ARASUNU
di Francesco Zanetti. In questo numero leggerete di tuoni e cascate, di albini e danze macabre, di noia e terra rossa, di Peter Kolosimo e del Polacco.
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In questo numero leggerete di tuoni e cascate, di albini e danze macabre, di noia e terra rossa, di Peter Kolosimo e del Polacco.
Il weekend dei morti abbiamo deciso di andare a vedere le cascate dell’Iguazú. È un gruppo di 275 cascate situate al confine tra la provincia argentina di Misiones, lo stato brasiliano del Paraná e il dipartimento paraguaiano di Ciudad del Este.
Ricordo che la prima volta che ne ho sentito parlare era in un film di Wong Kar Wai dove una coppia di Hong Kong – fuggiaschi a Buenos Aires – ha il sogno di vedere le cascate prima di rimpatriare. L’ultima era attraverso lo sconcerto di Helena, la signora che fa le pulizie nel palazzo dove vivo:
“Mi stavo cagando addosso. Avevo 43 anni ed era la prima volta che volavo. Ho tenuto gli occhi chiusi in aereo tutto in tempo. Quando le ho viste ho pensato Dio ha fatto questo? Sul serio?”.
C’è una vena ossequiosa nelle parole di Helena, di timore. Dio è indubbiamente grande, ma sarà anche buono?
“State attenti! Ci avverte. Un turista è morto la settimana scorsa. Si stava facendo un selfie ed è caduto dentro la garganta del diablo” - la cascata più imponente del complesso - 80 metri di salto. Non è il primo né sarà l’ultimo a volersi tuffare nel magma tiepido delle acque per passare dall’altra parte; Helena aggiunge che sarà bene portarsi vestiti leggeri perché fa sempre un caldo bestiale nel nord argentino.
Ad Iguazú ci sono invece 12 gradi e piogge torrenziali: due giorni prima l’innalzamento del livello dell’acqua ha dato vita a onde che hanno distrutto la passerella che dava sulla garganta del diablo, rendendola inagibile.
Fradici, ci troviamo a camminare per una strada a due corsie che divide la selva, cercando un posto dove mangiare. Il paesaggio mi ricorda quello della pianura ferrarese - dove sono cresciuto - fatto di fossi, capannoni semicoperti da piante che li ghermiscono e cartelloni di compro oro e pietre preziose. La terra però è diversa. È rosso vermiglio, densa, ti si attacca addosso e accumula ai lati delle scarpe.
Le sbatto sull’asfalto per liberarmene quando una voce mi ammonisce: “è un dono della selva. Un dono della realtà. Io vendo la realtà, vi interessa?”. Alzo lo sguardo e mi trovo davanti un cowboy in miniatura sulla cinquantina, cappello da gaucho, braccia grosse e tese, occhi tondi e sorriso sfuggente.
Lei gli chiede se oltre alla realtà vendano pure del cibo. Lui ci invita nel suo quincho, una specie di fattoria con una struttura centrale con tetto spiovente, dove ci rifocilliamo. Ci sono una decina di persone che bevono mate sedute in cerchio, ipotizzo vivano tutte insieme. Il cowboy ci propone una visita alla comunità indigena dei Guaranì, con la quale collaborano, ma ci avverte: “Sono un emissario della selva. Non posso promettervi che i Guaranì vi accoglieranno, ma posso portarvi da loro”.
Accettiamo, divertiti dalla solennità del cowboy, che ci consegna a Guaral, un ventenne guaranì che sarà la nostra guida. Ha imparato lo spagnolo a scuola e da grande sarà cacique - il capo villaggio. Gliel’ha detto lo sciamano. Mentre attraversiamo la selva a bordo di un trattore, Guaral ci racconta che da bambino diceva a suo padre che non avrebbe mai avuto bisogno di soldi ma ora che lavora sì, quiero la plata. Voglio i soldi.
