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EXTRA! MEDITERRANEO

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di Nicolò Porcelluzzi. Dalla logistica fenicia al colonialismo fascista, il mare nostro e di nessuno. Una conversazione con Luca Misculin intorno a “Mare Aperto”.

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giu 25, 2025
∙ A pagamento
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Benvenuti, questo è un nuovo numero EXTRA! di MEDUSA, la newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not. 

Gli EXTRA! sono i numeri speciali, a cadenza irregolare, riservati agli abbonati annuali o mensili che hanno deciso di sostenere il nostro progetto.

Se sei iscritto ma non abbonato, per leggere questo numero e gli altri EXTRA! disponibili sul sito puoi aggiornare il tuo profilo qui sotto, scegliendo una delle voci disponibili – si possono donare 5€ al mese; oppure 30€ l’anno e quindi 2,5€ al mese; oppure si può fare un’offerta libera annuale:

Abbiamo deciso di ricorrere agli EXTRA con più frequenza: per raccontarvi idee alle quali stiamo lavorando, per recuperare materiale d’archivio, libri che stiamo leggendo o per condividere con voi cose che pubblichiamo altrove.

In questo numero vi proponiamo una conversazione inedita con Luca Misculin, giornalista del Post e autore tra le altre cose di Mare aperto, un saggio uscito in queste settimane per Einaudi.

In questo numero leggerete di esperimenti sociali e isole inospitali, di piattaforme petrolifere e pirati poliglotti, di Giovanni Pascoli e Nazzareno Alessandro Micallef Garrett.


Il bacino del Mediterraneo corrisponde all’1% delle acque salate presenti sul nostro pianeta: anzi meno, lo 0,7%. Di quella percentuale Misculin ha considerato una sezione, quella del cosiddetto Canale di Sicilia, che bagna la Sicilia appunto e alcune sue isole, e Malta, Tunisia e Libia. Nei millenni il Canale è stato attraversato da un continuo flusso di scambi commerciali, di conquistatori e di vinti; oggi è una delle principali vie di arrivo dei migranti in Europa. Leggendo Mare aperto si nota come il tempo, il rotolo di millenni che ci separa dalle civiltà preistoriche e dalle loro canoe, dalla logistica fenicia al colonialismo fascista, non abbia accorciato le distanze: in un’epoca di sonde interplanetarie e fibre ottiche, quella porzione di centesimo è rimasta grande e grossa, infinita per chi deve percorrerla.

Nel tuo libro inizi dal mistero che circonda le prime prove di navigazione tentate da persone che, poco meno di diecimila anni fa, non sapevano dove stessero andando a finire, e dopo duecento pagine concludi raccontando di chi oggi segue la stessa tratta. Sono cambiati i tempi, ma la presenza dell’essere umano nel Canale sembra ancora un azzardo, un’anomalia. Sono cambiate però le cause e le conseguenze.

Questo libro è nato su un gommone dallo scafo semi-rigido, mentre alcuni membri dell’equipaggio di Medici Senza Frontiere stavano cercando di spiegarmi come si soccorre un corpo umano coi vestiti fradici (lo si prende per entrambe le ascelle, e si tira forte). Eravamo al largo di Malta, era una bella giornata di primavera e intorno a noi quasi non c’erano onde. Eppure all’orizzonte non si vedeva nulla che non fosse il mare o il cielo. Non si vedeva alcuna traccia di una presenza umana; barche, isole, elicotteri, rifiuti, niente.

Eppure ci trovavamo nel tratto di mare che da millenni è una sorta di collo di bottiglia obbligato per chiunque voglia attraversare il Mediterraneo da est a ovest, oppure lasciare un continente e raggiungerne un altro via mare, appena più a nord. Soltanto negli ultimi dieci anni almeno un milione di persone – ma è una stima per difetto – hanno percorso questo stesso pezzo di Mediterraneo, ma il loro passaggio era come se fosse invisibile, in quel momento. Molte fra loro sono scappate da torture, violenze, povertà estreme o situazioni indicibili: e si sono trovate di fronte un mare ostile, onde altissime, venti terrificanti e imprevedibili. Io, invece, mi stavo abbronzando; e come me migliaia di turisti sdraiati con la schiena al sole nei lidi sabbiosi a pochi chilometri di distanza.

È davvero raro trovarsi davanti a un mare così contraddittorio ed eterogeneo, quindi affascinante, come il Canale di Sicilia. E questa contraddizione così essenzialmente mediterranea – il Mare Nostrum tutto uguale da Trebisonda a Gibilterra non esiste – la troviamo ovunque ci giriamo, qui.

