeliano che non nascondono di voler affamare la popolazione palestinese. Questa consapevolezza è tardiva, e non ha ancora portato a nulla di pratico, ma si può almeno leggerla come un passo necessario nell'unica direzione possibile, dopo mesi claustrofobici, surreali, in cui le voci che si erano da subito mobilitate contro il massacro in Palestina e contro la totale impunità di Israele, dopo l'efferato pogrom di Hamas, erano state silenziate, condannate, marginalizzate.
Lo scrittore Omar El Akkad in un tweet del 25 ottobre 2023 commentava con queste parole le immagini dei primi bombardamenti a tappeto dei quartieri residenziali nell'enclave palestinese:
Un giorno, quando sarà sicuro, quando non ci sarà più alcuno svantaggio personale nel chiamare una cosa con il suo nome, quando sarà troppo tardi perché venga chiesto il conto a chiunque, tutti diranno di essere stati contro.
Un modo elegante di mettere la cosa, ma una previsione in fondo piuttosto facile, perché era ovvio che il liberale perbene, il progressita rispettabile, anche quello più riluttante o timorato, prima o poi avrebbe riconosciuto la follia di Gaza – che nei mesi si è fatta sempre più atroce – e considerato inaccettabili le sofferenze che migliaia di persone avevano patito durante il suo prudente silenzio iniziale.
Proprio oggi esce in Italia il saggio (o pamphlet, memoir, sfogo letterario), che El Akkad ha iniziato a scrivere all'inizio di quest’ultima guerra. Il titolo lo prende da quel tweet diventato virale, Un giorno tutti diranno di essere stati contro (Feltrinelli, traduzione di Gioia Guerzoni). Non è però una mera rivendicazione di purezza da parte di chi ci aveva visto lungo, e non è solamente un'analisi spietata della mancanza di coraggio e dell'omologazione che permea il pensiero progressista occidentale.
El Akkad è un giornalista e romanziere, è nato in Egitto, è cresciuto in Qatar e, trasferitosi in Canada da adolescente, oggi vive in Oregon. Da reporter ha scritto di Medio Oriente e ha seguito le campagne militari statunitensi in Afghanistan e in Iraq, ha dovuto orientarsi tra le fragili ma ostinate costruzioni di realtà proposte dalle narrazioni ufficiali.
Partendo dai ricordi dei suoi anni da cronista, El Akkad racconta come Europa e Stati Uniti abbiano reagito in questi mesi alla distruzione di Gaza con una indifferenza strutturale. Nel tentativo di ribaltare questa distanza, ripercorre i modi in cui la coscienza collettiva viene abituata alle ingiustizie e riflette su quanto poco sappiamo, o vogliamo sapere, della sofferenza altrui. La voce di El Akkad è disincantata e amara, continuamente percorsa da una immediatezza viscerale che i più cinici additeranno come compiacente. Ma sarebbe un errore leggere la schiettezza di El Akkad e confonderla per superficialità; bisogna invece aspettarsi una scrittura levigata e pensata per scuotere, la cronaca della disintegrazione emotiva di uno scrittore paralizzato dalle quotidiane atrocità.
Calcolare le tasse, archiviare storie e correggere gli scritti degli studenti, tutto diventa banale. Quando mi offrono di pubblicare il libro, un amico mi chiede come possiamo festeggiare e per un attimo credo davvero che stia scherzando. Discussioni coniugali, trattative contrattuali, scadenze: tutto perde la sua patina di importanza. L’unica cosa che mi sembra ancora fondamentale è viziare i miei figli.
La bara di vetro
Come spiega nelle interviste, il titolo che El Akkad aveva scelto per il libro era The glass coffin, la bara di vetro, meno incisivo di quello poi suggerito dall'editore, ma forse più fedele allo spirito complessivo del testo. Scrive El Akkad: la furia dell'impero può riuscire a raccontare qualsiasi segmento della popolazione come subumano. È un esercizio di propaganda vecchio come la civiltà. Li vedete quelli lì? Sono mostri, sono ratti, insetti da schiacciare, erbacce da estirpare. Quando questa cantilena è ripetuta un numero adeguato di volte, il messaggio rischia di far presa nella maggioranza della popolazione. A quel punto tutto è lecito. Alle vittime – perseguitate, umiliate, annientate – rimane poco da fare, se non esibire i cadaveri, mostrare come le bombe riducono scuole e ospedali, far vedere nel dettaglio le conseguenze della violenza che sono stati costretti a subire. E questa mossa di solito fa infuriare i carnefici, a volte li spinge, in una versione patologica di negazione della realtà, a rispondere che quelle sono tutte invenzioni. Oggi succede nelle campagne di disinformazione che vanno sotto il nome Gazawood o Pallywood (la crasi è con Hollywood), perverse distorsioni in cui si accusano i palestinesi di mettere in scena il massacro che stanno subendo.
È difficile non farsi convincere dal realismo apocalittico di El Akkad quando scrive che ormai non esiste più un ordine internazionale basato su regole precise, né diritti umani universali, né giustizia uguale per tutti, "ma solo dei fugaci accordi di convenienza in cui qualsiasi quantità di danni umani collaterali è ritenuta accettabile, purché vada a beneficio dell’impero (...) Le regole, le convenzioni, la morale, la realtà stessa esistono finché servono a mantenere il potere. Altrimenti, come tutto il resto, si possono sacrificare". È un discorso che non ruota solo attorno a Gaza, ma che può rimanere valido anche in Ucraina e Russia, o per i nuovi isterici nazionalismi, il tecnofeudalesimo, l'emergenza climatica, la generale crisi cognitiva della contemporaneità.
