CALIFORNIA
di Stefano Dalla Casa. Urbanizzazione selvaggia, privilegio e sfruttamento: cosa raccontano gli incendi di Los Angeles, dove le catastrofi naturali sono ormai frutto di una certezza statistica.
Benvenuti, questo è il numero centosettantaquattro di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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MEDUSA newsletter è un animale strano: può contenere un articolo o un racconto inedito, una lunga intervista oppure una serie di frammenti, storie più brevi, appunti di lettura, link o altre segnalazioni. Oggi ospitiamo un pezzo di Stefano Dalla Casa, giornalista e comunicatore scientifico, che partendo dagli incendi di Los Angeles allarga lo sguardo sul nostro presente – e rispolvera il lavoro di Mike Davis, scrittore, storico, urbanista e attivista statunitense.
In chiusura l’unica certezza: i numeri della CABALA.
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In questo numero leggerete di tempeste di fuoco e Malibù, di Mike Davis e Gavin Newsom, foche elefante e leoni marini.
Dal 7 gennaio l’area di Los Angeles e dintorni è avvolta dalle fiamme. La narrazione statunitense del disastro, trasmessa in mondovisione, sta utilizzando tutti i cliché a cui ormai siamo abituati. Da una parte i climatologi sottolineano che i cambiamenti climatici rendono questi eventi più frequenti e devastanti, e che il peggio deve ancora venire. I leader democratici annuiscono e rilanciano, senza soffermarsi però troppo sulle lacune di una gestione del territorio decisamente poco lungimirante. Dall’altra parte intanto c’è chi nega e depotenzia il ruolo del riscaldamento globale, e accusa “le Cassandre” di sfruttare la tragedia per motivi politici: gli incendi sarebbero così solo colpa dei democratici e delle loro amministrazioni politiche.
Su X Elon Musk – che si appresta a co-presiedere il Department of Government Efficiency (DOGE) –, ha attribuito la responsabilità a due fattori: un'eccessiva regolamentazione che ha impedito la creazione di fasce tagliafuoco e la pulizia della vegetazione, e una cattiva gestione a livello statale e locale che ha portato a una carenza d'acqua. Nel frattempo, le case incenerite di Mel Gibson e James Woods, vip di destra e negazionisti climatici impenitenti, diventano simbolo del contrappasso.
A guardarlo così, il “dibattito” mainstream statunitense, confuso e chiuso su se stesso, somiglia molto a quello nostrano scatenato dopo le ultime alluvioni. Pur di negare la realtà dei cambiamenti climatici e di attaccare la fazione opposta, c’è stato chi, soprattutto a destra, nei giorni dopo la distruzione si è scoperto patito della “prevenzione” e della “manutenzione” del territorio, pratiche da quelle stesse persone da sempre ignorate. La sinistra, la parte politica che si fregia di avere la scienza dalla sua (e da noi incapace, però, di andare oltre azioni simboliche sia a livello locale che nazionale), ha cominciato in quei giorni a parlare dei disastri collegabili al riscaldamento globale in termini di “fatalità”. Ovvero: non ci si può aspettare che il singolo comune, provincia, o regione possa fare molto per mitigare i danni di un fenomeno che è, appunto, globale.
Non è facile uscire dai binari di questa narrazione, ragionare sul fatto che la “cura del territorio” non è solo pulire i tombini e togliere le sterpaglie, ma che la malagestione e il riscaldamento globale hanno la stessa radice, e come tali potrebbero e dovrebbero essere combattuti anche e soprattutto a livello locale.
Nel caso dell’alluvione in Emilia-Romagna del 2023 ci avevano provato i Wu Ming. Il collettivo bolognese aveva ricordato la lunga storia d’amore tra gli amministratori della regione “rossa” e il cemento: “si è costruito e ancora costruito” fino a stabilire il record di prima Regione d’Italia per cementificazione in aree alluvionali.
Decenni di allarmi sul riscaldamento globale non hanno mai modificato questo tipo di sviluppo, e ora quel fenomeno (innegabile) è usato come unico capro espiatorio. Per Los Angeles, con le fiamme ancora alte, ci ha provato il giornalista Leighton Woodhouse su Newsweek, invitando a ri-leggere Mike Davis (1946- 2022). Scrittore, storico, urbanista e attivista statunitense, Davis è noto per i suoi lavori sull'urbanizzazione, le disuguaglianze sociali e le questioni ambientali. Il suo saggio The Case for Letting Malibu Burn, contenuto nel libro Ecology of Fear (1998), ora suona di nuovo profetico.
Davis esplora la relazione tra l'ambiente naturale, l'urbanizzazione e la cultura del disastro nel territorio di Los Angeles, utilizzando la città come simbolo di un più ampio fenomeno globale: il libro denuncia infatti il modo in cui le forze economiche e politiche hanno ignorato o amplificato i rischi ambientali, mettendo in pericolo la vita e il benessere di tutti i cittadini.