Il discorso muore lì. Lavorare negli hotel che hanno invaso casa tua, scarrozzare turisti per la giungla e vedere che indossano scarponcini tecnici, magliette termiche, gioielli brillanti e dormono in teche di vetro termoregolate ti obbliga a desiderare qualcosa che non sapevi esistesse? E che in cambio ti chiede di intrattenere con la tua diversità senza creare imbarazzo; di mostrarsi un affabile selvaggio a scuola di civiltà che fa da equilibrista tra il nostro mondo di merci e il suo di residui e avanzi.
Gli chiedo informazioni sulla sua religione e Guaral mi risponde vago, si contraddice: infine mi confessa che non si ricorda. Sarò capo villaggio, non sciamano mi dice. Parla la lingua dei suoi antenati ma non ne conosce i riti, ignora i significati dietro le invocazioni al sole, all’acqua, alla terra, ripete le tradizioni così come gli sono state insegnate senza distinguere immagine e simbolo, sacro da simulacro. In questo ci somigliamo.
Entriamo in un sentiero cementato nel mezzo della selva e Guaral ci dice che l’ha costruito l’Hilton per facilitare l’arrivo degli ospiti, così come il wi-fi, gratuito per tutti. “Ora posso svegliarmi un’ora dopo per andare al lavoro, mentre prima dovevo attraversare la selva a piedi”. Alla fine della strada riprende la terra rossa. Guaral ci dice di scendere, che continueremo a piedi. Sarà il Polacco a guidarci per il villaggio e quando arriverà gli diremo avejetè, così saprà che va tutto bene.
Il Polacco ci accoglie con tutti i crismi della selva per turisti: ci presenta la abuela del villaggio che cura tutti i malanni con infusi di erbe e mate, i bambini golosi di caramelle americane, ci mostra il grasso d’iguana che usano per curarsi dal morso della vipera rossa e pure i silos d’acqua e una vecchia FIAT parcheggiata sotto un tetto di paglia.
“Siamo civilizzati qui, che credi? Possiamo andare in città o all’ospedale per far partorire le nostre donne. Abbiamo una scuola, la corrente elettrica e l’acqua corrente. Ce li ha donati una signora che è venuta a visitarci dicendo che se avesse vinto Ballando con le Stelle ci avrebbe aiutato”. Poi aggiunge ridacchiando: “lo sciamano l’ha benedetta ed è arrivata prima”.
Prima di salutarci il Polacco ci mostra un campetto da calcio dove due settimane prima ha piantato dell’erba: i ciuffi verdi spuntano ovunque rigogliosi e forti. L’unica zona dove non cresce nulla è appena fuori il villaggio. L’Hilton stava costruendo un campo da golf finché il tribunale civile non ha stoppato il progetto. Prima hanno però avuto il tempo di scaricare solventi e rifiuti dell’hotel nella buca, dove la terra non trattiene più l’acqua, trasformandosi nella palude che chiamano lago.
I bambini ci vanno a pescare e nuotare nei giorni più caldi e ci vive un yacarè. “È arrivato quando era poco più di un cucciolo ed è cresciuto con noi” dice Guaral, “conviviamo in pace”. I guaranì ti parlano in spagnolo, ma chiamano gli animali nella loro lingua. Yacarè è il giaguaro? chiedo. Guaral fa cenno di sì, non troppo convinto.
Costeggiamo il laghetto col trattore e Guaral ci indica una testa che spunta tra i canneti: Yacarè. Tre bambini stanno pescando a pochi metri di distanza. Le stringo la mano e curvo le dita come ad imitare un artiglio. Lei tende le braccia perpendicolarmente e le sbatte due volte l’una contro l’altra, simulando due fauci che si chiudono. Guaral conferma: Yacarè, no Jaguaretè. Interdetto, guardo meglio: immerso fino alla testa nel laghetto, coperto dalle canne, c’è un alligatore. Mi sento terribilmente stupido.
Per liberarmi dall’imbarazzo Guaral ci invita a casa. “Vi presento mio padre – ci dice – lui è come voi”. Ci interroghiamo sul significato delle parole del ragazzo mentre il trattore prende una deviazione e si addentra in una radura piena di plastica e spazzatura dove ci sono due baracche: una quadrata più grande e l’altra triangolare. Guaral ci indica un campetto coltivato dove ha appena piantato la manioca. Presto sarà pronta e la venderò, ci dice. Avejetè, sentiamo alle nostre spalle.
