EXTRA! ENI
di Michele Galluzzo. Alla ricerca della vera identità del petrolio italiano, tra cani a sei zampe e camici bianchi.
Benvenuti, questo è un nuovo numero EXTRA! di MEDUSA, la newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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E ora: partiamo.
Siamo felici di ospitare un estratto da Logo in Real Life, il nuovo libro di Michele Galluzzo, che è graphic designer e ricercatore (ha tenuto corsi e seminari presso la ACCA Academy di Jesi, l’Ateneo di Architettura e Design di Ascoli Piceno, la CFP Bauer di Milano, lo IED di Torino, lo IUAV di Venezia, la NABA di Milano, il Politecnico di Milano e l’UNIBZ di Bolzano).
Logo in Real Life (Krisis Publishing) è “una storia sociale della visual identity”. È un lavoro che ha subito attratto la nostra curiosità, che si dedica con grande cura a una ricostruzione del rapporto tra loghi e massa, potremmo anche dire tra simboli e popolo. Uno scambio millenario, che offre innumerevoli punti di ingresso, ricordi di infanzia e epifanie urbane.
(Per chi è a Milano: il 16 gennaio, Nicolò, Valerio Coletta e Michele Galluzzo presenteranno il libro – alle 19:00 da Parco Gallery, Via Zuretti 35)
Già sulle argille mesapotamiche venivano impresse, e esposte nei mercati a cielo aperto, immagini di maschi muscolosi e femmine floride. I primi loghi sono nati con le prime civiltà agricole, e alla logica dei primi loghi è conseguita quella dei primi brand: il produttore inventa il proprio simbolo cercando di imporne il sortilegio, ma una volta esposto al mondo, il simbolo diventa di tutti. Chi produce non può controllarne la proliferazione, la distorsione, il boicottaggio. Chi consuma si prende il diritto, se lo cuce. Il logo diventa suo. È poca cosa, ma somiglia alla libertà.
Di tutte le storie raccontate da Galluzzo, abbiamo scelto di proporvi l’evoluzione dell’immagine coordinata di ENI, e al centro di questa il cane a sei zampe di Broggini. La bestia della realpolitik. Al cane drago non interessa piacerti, il nostro Paese senza di lui non gira. Senza di te, senza le tue idee e le tue speranze, sì.
Un’equipe di professionisti guarda dritto in camera con atteggiamento pacato. Alcuni di loro hanno le braccia conserte, altri le mani in tasca, quasi tutti uno sguardo serio, che trasuda professionalità. Che siano professionisti, d’altra parte, lo si può intuire anche da un dettaglio tutt’altro che secondario: indossano un camice bianco. Eppure non siamo in un ospedale.
Nella storia della grafica, tanto italiana quanto mondiale, alcune fotografie hanno assunto lo status di “landmark mnemonici”, istantanee particolarmente rappresentative di epoche, correnti o momenti chiave. Tra queste, vi è il celebre ritratto fotografico del team di lavoro dello studio Unimark International Milano, scattato nel 1966, appena un anno dopo la fondazione della firma internazionale a Chicago ad opera di sei partner: Ralph Eckerstrom, James Fogelman, Wally Gutches, Larry Klein, Massimo Vignelli e Bob Noorda. Proprio quest’ultimo, alla guida dell’ufficio milanese, appare al centro della foto di gruppo in questione, scattata da Aldo Ballo nella sede di via Santa Maria Fulcorina. Nell’immagine Noorda è circondato da una selezione di lavori realizzati e da alcuni membri dello studio, tra i quali Augusto Zanoni, Giovanni Galli, Mario Boeri, Luigi Losi, Rosanna Ottolina, Cristiano Sironi e Salvatore Gregorietti.
A rendere questa immagine particolarmente rappresentativa è anzitutto una scelta estetica che accomuna le figure ritratte: quella di indossare camici bianchi. Questo elemento corrisponde infatti a una dichiarazione d’intenti fortemente connotante l’identità stessa di Unimark. Le ragioni di questa scelta sono infatti tutt’altro che casuali, come conferma lo stesso Vignelli, intervistato sul finire degli anni Ottanta da Jan Conradi: «In Italia indossavamo sempre camici bianchi; dava un senso di unità. Mi piace – come in un ospedale; il senso di pulizia, di ordine, di disciplina e di unità. L’intero posto aveva un aspetto molto imponente, quasi come una clinica. Qui le persone tendono a vestirsi in modo sciatto, sportivo o come si vuole». Il camice bianco suggerisce quindi una volontà ben precisa: quella di controllare attentamente la propria rappresentazione agli occhi del pubblico, presentandosi come tecnici, come scienziati, chimici e medici, ovvero come un team di specialisti “puliti”, “ordinati”, “disciplinati”.
