CAPRE
di Matteo De Giuli. In questo numero leggerete di Wilcock e di Ittiti, di filosofi moderni e di automi arabi, di siccità e microfossili.
Benvenuti, questo è il numero centotrenta di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di Wilcock e di Ittiti, di filosofi moderni e di automi arabi, di siccità e microfossili.
Quasi tutti i grandi scrittori parlano bene, così come scrivono, senza inciampi, con stile. Io non ho mai imparato a parlare in pubblico, e anche in privato spesso biascico, non trovo le parole, mi perdo nei discorsi, allora mi consolo cercando le eccezioni, che pure ci sono state nella storia, di grandi scrittori pessimi oratori. Per esempio Natalia Ginzuburg che, nelle interviste, soprattutto da giovane, è esitante, a volte asfittica, il contrario della sua scrittura. Oppure Elsa Morante che prima di sottrarsi per sempre alla televisione rispose a una domanda di prassi, nel 1957, alla vittoria del Premio Strega: dice poche cose superficiali sull'Isola di Arturo tenendo costantemente lo sguardo basso, e questa è l'unica testimonianza della sua voce presente negli archivi Rai.
Qualche tempo fa ho visto un lungo speciale su Juan Rodolfo Wilcock, girato nel 1973. Come Ginzburg e Morante, Wilcock è stato uno degli scrittori più intelligenti del suo secolo. Era nato a Buenos Aires, visse a Roma, morì in un paese in provincia di Viterbo. Tradusse e scrisse, in italiano, poesie, romanzi e racconti. I suoi libri sono parodie disinvolte e impudenti, finzioni, mistificazioni, invenzioni letterarie. In prosa scrisse soprattutto frammenti, profili assurdi di uomini insolitamente folli o rivoltanti. La sinagoga degli iconoclasti, Lo stereoscopio dei solitari, I due allegri indiani... (tutti per Adelphi, in Italia). Per innamorarsi della sua scrittura esilarante, del suo umorismo nero, spietato, insofferente alla retorica e al conformismo, basta sfogliare Il libro dei mostri, dove ogni racconto, breve o brevissimo, è la vita di qualche metamorfico personaggio intrappolato in una crisi esistenziale. Questi sono alcuni degli incipit perfetti di quel libro:
Zulemo Moss
Il signor Zulemo Moss è mal ridotto: si è ridotto infatti un portacenere di legno, rotondo, capiente, facile da pulire – basta una passata sotto il rubinetto – ma senza ambizioni, senza prospettive. Ciò l'ha reso cattivissimo.
Cap. Luiso Ferrauto
Una volta all'anno, in primavera, il capitano Luiso Ferrauto cambia pelle; dalla pelle vecchia emerge lustro e roseo come un neonato, ma dopo poche ore la pelle nuova riacquista il suo colore normale, che è olivastro, e pure i capelli, che se ne sono andati con lo scalpo del cranio, ricrescono in fretta, come si addice a un ufficiale della Pubblica Sicurezza.
Primio Doppo
Da quando è giunta ai giornalisti la notizia che il signore Doppo Primio, falegname di Vetriolo, prov. di Viterbo, faceva le uova, non gli hanno più dato pace: vogliono sapere che cosa nasce da queste uova.
Fulvia Net
È abbastanza evidente che Fulvia Net è in avanzato stato di putrefazione, eppure come si spiegano i suoi successi, non soltanto con gli uomini?
Cav. Bellestar
Il Cavaliere del Lavoro Bellestar non si chiama in realtà Bellestar: Bellestar era il nome della ditta, ma tutti chiamavano Bellestar anche lui e così si fece cambiare il cognome per via legale.
Memmo Gaibisso
Il suocero di Lina Gaibisso è un'illusione ottica; come tale non dà nessun fastidio, anzi procura divertimento agli ospiti, quando ogni altro argomento è esaurito.
Eperone Stup
Non si capisce per quale motivo Eperone Stup sia così fanatico sostenitore delle Brigate Anarchiche, quando nessuno, né nella comunità né in famiglia, gli dà alcun fastidio.
Wilcock scriveva così. Come parlava invece? La trasmissione del '73 inizia con una carrellata sulla periferia est di Roma. Vengono mostrati gli acquedotti, le mura, qualche baracca, la campagna. Poi la troupe arriva a casa Wilcock, una villa che è più che altro una stamberga circondata da un piccolo giardino. Siamo in una delle viette attorno a Porta Furba, tra il Mandrione e Capannelle, anche se è impossibile riconoscere oggi il luogo esatto perché di lì a poco la città sarebbe cresciuta come un incendio, riempendosi di palazzoni.
