CINGHIALI
di Camilla Capasso. Palestina, America, Australia: storie di animali e di piante usati come armi nei processi di occupazione coloniale.
Benvenuti, questo è il numero centottantasei di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero ospitiamo un articolo di Camilla Capasso, scrittrice e consulente di comunicazione che si occupa di accesso alla terra, sicurezza alimentare e cambiamenti climatici per organizzazioni internazionali e che lavora, sugli stessi temi, per Ong e agenzie delle Nazioni Unite. Per i Quanti Einaudi ha da poco pubblicato Non le solite conversazioni da bar. Voci dalla filiera del cibo (2025).
In chiusura l’unica certezza: i numeri della CABALA.
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In questo numero leggerete di latte vaccino e pini spaesati, di Australia e Cisgiordania, di murnong e terra nullius.
Lo scorso aprile, un camion militare israeliano è entrato a Iktaba, una cittadina nel nord della Cisgiordania. Si è fermato poco lontano dal campo profughi di Nour Shams e ha liberato diciotto cinghiali per le strade di un complesso residenziale. Hoda Habayeb, che quel giorno si trovava lì, ha raccontato di aver visto i cinghiali invadere le vie del suo quartiere e spaventare a morte i residenti, tra cui molti bambini che in quel momento giocavano all’aperto.
Prima di quel giorno Hoda non aveva mai visto un cinghiale. Semplicemente - ha spiegato ai giornalisti accorsi sul posto - perché a Iktaba non ce ne sono. Il significato dietro quel gesto da parte dei militari israeliani, però, le è sembrato fin da subito chiaro: terrorizzare i residenti e impedire alla popolazione sfollata di fare ritorno nel campo di Nour Shams, già ampiamente distrutto dalle forze armate.
Non era mai successo prima che l’esercito usasse i cinghiali in quel modo, lì, ma la strategia in sé – quella di usare gli animali come forma di pressione – non è nuova. Negli anni, i coloni israeliani hanno più volte liberato branchi di cinghiali nelle campagne palestinesi, distruggendo i raccolti e costringendo intere famiglie ad abbandonare le proprie terre.
Impiegare animali - e piante - come armi nei processi di occupazione è una pratica storicamente diffusa, ma per lo più sottovalutata. Per secoli, le potenze coloniali europee hanno imposto mandrie e colture, sradicando piante spontanee e cancellando pratiche agricole tradizionali considerate selvagge o poco produttive. Non si trattava solo di occupare la terra, ma anche di ridisegnarne il senso: addomesticare il paesaggio, imporre un ordine.
Nel suo studio Animal Colonialism: The Case of Milk, Mathilde Cohen racconta come la presenza di animali – e di alcuni prodotti derivati – sia stata centrale nei processi di conquista coloniale. Dalle prime mucche importate a New York dai coloni olandesi, alle pecore e i bovini sbarcati in Australia e Nuova Zelanda con gli inglesi tra il Settecento e l'Ottocento, le nuove specie introdotte hanno spesso segnato una trasformazione radicale dell’ecosistema e delle abitudini alimentari locali, ma anche della relazione tra popoli e territori.
Se inizialmente questa pratica rispondeva soprattutto all’esigenza di nutrire i coloni e creare economie familiari in territori sconosciuti, Cohen osserva che alcuni prodotti di origine animale – in particolare latte, cuoio, pellicce, lana e seta - sono serviti anche a veicolare valori legati all’identità europea e alla sua idea di civiltà. La loro diffusione nelle colonie rispondeva quindi alla necessità di imprimere sulle nuove terre una impronta culturale che riflettesse quella della madrepatria, prendendo il più possibile le distanze dalle pratiche, dai saperi e dai gusti delle popolazioni indigene.
La storia del latte, in questo senso, merita una piccola digressione. Al di fuori dell’Europa, di alcune aree dell’Asia Centrale e di specifiche regioni africane, il consumo di latte vaccino era pressoché sconosciuto prima del XV secolo - lo dimostra il fatto che circa il 70% della popolazione mondiale sia tuttora intollerante al lattosio.
L'imposizione del consumo di latte si porta dietro, storicamente, la volontà di affermare modelli euro-americani di salute e civiltà come standard universali. In Colorado, nei primi decenni del XX secolo, l’Office of Indian Affairs - l’ente federale incaricato della gestione dei territori nativi negli Stati Uniti - iniziò a promuovere il latte come alimento fondamentale per migliorare la salute della popolazione indigena Mohave, ridurre la mortalità infantile e combattere la tubercolosi.
Le autorità attribuivano l’alto tasso di mortalità tra i Mohave alla loro stessa natura, definendoli “volontariamente ignoranti e irrimediabilmente pigri” proprio perché si rifiutavano di consumare latte vaccino e di darlo ai propri figli. Questa forma di imposizione alimentare, a tutti gli effetti coloniale, portò alla sostituzione della dieta tradizionale dei Mohave con prodotti lattiero-caseari. I Mohave, però, che erano per lo più intolleranti al lattosio e seguivano una dieta tradizionalmente vegetale, avevano problemi a digerirli. Non solo, i prodotti a base di latte veicolavano spesso batteri patogeni, mettendo ulteriormente a rischio la loro salute.