Al di là della scelta programmatica di Unimark International, la fotografia di Ballo è un indizio tangibile dell’evoluzione dello status del grafico all’interno del dibattito professionale. Nel periodo in cui Unimark viene fondata si assiste, in particolare in Italia, a un vivace confronto all’interno della pubblicità e del disegno industriale che vede buona parte dei grafici prendere le distanze dal settore della comunicazione commerciale intesa come cartellonismo e arte pubblicitaria, come pubblicità d’agenzia di stampo anglosassone e marketing-oriented, e infine come persuasione occulta, invadente e aggressiva nello spazio pubblico.
Con l’avvento della stagione della corporate identity, il panorama del design in Italia appare tripartito: da una parte, alcuni grafici italiani si sentono lontani dagli «strilli della vendita» e percepiscono una vicinanza metodologica e processuale con i disegnatori industriali; altri, invece, dubitano che la grafica faccia parte del disegno industriale, in quanto disciplina che ha a che fare principalmente con i media cartacei e dunque lontana dalla complessità del mondo in tre dimensioni; infine, ci sono figure che accolgono questa comunanza. Tra queste troviamo il critico Gillo Dorfles che, nel volume Introduzione al disegno industriale, prova a mettere fine all’annoso dibattito affermando che «Si potrà includere [nel disegno industriale] ogni progetto destinato ad una complessa operazione grafica, come quello della creazione di un marchio di fabbrica, d’un logotipo, di un’immagine coordinata riferita ad una ditta, ad un’impresa [...]». I grafici diventano dunque designer assumendo il ruolo di registi di sistemi complessi e attraverso lo sviluppo di una metodologia progettuale di stampo modernista e funzionalista. Alla luce di questa elevazione di status professionale, appare chiaro il valore simbolico della fotografia di Ballo per il gruppo milanese di Unimark: la figura del grafico come designer necessita di una rappresentazione clinica incorruttibile che si allontani quanto più possibile dal mondo artistico e si affacci a quello scientifico: non più cartellonista o disegnatore, ma problem solver riconosciuto e rispettato.
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Il bianco e il nero
Nel 1972, mentre Dorfles prova a mettere un punto fermo sulla questione dell’appartenenza della grafica al disegno industriale, Unimark International Milano lavora a un “new identity program” per AGIP, l’Azienda Generale Italiana Petroli. In questo momento, nel contesto italiano, AGIP rappresenta la principale compagnia operante nel settore petrolifero; ciononostante, come afferma lo stesso Noorda, «la sua immagine era inadeguata a esprimere queste realtà. Non esprimeva l’entità e la qualità dei servizi e soprattutto non poteva stare al passo con i piani di sviluppo dell’azienda» anche su scala internazionale.
Il progetto di rebrand e coordinazione dell’identità visiva firmato da Unimark per AGIP occupa lo studio milanese per circa dieci anni, in cui lo studio cura diverse pubblicazioni volte a coordinare l’identità visiva dell’azienda petrolifera, occupandosi di interventi di progettazione grafica, design del prodotto, architettura degli spazi interni ed esterni. Il progetto segue diversi step di avanzamento: dopo i primi manuali rilasciati a metà anni Settanta, nel 1982 gli elaborati editoriali vengono riprogettati in collaborazione con l’Ufficio Immagine e relazioni esterne dell’AGIP per far fronte alle nuove esigenze dell’azienda in espansione.
Il progetto, architettato da Unimark Milano all’inizio degli anni Settanta, vede l’introduzione di soluzioni ed elementi di rottura fortemente connotanti, tra cui il redesign del celebre “cane a sei zampe” disegnato originariamente da Luigi Broggini. Data l’estrema riconoscibilità associata al simbolo aziendale, Unimark Milano decide di preservare l’animale fantastico ridefinendone proporzioni e dimensioni e inserendolo all’interno di un quadrato con angoli arrotondati. Lo studio milanese estende inoltre la font concepita per il logo AGIP a tutta l’identità visiva e crea una serie di pittogrammi utili a guidare il flusso di autoveicoli e persone. Il lavoro svolto nella costruzione di una famiglia di pittogrammi e nello studio della segnaletica per le aree di servizio risulta particolarmente innovativo; ciò è dovuto anzitutto alla scelta di contrapporre ai «criteri meramente pubblicitari» con cui venivano concepite le aree di servizio fino a quel momento, un approccio funzionale e informativo per una fruizione immediata dei servizi offerti da AGIP, tra i quali ristoro, toilette e informazioni turistiche.