Wilcock parla senza energie, quasi fosse pentito di aver concesso l'intervista. Ma il suo scazzo, la sua posa sublimemente altezzosa, contrasta malamente con la modestia dell'arredamento e con i vestiti laceri che porta. Nel video è sempre coricato, è disteso sul letto o su una poltrona, oppure fuori, per terra, accanto a un cactus, o sul declivio di una collina. Viene intervistato su tutto, la poesia, la civiltà letteraria, la traduzione, la scienza e la fantascienza, e a tutto risponde con un flusso scompigliato di pensieri, in italiano, con una cadenza argentina innestata di ciancicate romane. A un certo punto la voce fuoricampo del giornalista gli chiede: "Per lei il perfezionamento di uno scritto, le correzioni sono importanti?". E lui:
No, è importante per gli scrittori mediocri come me. Cioè che tendenzialmente parlano troppo e scrivono troppo, eh... facilmente. Ma ci sono delle persone che parlano bene, pensano bene e scrivono bene, come per esempio Borges, no? Ma ci sono altri esempi, per esempio Milton. Quando era cieco di notte lui faceva venti, ventun endecasillabi o righe o come chiamarli. E dopo al mattino lo dettava alla sorella. Perché? Perché la correzione stava nel farlo, cioè già era tutto corretto quello che gli veniva fuori. Invece la gente scrive come altri disegnano. Ci sono persone che disegnano naturalmente molto bene, come Picasso, che sempre ha disegnato perfettamente. E altri che hanno importanza come pittori, che però non disegnavano tanto bene. E che devono correggere i loro disegni. [Da qui si lancia in una piccola digressione sull'arte, che saltiamo. Poi ritrova il filo]. Quelle persone che disegnano così un po' sfilacciato, non molto esatto, o che scrivono non esattamente d'accordo al loro ideale di correttezza, devono correggere. E questo lavoro di correzione non ha fine. Infatti Joyce aveva dichiarato che la correzione è infinita. Voleva dire che a un certo punto bisogna smettere di correggere sennò si continua sempre. E io parlo di questo perché io correggo sempre, no? Adesso faccio vedere questo manoscritto, non so come chiamarlo brutta copia, di un mio racconto, ma non è l'unica volta che l'ho fatto quel racconto. L'ho pure fatto altre otto o nove volte. Forse quella è la prima, però dopo si continua, continua pure sulle bozze come sa l'editore molto bene faccio tante correzioni che dopo ci sono delle proteste.
Nella Sinagoga degli iconoclasti, un'altra raccolta di vite immaginarie di intellettuali grotteschi, c'è un racconto che mostra l'importanza che aveva per Wilcock la misura delle parole. Absalon Amet, un orologiaio del Settecento, inventa un apparecchio, il Filosofo Meccanico Universale: è un pionieristico automa che, grazie a un elaborato meccanismo di ruote dentate e cilindri, riesce a comporre a getto continuo delle frasi formalmente corrette, a volte eleganti, a volte curiose o apodittiche, affascinanti magari, ma quasi sempre prive di un reale significato. Quell'aggeggio è il progenitore, scrive Wilcock, dei filosofi moderni, dei "turpi professori di semiotica", dei "brillanti poeti d'avanguardia", perché, come l'automa meccanico duecento anni prima di loro, non portano riguardo per la lingua che usano, creano virtuosismi inutili, accostano casualmente, "a scopo voluttuario o decorativo", vocaboli che, per amore della lingua, non dovrebbero mai venir accostati, che suonano bene ma non significano nulla. D'altra parte questi imbrogli funzionano, ammette sconsolato nel finale: "verrà presto un giorno, se non è già venuto, in cui tutte le proposizioni del Filosofo Meccanico Universale, e ben altre combinazioni di vocaboli ancora, saranno state accolte col dovuto rispetto nel seno generoso della Storia del Pensiero Occidentale".
Le correzioni, la limatura, le parole giuste da trovare. Eppure uno dei passaggi più belli dell'intervista del '73 è una divagazione irrequieta sull'origine della letteratura nella storia dell'uomo che dimostra come in fondo, anche nell'intralcio del parlato, rimaneva l'assoluta originalità di Wilcock, e il suo genio ironico.