Più recentemente, in Perù, alcuni programmi di aiuto alimentare sono finiti sotto i riflettori per motivazioni non troppo dissimili: aver distribuito latte a comunità indigene, come gli Asháninka, nonostante l'elevato livello di intolleranza al lattosio tra la popolazione.
Considerato un simbolo universale di salute, civiltà e progresso, il latte è stato più volte utilizzato come strumento di standardizzazione culturale, espressione di una visione del mondo che disconosce e svaluta qualunque altra pratica nutrizionale. La campagna portata avanti negli ultimi mesi da Robert F. Kennedy Jr. – segretario alla salute USA – sulla necessità di tornare a bere latte non pastorizzato negli Stati Uniti si muove su binari molto simili e altrettanto pericolosi.
Ma questa è un’altra storia, torniamo ai coloni.
Nei secoli, l’introduzione di animali in nuove zone di conquista avvenne, come detto, per questioni principalmente culturali. Con il tempo, però, la crescita delle mandrie rese necessaria l’occupazione di porzioni sempre più ampie di territorio: più animali possedevano i coloni, più terra avevano bisogno di occupare.
A fornire la giustificazione legale a questa espansione fu il concetto giuridico di terra nullius - terra di nessuno - che definiva come disponibili alla colonizzazione quei territori ritenuti vuoti, inoccupati o non adeguatamente sfruttati secondo criteri europei. L’introduzione di bestiame serviva in gran parte a rafforzare l’idea che allevare animali rappresentasse, insieme all’agricoltura, l’unico modo legittimo e civilizzato di utilizzare e possedere la terra.
Il principio di terra nullius venne impiegato sistematicamente durante l’espansione coloniale europea per negare la sovranità delle popolazioni indigene. Non possedendo la terra secondo i parametri legali europei, le popolazioni locali non avevano alcun diritto su di essa.
In Australia, dichiarata terra nullius dagli inglesi nel 1778, tale principio rimase in vigore fino al 1992, quando la sentenza Mabo v. Queensland riconobbe per la prima volta i diritti fondiari originari degli aborigeni, smantellando definitivamente il concetto giuridico sul quale si era basata l’intera storia coloniale del Paese. E proprio in Australia gli effetti dell’introduzione forzata di animali furono particolarmente evidenti. La proliferazione incontrollata del bestiame, inizialmente lasciato allo stato brado, rappresentò un momento cruciale nella conquista coloniale: legittimò nuove occupazioni e trasformò radicalmente l’equilibrio ecologico e culturale delle terre aborigene.
Nell’area oggi occupata da Sydney, ad esempio, le mandrie si stabilirono in territori gestiti dalle comunità Dharawal danneggiando risorse fondamentali come il murnong, un tubero alla base dell’alimentazione tradizionale della popolazione. L’aumento del bestiame contribuì all’espropriazione definitiva delle terre indigene e alla riscrittura del paesaggio secondo la logica coloniale. Ben presto, la zona fu ribattezzata Cowpastures (pascoli delle mucche), un nome che legittimava in qualche modo la presenza del bestiame in un paesaggio che non aveva mai ospitato animali di quel genere prima dell’arrivo europeo. Anche l’organizzazione dello spazio urbano ne fu influenzata: la necessità, in un secondo momento, di contenere gli animali, modellò la disposizione di strade, recinzioni e insediamenti di quella che più tardi sarebbe diventata la città di Sydney.
Ma questa storia non riguarda solo gli animali: piante, fiori e alberi hanno a loro volta un ruolo. Sono, anzi, alcuni dei protagonisti principali. A metà tra realtà e leggenda, la storia di Johnny 'Appleseed' Chapman è un buon punto di partenza per capire come le piante siano state usate nei processi coloniali, e qual è il racconto che è stato fatto, storicamente, di queste vicende. Nato in Massachusetts, figlio di un veterano della Rivoluzione Americana, Johnny partì diciottenne alla scoperta del West portando con sé una borsa di cuoio piena di semi di mele, una coltura importata dal Vecchio Continente e ancora poco conosciuta negli Stati Uniti. Ovunque trovasse terra libera, piantava meleti. Contrariamente alla leggenda, però, che descrive Johnny Chapman come una specie di San Francesco americano (Walt Disney ci fece addirittura un film d'animazione nel 1948) , la sua impresa era tutt’altro che ingenua: Johnny sceglieva con cura dove piantare, seguendo una logica economica ben precisa. Avviato un meleto, proseguiva verso nuove terre, piantava altrove e, con il tempo, tornava ai meleti ormai maturi per vendere il terreno ai coloni in arrivo. Secondo il sistema legale dell'epoca, infatti, piantando le sementi su terreni non reclamati, Johnny ne assumeva la proprietà: i suoi meleti erano strumenti di appropriazione fondiaria tanto quanto le mandrie di bovini in Australia. Eppure, grazie a una narrazione superficiale e distorta, oggi Johnny “Appleseed” Chapman è per lo più ricordato come il primo ecologista della storia.
