DOMINIO
di Ferdinando Cotugno. Viaggio in un impero che non è in cerca di legittimazioni: un bollettino dalla Cina di oggi.
Benvenuti, questo è il numero centonovantuno di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
MEDUSA parla di cambiamenti climatici e culturali, di nuove scoperte e vecchie idee. Ogni due mercoledì.
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Oggi ospitiamo un reportage dalla Cina di Ferdinando Cotugno, giornalista che si occupa di ecologia, clima e politica. Per il quotidiano Domani cura la newsletter e il podcast Areale. Nel 2020 ha pubblicato Italian Wood (Mondadori), nel 2022 Primavera ambientale (Il Margine). Nel 2025 è uscito il suo primo romanzo: Tempo di ritorno. Una storia di clima e di fantasmi (Guanda). Ha redatto la voce «Diplomazia Climatica» dell’Enciclopedia Treccani. Scrive anche per Vanity Fair, Esquire, Rivista Studio, Lucy, Sole 24 Ore. Seguiamo da tempo il lavoro di Cotugno, che sentiamo vicino alle nostre ricerche, e siamo felici di ospitarlo su MEDUSA.
In chiusura l’unica certezza: i numeri della CABALA.
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In questo numero leggerete di QR code e tartarughe, di Cristiano Ronaldo e pace sociale, di Hong Kong e Chongqing, di Edward Norton e PCC.
La nuova sindrome cinese è questa frenesia febbricitante che ti manda a letto con la fronte che scotta, una sovrastimolazione pervasiva mescolata alla fluidità di movimento in tutte le operazioni che compongono la vita quotidiana. La user experience delle città cinesi è un movimento continuo tra l’infrastruttura digitale e i corpi, indice e pollice, touchscreen e servizio, niente deve mai fermarsi: non so se fosse questo che intendeva Mao come realismo e romanticismo rivoluzionario. Dalla prima volta che sono stato in Cina, la traduzione istantanea si è così perfezionata che sono riuscito a farmi curare un dito infetto in farmacia usando solo un traduttore. Non ho mai sentito la voce del mio salvatore, sembravamo due mimi in uno sketch surreale.
È incredibile come questo grande esperimento collettivo abbia potuto concepire forme così acute di solitudine: in questo paese con generazioni di figli unici non sposati, di genitori ancora giovani con decenni di vecchiaia davanti, da qualche parte un Hopper locale starà forse cercando di codificare l’estetica solitaria dei pasti cinesi, la filiera QR code, pagamento, servizio, consumazione con la faccia sempre a un millimetro dalla ciotola, e poi uscita, senza salutare e senza mai dover dire una parola. O starà studiando l’estetica dei rider negli ascensori, l’ultimo miglio della circolazione sanguigna di queste 160 città sopra il milione di abitanti (negli Stati Uniti sono solo undici, in Europa quindici). Una ragazza di nome Qingqing mi ha raccontato l’abitudine di tutti i suoi amici di ordinare su un’app la colazione prima di andare a dormire, per trovarla la mattina appena svegli sulla soglia di casa, consegnata da un fantasma per un fantasma. Nella sharing economy cinese lavorano settantotto milioni di persone. Ci sono più rider e autisti cinesi che italiani, spagnoli, francesi. Un Matrix che distribuisce noodle e passaggi in auto.
A un certo punto di questa estate ho attraversato la Cina, da Shanghai a Chengdu, poi giù attraverso la follia lucida di Chongqing, “la città più cyberpunk al mondo”, fino a Hong Kong, dal presente al futuro al passato. Ho usato quasi solo treni ad alta velocità. Ho fatto più di 4mila chilometri, e nemmeno un minuto di ritardo. Era la mia terza volta in Cina, la prima nel 2017, prima del Covid e del crollo morale dell’Occidente a Gaza, quando Trump sembrava ancora una parentesi e non un punto di arrivo, quando l’aria di Pechino era davvero irrespirabile e gli occidentali erano ancora una novità. Nel 2017 venivo fermato una decina di volte al giorno per scattare selfie con sconosciuti da caricare su We Chat, ora sarà successo una decina di volte in tutto il viaggio. Abbiamo smesso di essere una presenza eccezionale, non c’è più l’obbligo di visto per gli italiani, e il turismo è sempre la più sofisticata delle forme di propaganda. La Cina è il paese col più alto numero di giornalisti incarcerati al mondo, ma i content creator sono sempre più i benvenuti, anche quelli occidentali, soprattutto quelli occidentali.