E chissà le prime cose che hanno scritto [gli esseri umani]? Quelle che conosciamo son sempre elenchi di pecore. E di... Cioè, le più antiche sono elenchi di pecore, perché tutte le prime civiltà sono cominciate, dico quelle più evolute, sono cominciate nei posti che si dedicavano tantissimo alla pecora, alla capra. E... e a leggere queste tavolette che rimangono e dicono quattro pecore nella casa di tale, ventiquattro caproni maschi... così è cominciata la letteratura. Ma può essere un'impressione molto sbagliata. Forse già c'avevano dei poemi orali e li annotavano. Non possiamo sapere perché quello che è rimasto sono le tavolette che negli incendi si sono conservati. E sembra che le biblioteche delle case consistevano soprattutto di questo, di elenchi di animali che c'avevano, quanti tripodi, quante bacinelle. Non è possibile ricostruire. Comunque il mio dubbio rimane: la letteratura è incominciata come un elenco commerciale o come la volontà di annotare quello che si tramandavano i bardi? Bah. Forse né in un modo né nell'altro. Certamente la mania più antica dell'uomo è di scrivere il suo nome dappertutto. Allora la prima cosa che avrà scritto uno scrittore sarà il suo nome. Dico il primo libro è stato firmato, prima di essere stato scritto.
#1 AUTOMI E OROLOGI
A proposito di automi del Settecento, l'ispirazione di Wilcock veniva probabilmente dal famoso turco meccanico creato dal barone Wolfgang von Kempelen: una sorta di rudimentale robot, un macchinario antropomorfo vestito come un ottomano, con turbante e tutto, che era capace di giocare a scacchi. E che però era un imbroglio: il turco non giocava da solo, nella scatola degli ingranaggi c'era un buco dove si nascondeva il manovratore.
Kempelen non è stato il primo ad avere l'idea di costruire un automa, e in molti ci erano riusciti sul serio, senza barare. I primi macchinari di questo tipo di cui abbiamo traccia risalgono addirittura all'antica Grecia, qualche secolo prima di Cristo. I nostri preferiti sono invece quelli disegnati da Al-Jazari (nome completo Abū al-ʿIzz Ibn Ismāʿīl ibn al-Razzāz al-Jazarī, in arabo: أَبُو اَلْعِزِ بْنُ إسْماعِيلِ بْنُ الرِّزاز الجزري; Jazīra, 1136 – 1206, facendo un rapido copia e incolla da wiki).
Nei suoi scritti Al-Jazari presenta decine dispositivi meccanici con le relative istruzioni d'uso. Orologi ad acqua, macchine per la raccolta dell’acqua, lucchetti, fontane con forme umane e animali. Qui qualche illustrazione per il montaggio. Online se ne trovano molte altre.
#2 RADIOLARINI
I radiolari sono protozoi “marini e planctonici”. Misurano tra i 50-150 micron (media di 0,1 millimetri) e si diffondono e riproducono dal Cretaceo, cioè “l’ultimo periodo” dei dinosauri, il tratto finale del Mesozoico. Insomma, sono antichi, ed è dall’Ottocento che grazie alle loro belle linee attirano la curiosità di biologi più o meno specializzati. L’esempio più noto è Ernst Haeckel (1834 – 1919), zoologo-filosofo-artista cui sono stati scritti e si scrivono centinaia di libri, più o meno controversi come alcune delle sue teorie.
Oggi noto per le sue illustrazioni instagrammabili, e i suoi studi sulle meduse, Haeckel è il San Paolo del darwinismo (perché ne ha parlato molto in giro; ci siamo capiti). Nella fattispecie, ha passato decine di anni sui radiolari, descrivendone più di quattromila specie. Le loro strutture fornivano infatti una prova della discendenza con modificazioni, la tesi centrale dell’Origine delle specie. “La sua monografia in due volumi, pubblicata nel 1862, fu accolta con grande favore e lo stesso Darwin la definì una delle opere scientifiche più grandiose che avesse mai visto”.
Oggi invece i radiolari possiamo vederli in altissima qualità, come quelli qui sotto, che hanno cento milioni di anni e sono stati fotografati da padre e figlia (Aaron Huey e Hawk Huey), nel loro giardino di casa. Per farlo hanno utilizzato Mochii "S", il microscopio elettronico a scansione più piccolo del mondo. Prodotto da Voxa (“un'azienda di strumenti scientifici che si occupa di misure e analisi su scala nanometrica”), adottato dalla Stazione Spaziale Internazionale, è il primo microscopio elettronico portatile al mondo. Sembra divertente giocarci.
Gli Ittiti dominarono su Vicino Oriente e Mediterraneo orientale per quasi cinque secoli, a partire dal 1650 a.C.
Secondo Nature, la fine dell’impero ittita avvenne intorno al 1198 - 1196 a.C. a causa di una lunga siccità.
Le tracce della siccità sono state trovate nel legno, negli anelli di accrescimento di tronchi di ginepri millenari.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 420,31 ppm (parti per milione) di CO2.