Come riassume Woodhouse, la tesi di Davis parte dall’assunto che in diverse zone della California gli incendi siano un fenomeno naturale e inevitabile. Le piogge in inverno alimentano la crescita di arbusti sulle colline e nelle montagne costiere. Poi arriva il caldo secco dell'estate, che li trasforma in combustibile. Inoltre, Los Angeles è sferzata dai caldi venti di Santa Ana, che soffiano nel bacino della San Fernando Valley e sono incanalati nei canyon delle Santa Monica Mountains. “Infine”, scrive Woodhouse, “va considerata la presenza degli insediamenti umani, con le innumerevoli opportunità che essi offrono per innescare una scintilla. La probabilità che un disastro del genere si verifichi è, nelle parole di Davis, ‘una certezza statistica’.”
Davis riteneva che questi eventi distruttivi fossero causati in primo luogo da un’urbanizzazione selvaggia guidata dal mercato, che ha legato la “prosperità” della regione a un eterno ciclo di distruzione e ricostruzione. È da oltre un secolo che quelle zone si confrontano con incendi più o meno devastanti. Un ciclo che esiste e continuerebbe a esistere, e a ingrandirsi, anche in assenza di riscaldamento globale, ma che ora rischia di assumere dimensioni ancora più ingestibili. Nonostante questo, si è continuato a costruire. (Davis non era, insomma, un negazionista climatico, né pensava che bastasse una migliore manutenzione per evitare incendi disastrosi).
Ma la parte più interessante della sua analisi riguarda le sperequazioni sociali: perché, scriveva, il fuoco in California non è affatto una “livella”. Sappiamo per esempio che, per ironia della sorte, i paesaggi più ricchi e più poveri della California meridionale sono paragonabili per la frequenza con cui sperimentano disastri incendiari. Ma il conto delle vittime e la reazione delle istituzioni è completamente diversa nei due territori. Davis prendeva in esame gli incendi del 1993. A maggio, un incendio in un condominio di Westlake (città più popolata e povera rispetto ad altre aree della California) uccise tre donne e sette bambini. Quelle fiamme furono seguite, alla fine di ottobre, da 21 incendi boschivi “culminati il 2 novembre nella grande tempesta di fuoco che costrinse all’evacuazione della maggior parte di Malibù”.
Ma questi due fuochi, scrive Davis, sono immagini inverse l’una dell’altra:
Difesi, nel 1993, dal più grande esercito di vigili del fuoco nella storia americana, i facoltosi proprietari di case di Malibù beneficiarono anche di una straordinaria gamma di sussidi per assicurazioni, uso del suolo e soccorsi in caso di disastri. Tuttavia, come la maggior parte degli esperti ammetterà facilmente, periodiche tempeste di fuoco di tale magnitudo sono inevitabili finché lo sviluppo residenziale sarà tollerato nell’ecologia incendiaria delle Santa Monica Mountains. D’altra parte, la maggior parte delle 119 vittime di incendi nei condomini nelle aree di Westlake e del centro città avrebbe potuto essere evitata se i proprietari di alloggi fatiscenti fossero stati obbligati a rispettare anche solo standard minimi di sicurezza edilizia. Se enormi risorse sono state allocate, in modo donchisciottesco, per combattere forze della natura irresistibili sulla costa di Malibù, scandalosamente poca attenzione è stata dedicata alla crisi incendiaria, artificiale e risolvibile, del centro città.
È in questo senso, come suggerisce il titolo del saggio, che bisognerebbe lasciar bruciare Malibù, città esclusiva e chiusa, simbolo di privilegio e di sfruttamento del territorio e delle persone.
Di Mike Davis ho sentito parlare per la prima volta dallo storico dell’ambiente Marco Armiero, durante una lunga conversazione sull’ecofascismo che ho avuto con lui qualche anno fa.
In quella intervista c’era stato spazio anche per parlare di fuoco, soprattutto metaforico: oggi i roghi danno corpo infatti alla metafora della “casa in fiamme” usata, tra gli altri, da Greta Thunberg per raccontare il pianeta dominato dalla crisi climatica. Armiero mi aveva detto che la narrazione dell’emergenza, della “casa in fiamme”, per quanto potente, poteva essere problematica, anche quando usata con le migliori intenzioni. Perché se la nostra abitazione andasse a fuoco, quello che faremmo è chiamare i pompieri: non faremmo prima un’assemblea di quartiere per capire come muoverci. Ma sulle questioni ambientali questa stessa strategia emergenziale, quasi istintiva, diventa un'arma a doppio taglio: può essere usata cioè per imporre velocemente decisioni elitarie, e restringere i necessari spazi di partecipazione. Aumentando, di nuovo, le sperequazioni e le differenze sociali.
Cosa che in Italia è accaduta, per esempio, durante l’emergenza rifiuti in Campania. I Commissari all’emergenza - dichiarata nel 1994 - hanno avuto poteri straordinari e risorse ingenti, oltre alla possibilità di ignorare procedure ambientali come la Via (Valutazione di Impatto Ambientale) e le consultazioni locali. E i paesi selezionati per ospitare impianti e discariche, sempre nelle periferie subalterne della piana campana, sono stati di fatto privati dell’autorità decisionale sui propri territori.