Diventare ricchi
A fine viaggio mi trovo a scrivere le cartoline di fronte alla statua di Bruce Lee, sulla punta estrema di Kowloon, a Hong Kong, il passaporto è già timbrato. Sono ancora dentro la Cina, ma anche già fuori dalla Cina, sollievo e nostalgia. È stata appena emanata un’allerta tifone, la quinta del mese di agosto. La statua di Bruce Lee è anche una fontana, diventare acqua e così via, ma siamo in pochi a prestarle attenzione. A duecento metri invece c’è una folla con gli smartphone protesi verso il vuoto apparente. Le persone in Asia possono fotografare in massa cose bizzarre, invisibili, incomprensibili ai miei occhi. Allora chiedo, e me lo spiega una ragazza, usando la ricerca immagini su Google. Cristiano Ronaldo. Indica un puntino bianco che mi sembra corrispondere a una camicia indossata da qualcuno seduto di schiena al ventesimo piano del Regent Hotel. Cristiano Ronaldo. Certo. Guardo meglio, sul lungofiume è pieno di ragazze e ragazzi con la sua maglia numero sette, quasi tutti quella gialla della sua squadra saudita, l’Al-Nassr.
Hong Kong è la capitale mondiale della nostalgia, è l’ultimo dei monumenti al Novecento, alle sue incongruenze, alle sue mescolanze, rumore dei motori a scoppio, ristoranti dove si paga solo in contanti, gente che sfoglia giornali cartacei, il tassista che quando gli passi lo smartphone con l’indirizzo lo legge con una lente di ingrandimento che tiene accanto al volante. Anche quella dose di violenza di strada che la sorveglianza cinese oltre il confine continentale sembra aver completamente assorbito: la prima sera, nel primo bar, mazzate vere, sangue diluito nella pioggia perché ad agosto piove sempre, il secondo giorno una lite nel traffico che ero abituato a vedere crescendo a Napoli, botte contro il vetro per uno stop non rispettato. Dopo aver superato il confine, una volta passata la stazione di Shenzhen in treno, la sim cinese si è disattivata, il firewall è caduto, anche Whatsapp e Instagram sembrano residui nostalgici. Cose di una volta. Dopo settimane in Cina, puoi tirare il fiato, la tua user experience è finita, il tuo fascio di nervi, Alipay, We Chat, traduttori non serve più.
Diversi giorni prima. A Shanghai, al settimo piano di un palazzo di uffici, senza particolari indicazioni sulla strada, c’è un piccolo museo di sole tre stanze, un museo da appartamento. È una collezione di vecchi poster della propaganda cinese, soprattutto della Rivoluzione culturale, uno dei momenti più violenti nella storia cinese. Generazioni bruciate “dal fervore intossicato dal fascio di luce della Storia proiettata su di loro”. È una citazione dalla saga di fantascienza cinese Il problema dei tre corpi, che ho deciso di portare con me in viaggio invece di un libro dei sinologi italiani, congrega ormai esoterica e sapienziale, giornalisti ma anche medium, grazie a questa trasformazione della Cina nel paese più importante al mondo. Nell’ultimo pannello del museo c’è il lieto fine socio-economico di questa storia (dal punto di vista cinese). In mandarino e inglese si legge che tra il 1977 e il 1997, quando il sangue della Rivoluzione culturale aveva smesso di scorrere, “la Cina inaugurò una primavera di riforme e di apertura”. C’è anche scritto, letteralmente, che il popolo cinese “finalmente passò dalla fase della resistenza alla fase del diventare ricchi”. Nessuno va per il sottile, propaganda o no. E infine: “Guardando indietro alla storia di tutti questi poster, possiamo dire che ogni ideale al loro interno è stato realizzato”. Eterogenesi dei fini. D’altra parte, quando il film di Fight Club fu distribuito qui, la censura lo lasciò intatto ma fece riscrivere il finale: Edward Norton non fa più saltare in aria la città sulle note di Where is My Mind?, dicendo a Marla Singer la celebre“mi hai conosciuto in un momento strano della mia vita”. Prima di quel finale troncato, apparve invece una rassicurazione: la polizia scoprì il piano dei terroristi e arrestò tutti i criminali, impedendo gli attentati. Chuck Palahniuk con caratteristiche cinesi: la pace sociale vince sempre, siamo qui per fare soldi, non per soffrire delle vostre malattie della sazietà.