Tra i vari problemi che il team di lavoro guidato da Noorda si trova a dover fronteggiare vi è anche una questione legata alla percezione dell’inquinamento da parte degli utenti finali. Al fine di «rimuovere sul piano psicologico talune apprensioni legate all’uso dei carburanti e lubrificanti e ai fattori inquinanti del petrolio» Unimark ricorre in particolare a scelte di tipo cromatico, introducendo il colore bianco «per caratterizzare, insieme a una sottile fascia gialla, tutti gli automezzi aziendali, dalle auto di servizio alle grandi autobotti». Attraverso questa scelta è possibile notare come lo studio di progettazione stesse lavorando per influenzare la percezione che gli utenti finali avevano del marchio – quella che in gergo tecnico risponde al nome di corporate image – utilizzando il bianco per distogliere l’attenzione dal nero, che rappresenta l’inquinamento e il petrolio, per far sì che questa associazio- ne non scalfisse la solida immagine aziendale AGIP/ENI, da questo punto di vista coordinatissima.
D’altra parte, il contrasto tra bianco e nero viene sperimentato da Vignelli e Noorda già nei primi mesi dalla fondazione di Unimark International, in occasione del progetto per la segnaletica della metropolitana newyorkese commissionata nel 1966 dalla New York City Transit Authority. Come regolamentato dal Graphics Standards Manual pubblicato nel 1970, la segnaletica prevedeva originariamente la presenza di caratteri neri – realizzati inizialmente nella font Standard nonostante la preferenza di Unimark verso l’Helvetica – su fondo bianco. Questa scelta nel corso degli anni ha dovuto confrontarsi con un nascente fenomeno sottoculturale: l’hip hop e il writing metropolitano. Le plance bianche delle segnaletiche nel corso degli anni Settanta finiscono infatti per diventare superfici predilette per la scrittura dei nomi dei writer e per le sigle delle loro crew di appartenenza. A fronte di questo utilizzo imprevisto della segnaletica, l’autorità newyorkese scelse assieme ai designer di Unimark di invertire la scelta cromatica utilizzando così lettere bianche su fondali neri. Come racconta lo stesso Vignelli: «lo sfondo [...] [era] nero invece che bianco, per via dei graffiti». Anche in questo caso, l’opposizione tra bianco e nero finisce per assumere una connotazione simbolica: da una parte il rigore di Noorda e Vignelli, dall’altra la sottocultura hip hop; da una parte il bianco delle plance in acciaio smaltato, dall’altra il nero degli inchiostri indelebili e delle vernici spray.
Petrolio
Nello stesso periodo in cui il team guidato da Noorda lavora all’identità visiva AGIP, Pier Paolo Pasolini inizia a scrivere un libro che rimarrà incompiuto a causa del suo assassinio nell’autunno del 1975 e che, secondo diverse fonti, proprio a quell’assassinio potrebbe essere collegato: Petrolio.
Petrolio è un romanzo complesso che racconta, attraverso la storia di Carlo, ingegnere e dipendente dell’ENI, la trasformazione capitalistica dell’Italia dalla fine degli anni Cinquanta ai primi anni Settanta, la corruzione dello Stato italiano e il gioco sporco delle aziende nelle vicende politiche ed economiche del secondo dopoguerra. Ma il romanzo incompiuto di Pasolini approfondisce anche e soprattutto la figura di Eugenio Cefifis – che nel libro risponde al nome di Aldo Troya – che fu presidente ENI dal 1967 al 1971.
Il romanzo evidenzia la progressiva volontà da parte di Cefis, così come dell’ENI stessa, di influenzare l’opinione pubblica attraverso quello che Pasolini definisce «un oscuro spostarsi di pedine in un settore importante per un organismo di potere, statale e insieme non statale com’era l’ENI: il settore della stampa». Effffettivamente già nel 1953, su iniziativa di Enrico Mattei (presidente ENI dal 1953 al 1962), fu fondato il quotidiano “Il Giorno” con l’auspicio di supportare la linea politica ed economica portata avanti dall’Ente Nazionale, in questo momento ancora società pubblica controllata dal Ministero delle partecipazioni statali. Tuttavia, questo interesse verso la stampa prosegue e matura con l’arrivo di Cefis a capo dell’Ente Nazionale. Sotto la sua guida vengono infatti confermati gli investimenti pubblicitari di AGIP sui quotidiani nazionali attraverso campagne di comunicazione commerciale curate dall’agenzia Linea-Società Pubblicità Nazionale (LSPN), che in molti casi avevano come testimonial la celebre showgirl televisiva Raffaella Carrà.