Nella loro ricerca sulla botanica coloniale, Ros Gray e Shela Sheikh sostengono che la storia coloniale delle piante sia segnata da un doppio movimento: da una parte l’estrazione delle piante dai loro habitat originari, ma anche delle conoscenze e delle pratiche che le accompagnavano; dall’altra la cancellazione di quei saperi ecologici locali che le avevano rese parte integrante di un territorio.
La scienza botanica, attraverso strumenti come la nomenclatura latina, ha cercato di universalizzare il modo in cui comprendiamo la vita vegetale. Ma nel contesto coloniale, questa universalizzazione ha significato spesso l’annullamento di altri modi di conoscere. Cancellando il nome locale e sostituendolo con quello latino, spariva anche quel mondo di significati, relazioni e pratiche che legava la pianta a una comunità.
Nel XVIII secolo, le spedizioni botaniche, la raccolta di esemplari e il loro trasferimento su scala globale diventò un vero e proprio business. Figure come William Jackson Hooker, direttore del giardino botanico Kew Gardens di Londra tra il 1841 e il 1865, coordinavano una rete mondiale di raccoglitori incaricati di scoprire nuove specie vegetali. Una volta riportate in Europa, queste piante venivano ridistribuite nelle colonie per alimentare l’economia delle piantagioni.
È il caso, ad esempio, dei semi dell’albero della gomma che, importati illegalmente a Londra dal Brasile, finirono per essere utilizzati dagli inglesi per trasformare vasti terreni nelle colonie britanniche del Sud-Est asiatico in piantagioni di gomma. All'inizio del XX secolo, la Malesia britannica (oggi Singapore e la penisola malese) divenne il più grande produttore di caucciù al mondo [qui, una MEDUSA sulla storia e le implicazioni della gomma vegetale].
Per sostenere queste piantagioni servivano terra e manodopera a basso costo: le foreste, giudicate improduttive secondo la logica dei conquistatori, vennero disboscate, mentre migliaia di lavoratori furono reclutati dalle colonie britanniche in India. Il disboscamento stravolse gli ecosistemi locali, aprendo la strada a gravi squilibri ecologici. Nelle aree bonificate, un tempo coperte da foresta vergine, si svilupparono alcuni dei focolai di malaria più gravi al mondo: la scomparsa della copertura vegetale aveva infatti creato un ambiente ideale per la proliferazione delle zanzare, mettendo a rischio proprio la salute di chi lavorava nelle piantagioni.
Esempi come questo abbondano. In Tanzania, prima i tedeschi e poi gli inglesi importarono l’eucalipto australiano per rispondere alla scarsità di legname, senza considerare l’enorme quantità d’acqua necessaria a farlo crescere. Nel tempo, questa scelta contribuì al prosciugamento dei suoli - già tendenzialmente aridi - alterando profondamente la stabilità degli ecosistemi locali.
In Israele, a partire dal 1948, vennero abbattuti centinaia di ettari di vegetazione nativa, in particolare olivi, per fare spazio a pini europei, ritenuti più “ordinati” e coerenti con l’estetica forestale continentale. Questa riforestazione selettiva, sostenuta anche dal Fondo Nazionale Ebraico, aveva obiettivi ancora una volta chiari: europeizzare il paesaggio, cancellare la memoria agricola palestinese e rafforzare il controllo politico sul territorio. Che si tratti di cinghiali o di pini, la logica resta la stessa: usare la natura come strumento di dominio.
Negli ultimi anni, con l’aumento delle temperature e la crescente instabilità climatica, i pini israeliani hanno cominciato a prendere fuoco. Più infiammabili delle specie autoctone, questi alberi, piantati per riscrivere il paesaggio e la memoria di quei luoghi, oggi bruciano con disarmante facilità.
Come le zanzare che proliferarono laddove un tempo c’era foresta, anche i roghi di pini ci ricordano che gli ecosistemi non possono essere sfondi passivi da dominare secondo una visione culturale. Come chi li abita, anche loro – prima o poi – reagiscono, resistono, collassano, a volte si ribellano.
Secondo un nuovo rapporto della Wildlife Friends Foundation Thailand e dell'Oxford Wildlife Trade Research Group, rispetto al 2018 il numero di leoni in cattività è più che triplicato.
I prezzi dei cuccioli di leone in Thailandia partono dai 5.000 dollari. I cuccioli bianchi possono raggiungere i 15.000 dollari.
Mantenere un leone richiede fino a 10 kg di carne fresca al giorno.
Il giro d’affari, in Thailandia, supera il milione di dollari all'anno.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 430,01 ppm (parti per milione) di CO2.