Negli anni ’70, il PIL procapite della Cina era inferiore a quello del Sudan o dello Zambia. Era uno dei paesi più popolosi del mondo, ma anche anche uno dei più poveri. L’ascesa della Cina è la più drammatica storia di sviluppo nella storia economica del mondo, almeno secondo lo storico dell’economia Adam Tooze. Dice che nessuna parabola di progresso in nessuna epoca regge il confronto. Nessuna. "Il più grande laboratorio di modernizzazione organizzata che sia mai esistito”. Oggi, 49 anni dopo la fine della Rivoluzione culturale, 32 dopo l’apertura della prima linea della metropolitana di Shanghai (quattro fermate), il PIL pro capite della Cina è considerato upper middle-income, alta classe media. Ha superato l’India, l’Indonesia, il Brasile, ha raggiunto il Messico. È sul punto di essere promossa tra i paesi ad alto reddito.
I cinesi sono diventati ricchi, con le turbe dei ricchi in arrivo (infelicità, insoddisfazione, solitudine). Come dicono i pannelli, “ogni ideale al loro interno è stato realizzato”. Come, a che costo, con che futuro, sono domande aperte, ma sono anche i problemi del benessere: in quattro decenni 770 milioni di cinesi sono usciti dalla povertà.
Il futuro si solidifica all’istante
La metropolitana di Shanghai da un punto di vista anagrafico è una millennial cresciuta in una famiglia povera e operosa: è nata gracile e senza prospettive nel 1993. Al volgere del millennio, sette anni dopo, era già di 62 chilometri, una bambina improvvisamente robusta, già più lunga di quella di Roma (sia di quella attuale, che di quella del 2000). Cinque anni dopo, con 118 chilometri, aveva superato Milano (sia quella attuale, che quella del 2005). Nel 2010, l’anno dell’Expo, aveva superato i 400 chilometri e con essi qualunque linea metropolitana occidentale, Parigi, Londra, New York. L’ultimo conteggio – nel momento in cui il mio abbonamento si forma virtualmente e spontaneamente sull’app Alipay per quella intersezione di geolocalizzazione, magia nera e sorveglianza che è l’infrastruttura digitale cinese – dice che è lunga 808 chilometri, si ferma in 508 stazioni e ha contribuito in maniera decisiva alla decentralizzazione della metropoli dal suo core ultra denso e prossimo al collasso.
Viaggiare al suo interno è il modo migliore per ricordarsi che a questo punto della faccenda stiamo assistendo alla “detronizzazione dell’occidente come motore centrale nella storia del mondo” (sempre Tooze). Volete vedere che aspetto ha la provincializzazione dell’occidente? Questo. Resta solo da capire se la Cina-paese-in-via-di-sviluppo (risulta ancora così nelle tabelle ufficiali delle agenzie ONU) sia una comoda finzione geopolitica per lucrare vantaggi sul commercio o le riparazioni climatiche, come si dice da noi. Oppure se, come scrive sull’Economist Wang Yiwei, docente di relazioni internazionali, “lo Sviluppo è un’identità politica permanente. La legittimità del Partito Comunista Cinese deriva dalle ricchezze che devono ancora arrivare. Una volta che sei ‘sviluppato’, allora è già iniziato il tuo declino”. Sbam. Ma non è nemmeno solo questo. È successo tutto così velocemente che la Cina è rimasta ancora un paese dai modi e dalle abitudini arcaiche, anche nelle sue città più moderne e internazionali. Qualche indizio.
Vedo un animale appeso a una canna attaccato al sellino di una bici HelloBike, uno dei servizi di bike sharing più usati a Shangai (dove galleggiano 1,7 milioni di bici condivise). È una tartaruga, sembra impiccata ma è ancora viva, non è l’unica intorno al perimetro del Tempio di Giada di Shanghai. Ci guardiamo, io e il venditore. Non sono il suo cliente tipo, la mia faccia porta un carico di giudizio e fastidio; qui si fanno affari, fa caldo, vattene, ho da fare. Penso alle zoonosi, alle nuove pandemie e i prossimi libri di David Quammen ma, grazie a un po’ di lavoro col traduttore automatico, scopro che la tartaruga non è in vendita per essere mangiata, e non è la nuova candidata allo spillover. Viene venduta per essere liberata all’interno del tempio, è un gesto portafortuna: liberare un animale vivo come piccolo giubileo privato. Poi probabilmente sarà nuovamente catturata dallo stesso venditore e nuovamente venduta, economia circolare apotropaica. Poco dopo un mendicante si avvicina – nelle città cinesi sono una rarità – ha un QR code appeso al collo: avvicini Alipay al suo cuore e fai una donazione. Se gli lasciassi dei contanti, che non ho, non saprebbe nemmeno dove spenderli.