Vivere in Occidente ha significato godere di privilegi resi possibili dallo sfruttamento della periferia del mondo. Le felpe casual chic a 20 euro e le banane a 20 centesimi in ogni città sono i frutti di una sofferenza che qualcuno sta vivendo al posto nostro a qualche migliaio di chilometro da noi. Lo abbiamo sempre saputo, abbiamo capito che l’unico modo di sopravvivere nel confort era la dissociazione. Persino le guerre ingiuste, pretestuose, motivate da patenti bugie, sono state condonate dalla nostra inerzia. Nessuno ha pagato per il milione di morti della guerra di Bush in Iraq. Alla coscienza collettiva è bastato un minimo di abnegazione per barattare ingiustizie e violenze in cambio di sicurezza e benessere. Finché è durata.
Ma con la guerra a Gaza – che arriva per di più in un periodo di instabilità sociale in Europa e USA – qualcosa è franato, ed è difficile immaginare che possa tornare al suo posto. Il massacro viene condotto con intensità e sfacciataggine inedite, la più completa crudeltà è quotidianamente rivendicata dai video dei soldati israeliani sul campo e dalle dichiarazioni dei ministri di Netanyahu che rendono impossibile spacciare anche solo retoricamente le morti civili come “danni collaterali”. Di conseguenza, gran parte della popolazione europea ha preso le distanze dai propri governanti, e Israele si è alienata un'intera generazione di giovani occidentali.
Sabbia negli ingranaggi
In un libro di qualche mese fa, Pensare dopo Gaza, Bifo racconta così le differenze dei movimenti pacifisti di oggi e di sessant'anni fa: nel ’68 ci si identificava col Vietnam in nome del socialismo e di un cambiamento possibile, oggi chi manifesta per la Palestina non può invece riconoscersi in Hamas né nell’islamismo. "Dalla resistenza palestinese non si attende un brillante avvenire radioso, un avvenire socialista, né qualche tipo di emancipazione sociale. L’oscurantismo della cultura che domina i paesi islamici non può in nessuna maniera essere condivisa dai movimenti studenteschi, meno che mai dai movimenti femministi, che pure si sono mobilitati massicciamente contro il genocidio, suscitando scandalo nella stampa occidentale, come se protestare contro un genocidio significasse condividere tutte le ragioni politiche di chi è oggetto dello sterminio".
Le proteste non nascono più da un progetto condiviso, ma dal rifiuto di una violenza; eticamente è un atto significativo; politicamente è il segno una fragilità notevole, perché i movimenti si trovano nel doppio imbarazzo di dover navigare a vista e nel, farlo, di cercare la conciliazione tra approcci e idee anche radicalmente diverse. Ma, per citare ancora Bifo, "seppure non si sappia come sia possibile la diserzione, né quale sia la strada che porta fuori da questa litania dell’orrore, non è forse questa la sola questione di cui valga la pena occuparsi?"
Se il clima è finalmente cambiato, i risultati sul campo ancora non ci sono. Due dati noti, ma utili da rinfrescare: l’Unione Europea rappresenta circa un terzo del commercio globale totale di Israele; l’Italia è il terzo esportatore di armi a Israele dopo USA e Germania. Finché i governi che commerciano e dialogano con Israele si rifiuteranno di agire, il cambio di tono nel discorso generale rimarrà un puro esercizio di retorica.
Nel frattempo andiamo avanti con le nostre vite e le nostre coscienze, nella parte del mondo in cui le bombe partono e non si schiantano. Quando El Akkad si chiede come reagire perché lo smarrimento emotivo non si trasformi in depressione o in nuova dissociazione, si risponde che “ogni deragliamento della normalità conta”, se in ballo c’è la normalizzazione di un genocidio. L’abitudine all’orrore anestetizza. Prepara il corpo all’accettazione, allena all'indifferenza. Bisogna invece imporsi di reagire, continuare a protestare, boicottare, spingere per embarghi e sanzioni, si può donare alle famiglie di Gaza e alle ONLUS che ancora riescono a operare nella Striscia. Ripete l’appello lanciato dalla poeta palestinese Rasha Abdulhadi: “Ovunque siate, se potete gettare sabbia sugli ingranaggi del genocidio fatelo ora. Se è una manciata, buttatela. Se avete pochi granelli sotto un’unghia, raschiateli e lanciateli. Mettetevi in mezzo come potete”. Aggiunge: “ Un giorno gli ingranaggi si bloccheranno del tutto e il silenzio che avvolgerà chi ha approvato i massacri e chi ha assistito in silenzio sarà molto più profondo”.
Il libro di El Akkad punta sul piano emozionale e morale. Per questo costringe ad abbandonare le pose di lettori smaliziati, che diffidano dell’urgenza della scrittura. Mantiene una logica essenziale, perché in fondo solo un pensiero ipocrita e deviato può convincerci che un massacro brutale come quello di Gaza sia giusto o inevitabile.
L’esercito israeliano ha confermato di aver sparato, una settimana fa, contro i palestinesi in fila in un centro di distribuzione del cibo: ci sono stati 27 morti.
Il numero complessivo dei morti nella Striscia è ormai difficile da dare. L’unica certezza è che il numero che circola (54.084 a oggi) è una stima ormai molto approssimativa.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 430,60 ppm (parti per milione) di CO2.