Lo sguardo di Mare aperto mi sembra condividere qualcosa con il nostro su MEDUSA, o almeno l’approccio alla complessità che tentiamo in questo nostro progetto. La tua ricerca ricostruisce gli strati che compongono l’oggetto di studio, e cioè il mare come sistema di interazioni tra specie, tra invenzioni artificiali e naturali, ecosistemi e protocolli di comunicazione. Come si riesce a risolvere questa operazione intellettuale senza ibernare il corpo vivo che si studia, senza togliergli l’anima e lo sporco?

È una bellissima domanda, e ti ringrazio per il paragone con MEDUSA. Forse risulterò pedante, ma l’unico modo per rendere un servizio a un posto del genere è studiarlo. Siamo pieni di libri sul Mediterraneo che non sono altro che grandi esercizi di stile: quanto ci piace, ancora oggi, riempirci la testa di questo mare totalmente estetizzato, di incontri misteriosi al bancone di un bar, nei quali uno sconosciuto dalla pelle un filo più scura della nostra, che mastica 5-6 lingue, ci porta in motorino in un anfratto della costa lontano dalla calca. Una scena che nelle nostre fantasie potremmo ambientare a Tunisi, a Marsiglia, o da qualche parte lungo la costa croata.

Tutti questi posti condividono dei punti di contatto, certo; ma non possiamo ignorare che ciascuno sia fatto a modo suo, che vada frequentato, capito, accolto anche nei suoi aspetti meno lusinghieri e tutti diversi l’uno con l’altro. Soltanto conoscendo a fondo entrambe queste facce, l’estrema somiglianza e l’estrema diversità, possiamo scegliere consapevolmente a quale delle due ispirarci per costruire il Mediterraneo del futuro. Altrimenti rimaniamo come quelli che quasi ogni anno candidano gli abitanti di Lampedusa al Nobel per la Pace. Nessuno che ha davvero frequentato Lampedusa per più di mezza giornata si sognerebbe mai di proporre una cosa del genere: e te lo dice uno che ama quell’isola come se fosse una seconda casa.

Anthropocene Observatory: Armin Linke | »Whirlwind«, Pantelleria, Italy, 2007 | © Armin Linke

“La dominazione normanna fu l'ultima, in ordine di tempo, a radunare tutto il Canale di Sicilia sotto la stessa entità politica. Da allora una barriera invisibile, fatta di confini tracciati sulla carta e nella testa delle persone, separa il Nord e il Sud del Canale di Sicilia. Da una parte la costa meridionale della Sicilia, Malta, le isole sperdute in mezzo al mare (Pantelleria, Lampedusa, Linosa). Dall'altra, le coste nordafricane. È una divisione umana e politica che in certi periodi è diventata una contrapposizione fortissima: fra Nord e Sud, Africa ed Europa, colonizzati e colonizzatori. Tutto, comunque, ha origine in quella frattura mai ricomposta fra mondo cristiano e mondo musulmano all'epoca delle guerre arabo-normanne: un conflitto che nei secoli successivi sarebbe degenerato, fino a sclerotizzarsi e sembrare apparentemente insanabile.”

Se tiriamo un bilancio dell'ultimo millennio, il Mediterraneo-barriera sembra vincere sul Mediterraneo-ponte. Quell’avverbio alla fine, “apparentemente”, a quali speranze si attacca? Quali storie e incontri ti hanno portato ad aggiungerlo?

Sono d’accordo, ma nel libro ho tenuto spesso a ribadire che non siamo condannati ad accettare passivamente che sia così, come magari piacerebbe a qualche esperto di geopolitica. L’altra faccia del Mediterraneo, di luogo ponte e crocevia accogliente di gente tutta diversa, la si trova un po’ ovunque, anche negli angoli meno illuminati della storia. A scuola non studiamo mai quanto la dominazione arabo-musulmana fece fiorire la Sicilia, e non soltanto città come Palermo – che diventò un centro aperto e cosmopolita come non era mai stato prima di allora – ma anche diverse altre aree interne, le stesse che oggi invece soffrono una progressiva marginalizzazione.

Alcuni degli esempi più luminosi di convivenza li troviamo proprio nel Canale di Sicilia: anche per questo, ho scelto di concentrarmi su questo quadrato di mare. Nell’età moderna per esempio Lampedusa diventò un covo di pirati internazionale, una zona franca in cui le regole della terraferma non valevano, e in cui gli equipaggi corsari cristiani e musulmani accettarono tacitamente di non combattersi a vicenda. Di più: siamo quasi certi che venerassero un santuario comune, una grotta distrutta qualche secolo più tardi dai bombardamenti Alleati, in cui un’icona della Madonna era appesa accanto alla tomba di un predicatore musulmano.

Per arrivare a esempi più contemporanei, sulle piattaforme che estraggono gas naturale e petrolio al largo della Libia lavorano da quarant’anni persone che

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