I grattacieli di Pudong si ammirano meglio dall’altra riva del fiume Huangpu, quella che si chiama Bund. Il nome fu dato dagli occidentali, è la parola persiana e hindi per “riva”. Il Bund, al tramonto, è pieno di turisti: per questioni strettamente demografiche, l’overtourism cinese raggiunge in fretta scale visivamente impensabili: che si tratti di panda o templi, preparatevi alle file più lunghe, disordinate e selvagge della vostra vita. È una delle verità chiave del ventunesimo secolo: un turista cinese non si ferma davanti a niente. Nessuno, a parte i pochi occidentali, si chiederà: stiamo facendo la cosa giusta? Dovremmo essere da soli in una valle isolata invece che in mezzo a tutta questa gente? La Cina, insieme alla povertà, ha sradicato anche il senso di colpa: mangiano, viaggiano, consumano. Il rimorso non è ancora arrivato. I poliziotti indirizzano il traffico umano sul Bund, da un lato si entra, dall’altro si esce, la maggior parte sono turisti interni, venuti a vedere lo spettacolo di se stessi. Non cercano rovine, memoria o eredità, preferiscono fotografarsi di fronte al futuro. I più belli sono i vecchi, nati negli anni ’40 e ’50, diventati adulti nella Cina povera come lo Zambia o il Sudan, e che ora si guardano intorno e si chiedono: come è successo tutto questo? Quando? I nipoti li mettono in posa, guarda qui, nonno, sorridi, sei nel futuro.
Anche i nonni devono vivere nell’infrastruttura digitale. Nessuno è esente. Essere senza connessione nelle città cinesi è una forma di disabilità pressoché totale Non è ammesso nessun digital divide, non si compra nemmeno una bottiglia d’acqua o un tè verde. Nel mercato di Chengdu cerco di capire con cosa è fatta una bevanda bianca che sembra il succo di canna da zucchero che avevo bevuto a Singapore; dal traduttore passiamo a DeepSeek, l’app di intelligenza artificiale che ha sconvolto il mondo per la ferocia del suo risparmio energetico. Era una questione esistenziale: la sua penetrazione in un popolo senza digital divide è stata istantanea, se avesse avuto i consumi di ChatGPT il sistema non avrebbe retto.
Ora tutti concordano sul fatto di non ricordare come fosse la vita prima di DeepSeek. A chi chiedevamo le cose? Già. A chi? Solo che DeepSeek è arrivata nel gennaio del 2025. Questo è un paese di oltre un miliardo e quattrocento milioni di persone dove il futuro si solidifica all’istante. Provare a pagare con una carta di credito è come entrare in un bar di Milano e tirare fuori un libretto di assegni per il cappuccino. Nel 2009, quando ci furono le rivolte in Xinjiang, il governo cinese tagliò internet alla provincia ribelle per un anno. Come scrive Jan Chipchase, oggi al Partito comunista cinese non passerebbe più per la testa di togliere Internet come forma di controllo. Internet è il controllo.
Uno stato ingegnere
È un problema complesso: ho attraversato il confine cinese senza alcun pensiero o preoccupazione. Se fossi atterrato a New York avrei cancellato i social dal mio telefono e avrei comunque avuto il terrore che un funzionario mi cercasse su Google e mi arrestasse per qualche articolo su Trump: ci sono centinaia di casi nell’ultimo anno, superare il confine USA è diventato un’effrazione. Eppure, ci sono stati diversi momenti in Cina in cui mi sono sentito apertamente sorvegliato, una sensazione epidermica, tattile. Sull’unico aereo che ho preso sono stato apertamente filmato da una funzionaria in divisa. Con il rallentamento dell’economia e il peggioramento delle prospettive esistenziali, economiche, professionali per le nuove generazioni, la pace sociale si sta incrinando. La Cina sta nascondendo i dati sul calo della crescita. Il Partito Comunista può manomettere le statistiche, per occultare le conseguenze dello scoppio della bolla immobiliare o delle guerre commerciali, ma non può farlo con la sensazione che non tutti i giovani cinesi sono invitati alla festa. È ancora un paese con prospettive brillanti per le persone brillanti, ma che fa paura a tutti gli altri. Lo senti nelle conversazioni, e avverti sottile nell’aria il vento del pessimismo dopo la grande sbornia. La repressione sta tornando a essere paranoica e arbitraria, come ha scritto il corrispondente da Pechino dell’Atlantic.