A partire proprio dall’esperienza Campana nel 2018, Armiero scriveva su Jacobin, assieme a Egidio Giordano, che, davanti alla crisi ambientale globale, avremmo allora dovuto dichiarare lo stato di “rivoluzione climatica”, che sottende una narrazione opposta a quella emergenziale: “La rivoluzione non si chiede al potere ma si fa contro il potere costituito. La rivoluzione non cerca soluzioni attraverso dispositivi tecnico-legali; la rivoluzione si prende il lusso di sperimentare, di cercare, di discutere e di partecipare. Il cambiamento climatico è sì una emergenza, ma una emergenza strana, di lungo periodo, almeno per quanto riguarda le cause, e con conseguenze che non riguardano tutti nello stesso modo. I regimi emergenziali spesso servono a proteggere lo status quo mentre qui c’è bisogno di un cambiamento radicale”.
E così torniamo a oggi. Gli incendi di Los Angeles, tanto scenografici e drammatici, sembrano invitarci a cercare tra le fiamme una metafora globale. Ma cosa dovrebbero simboleggiare? Forse lo status quo: a bruciare è la presunzione di una società che pensa di poter ignorare i bisogni interconnessi della natura e delle persone.
Come mi spiegò Armiero citando proprio Davis (in una parte dell’intervista che era stata tagliata in fase di editing), alla distruzione della California si è sempre risposto con nuove abitazioni, magari più avanzate; ma nessuna soluzione tecnologica può sopprimere un ciclo naturale. Anzi, ogni incendio che viene soppresso permette l’accumulo di materiale combustibile che creerà il prossimo rogo, e quindi la prossima tragedia. Allo stesso tempo, dopo ogni rogo e successiva ricostruzione ed espansione (alimentata da soldi pubblici), zone come Malibù sono diventate sempre più esclusive.
I redditi bassi sono stati dirottati altrove, attirati da prezzi stracciati e incentivi, e a ogni rogo pagano un prezzo molto più alto per la prioritaria difesa della città. Nel 2018 Mike Davis di nuovo notava, in un articolo sul Guardian, che i fuochi non sono tutti uguali: quell’anno i cittadini della città di Paradise, nel nord della California, scappavano a piedi dai roghi, mentre a Malibù si usavano gli yacht. In queste ore leggiamo che chi se lo può permettere sta arruolando dei pompieri privati per salvare le proprie abitazioni di lusso, e solo quelle.
In una delle sue ultime interviste Davis era tornato a parlare delle fiamme. Era il 2022, e già all’epoca biasimava l’attuale governatore della California, Gavin Newsom, perché a ogni incendio che si alzava nella regione, Newsom si rifugiava dietro dichiarazioni di prassi, dando la colpa al riscaldamento globale e vantando i passi avanti compiuti dalla sua amministrazione sul tema. Ma non è solo il riscaldamento globale, o la siccità, ripeteva Davis. Il fatto è che nell’ovest degli Stati Uniti si è continuato a costruire in zone ad alto rischio di incendi, e i Democratici, che non sono negazionisti climatici, e che si mostrano sensibili a questi argomenti, non hanno però mai avuto il coraggio di proporre una moratoria né di fermare l’espansione edilizia nelle aree di interfaccia tra città e natura.
L’ultima denuncia di Davis era proprio contro di loro, contro il greenwashing dilagante di chi, pur riconoscendo la gravità della crisi climatica, non ha né una visione né un piano per affrontare il futuro, nonostante detenga il potere. E avvertiva: “La crisi climatica, la crisi migratoria e la pandemia ci hanno mostrato la verità su come gli stati che si definiscono democratici reagiscono agli eventi che minacciano il mondo intero: alzano il ponte levatoio”.
Nel 2024 l'influenza aviaria ha ucciso più di 300 milioni di uccelli selvatici.
In Cile e Perù sono morti più di 20.000 leoni marini sudamericani, e si stima che 17.000 cuccioli di foca elefante siano morti in Argentina.
Un numero pari al 96% di tutti i cuccioli nati nel Paese nel 2023.
Dal marzo dello scorso anno, negli Stati Uniti sono state segnalate 66 infezioni di influenza aviaria nell'essere umano, si è trattato quasi sempre di casi lievi. Si sono verificati soprattutto in allevamenti di bovini, polli, tacchini. Finora non ci sono prove che l'influenza si stia diffondendo tra gli esseri umani.
Secondo le autorità sanitarie delle Nazioni Unite il rischio di diffusione dell'influenza aviaria tra gli esseri umani è però una “enorme preoccupazione”. Allo stesso tempo non nuoce ricordare che negli Stati Uniti, da settembre a oggi, ci sono stati più di 2.700 decessi a causa dell’influenza stagionale.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 425,94 ppm (parti per milione) di CO2.