Una delle fonti consultate da Pasolini per la stesura di Petrolio è il volume del 1972 Questo è Cefis: L’altra faccia dell’onorato presidente di Giorgio Steimetz (pseudonimo di Corrado Ragozzino, proprietario dell’Agenzia Milano Informazioni). Con toni meno romanzeschi di quelli di Pasolini, Steimetz denuncia apertamente l’ingerenza di ENI nella stampa periodica affermando che l’influenza dell’azienda arrivava spesso al «condizionamento pubblicitario nel calderone della Sipra e simili», addirittura sostenendo economicamente redattori e collaboratori di diversi organi di stampa nazionale.
La contestazione del rapporto tra ENI e la carta stampata passa anche per il celebre logo del “cane a sei zampe” che a partire dalla fine degli anni Sessanta viene modifificato in maniera imprevista nei contesti più disparati. Nel 1968 Gino “Gal” Galli, vice responsabile della Sezione centrale informazione e propaganda del Partito Comunista Italiano (PCI), realizza un manifesto intitolato Il cane a sei zampe abbaia ma non morde. Qui il cane di Broggini appare su fondo giallo con in grembo la prima pagina del quotidiano “Il Giorno”. Il poster di Gal, parte della serie La stampa dei padroni, vuole sensibilizzare i cittadini italiani proprio rispetto all’influenza dell’ENI sul settore della stampa periodica.
A ridosso della pubblicazione del primo manuale AGIP a firma Unimark, nel 1972, il collettivo di operai ENI dà alle stampe ENI: Petrolio e lotta di classe. L’illustrazione di copertina mostra il cane senza fiamma e con la testa sbalzata via da un pugno chiuso che proviene dall’interno del corpo del mam- mifero, simbolo del dissenso di parte degli operai comunisti.
Negli ultimi decenni, sono numerose le sigle ambientaliste ad aver fatto ricorso ad azioni di détournement del logo AGIP/ENI. Nella primavera 2023, l’associazione ambientalista Greenpeace Italia e ReCommon hanno lanciato la campagna “Giusta Causa”, denunciando a mezzo stampa e sui social network «l’enorme influenza» di ENI «sui media italiani grazie a finanziamenti, sponsorizzazioni e pubblicità infarcite di greenwashing».
D’altra parte, nel corso degli ultimi decenni, il logo AGIP/ ENI è stato utilizzato come strumento di controinformazione da numerose associazioni ambientaliste italiane e internazionali: tra queste, l’associazione italiana Legambiente ha utilizzato il carattere di ENI per sostenere che si tratta di “Enemy of the planet”; Rise Up 4 Climate Justice nel 2020 ha occupato la raffineria ENI di Porto Marghera mostrando striscioni e bandiere in cui il cane era associato alla parola “Killer”; Greenpeace ha recentemente pubblicato uno stencil in cui il marchio è accompagnato dalla scritta “Fake green” per denunciare Plenitude, il progetto di energia rinnovabile lanciato da ENI nel 2017; più recentemente, il cane campeggia in alcune grafiche rea- lizzate dal movimento Extinction Rebellion per la campagna #nonsiamoeni con un teschio al posto della testa.
Al di là di questa minima cronologia di loghi AGIP/ENI riappropriati al fine di contestare l’azienda italiana su differenti fronti, il cane a sei zampe nel corso degli anni è diventato un oggetto culturale spesso condiviso, menzionato, plagiato e riutilizzato in numerosi contesti. Esempi di queste “scoordinazioni” sono rintracciabili nel mondo della musica, dell’arte e del design degli ultimi trent’anni. Per citarne alcune, nella cover dell’album Azzazin di Muslimgauze – al secolo Bryn Jones – il cagnone si ammorbidisce e perde due zampe, mentre nel disco Super Bertè di Loredana Bertè acquisisce l’anatomia della cantante pop; più recentemente illustratori, artisti e grafifici come Aloha Project, Michele Papetti, Domenico Romeo per Burro Studio e Giuditta Aresi per il brand ANSIATM hanno realizzato differenti variazioni sul tema del logo AGIP riconoscendo nella sagoma del canide un’icona della cultura popolare.
Confrontando questa cronologia di appropriazioni con il tentativo di Unimark «di rimuovere sul piano psicologico talune apprensioni legate all’uso dei carburanti» o più in generale di coordinare l’immagine aziendale ENI nelle sue manifestazioni pubbliche emerge chiaramente il contributo del pubblico nello scombinare gli scenari auspicati dai designer in camice bianco e dai loro committenti.