Per chi l’attraversa per qualche settimana, l’autocrazia cinese è allo stesso tempo visibile e invisibile. Il Great Firewall cinese è una finzione riconosciuta più o meno da chiunque, i locali e i bar delle città hanno spesso una pagina Instagram, le VPN sono di un’efficienza tale che tendi a dimenticare di starle usando (tranne quando ti accorgi quanti dati e batteria consumano). I cinesi preferiscono WeChat perché è più comodo e familiare, perché dell’Occidente c’è sempre meno da scoprire, e perché il vero firewall è il fatto che qui nessuno parli inglese, il monolinguismo come ingegneria sociale.
Nel suo nuovo libro Breakneck. China’s Quest to Engineer the Future, lo studioso sino americano Dan Wang ha dato una lettura interessante a quello che ho visto nelle mie settimane tra Shanghai, Chengdu e Chongqing: la Cina è uno stato ingegnere, che si è messo in testa di progettare il futuro costruendo fisicamente delle cose. Auto, strade, treni, ponti, centrali energetiche. Fa fatica ad abbinare a questo un appeal internazionale perché gli ingegneri non sono narratori abili e tendono a sorvolare su quello che non capiscono. Lo stato cinese procede in modo razionale, logico, senza badare troppo alle affabulazioni.
Prima di partire mi chiedevo: che storia ci vuole raccontare oggi la Cina? La domanda che mi sono trovato a ripetere ogni giorno, una volta lì, è stata invece: la Cina ci vuole raccontare una storia? Nel 2015, Xi Jinping fece un discorso a Seattle, parlando del “sogno cinese”, confrontandolo con quello americano. Ci sarebbero tanti modi di confrontarli, e c’è una letteratura accademica sul tema, ma se volessimo fare una sintesi: il sogno cinese è il sogno di una nazione, il sogno americano è il sogno degli individui. Il sogno americano ha come presupposto che il governo non intralci, il sogno cinese è il sogno del governo cinese e del Partito comunista cinese.
Un’altra differenza è che la Cina sarà anche maestra della propaganda, ma non cerca di convincerci di nulla, la sua proiezione culturale è ancora microscopica rispetto a quella economica e politica. Non esiste una Hollywood cinese, non conosciamo star cinesi, non ascoltiamo canzoni cinesi, non seguiamo sport cinesi, non facciamo giochi cinesi. Compriamo prodotti cinesi: Huawei, BYD, Xiaomi, Lenovo, Hisense. Un dominio commerciale e tecnologico che non è in cerca di legittimazioni. Le egemonie asiatiche arrivate prima - quella giapponese, quella sudcoreana - avevano provato a costruire delle storie di sé: con Sony c’erano Miyazaki e gli anime, con Samsung c’è stato il k-pop e il k-drama. Il sogno americano e i suoi derivati parlavano agli individui, quello cinese parla alle nazioni. Non ha niente di specifico da dirci, esiste su una scala semplicemente più vasta per essere percepito o comunicato con una canzone o un film. È anche per questo che non riusciamo a capirlo: perché ci illudiamo ancora di esserne interlocutori.
A Shanghai vivono circa 21.909.814 persone.
A Pechino vivono circa 18.960.744 persone.
A Shenzhen vivono circa 17.444.609 persone.
A Guangzhou vivono circa 16.096.724 persone.
A Chengdu vivono circa 13.568.357 persone.
A Tianjin vivono circa 11.052.404 persone.
A Wuhan vivono circa 10.494.879 persone.
A Dongguan vivono circa 9.644.871 persone.
A Chongqing vivono circa 9.580.819 persone.
A Xi'an vivono circa 9.392.938 persone.
Queste sono le prime 10 città cinesi per popolazione: sopra il milione di abitanti ce ne sono altre 150 circa.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 425,24 ppm (parti per milione) di CO2.