L’enigma si risolve. Il padre di Guaral è come noi: bianco. Ma ha una testa deforme, con una fronte altissima e gonfia ai lati, con vene viola che pulsano regolari. Non ha le sopracciglia e le pupille sono bianchissime. Indossa un paio di ciabatte nere, dei pantaloncini del River Plate sporchi di fango e ha una camicia bianca aperta fino all’ombelico.
Avejetè, rispondiamo, in attesa che succeda qualcosa. Che faccia una battuta sugli insetti, ci mostri qualcosa da comprare o ci offra un infuso d’erbe o una pannocchia bruciata. Invece non succede nulla. L’albino ci dà le spalle e sparisce dietro alla baracca quadrata a raccogliere monnezza e noi saltiamo velocemente sul trattore, vogliamo rivedere quella strada di cemento che attraversa la selva. Stanchi? chiede Guaral. Morti.
Tornati in hotel passiamo un’ora a toglierci terra rossa di dosso e le scarpe sono talmente zuppe che andiamo a cena indossando buste di plastica a protezione dei piedi. Al ristorante le pareti sono dipinte di rosso e ci dicono di mangiare in fretta che devono chiudere: una tempesta è in arrivo.
Notte. I lampi illuminano la stanza a giorno. Dopo alcuni minuti di silenzio scoppia la tempesta, è un susseguirsi di tuoni e fulmini. Non ho mai visto niente del genere. Il vento muove le palme e le sbatte contro le finestre come artigli che graffiano contro il vetro. Abbiamo paura. Allora iniziamo a contare lo spazio tra il lampo e il tuono: uno, due, tre. Tuono. Uno, dos, tres… non succede nulla.
Continuo a contare. Quattro, Cinque, Sei. Un suono alieno scende nella stanza, qualcosa che perde. Qualcuno. Peteĩ, Mokõi, Mbohapy. La stanza brilla di luce bianca e nell’attimo tra il lampo e il tuono vedo l’albino seduto al bordo del letto, con le sue ciabatte sudice e la sua testa enorme. Si copre gli occhi con la mano sinistra e sbatte la destra sporca di terra contro le lenzuola. Tiene il tempo. Peteĩ, Mokõi, Mbohapy… Arasunu.
#1 PIGRIZIA
Buoni a nulla. Fondamenti di una teoria dell'ozio è appena uscito per la collana ebook dei Quanti di Einaudi. A dispetto del sottotitolo, è un racconto, diciamo, di autofiction. Lo ha scritto Matteo ed è la storia di una amicizia che nasce e cresce e muore attorno alla pigrizia. Lo potete acquistare sul sito dell’editore e in ogni altro posto online dove si vendono ebook. Sono una quarantina di pagine.
#2 DRAWIN’ CIRCLES
A metà novembre ha iniziato a diffondersi uno strano video ripreso da un circuito chiuso, con i tipici connotati del circuito chiuso, che mostra un gregge di pecore muoversi ossessivamente in cerchio in una sorta di danza macabra. Il video, girato in un allevamento da qualche parte in Mongolia, documenta un comportamento che va avanti da giorni.
Di fronte all’immagine di un gregge che corre intorno a un centro vuoto la prima reazione, almeno nel nostro caso, non è razionale: il pensiero magico dilaga, si prende tutto lo spazio: quel centro vuoto è in comunicazione con il destino ciclico delle cose, e nella loro coreografia delle pecore parlano la lingua della preghiera. Opera del caos: di dio, di satana: un significato eterno ha trovato la strada nel recinto numero 13 di un allevamento mongolo.
Poi arriva il pensiero logico e rompe il gioco. Ma è bello anche rompere il gioco, perché ci sono diversi modi per farlo: c’è chi come causa ha indicato la listeriosi, ma è una teoria confutata dalla letalità di Listeria, un batterio che avrebbe dovuto ammazzare il gregge nel giro di due giorni; la risposta sembra orientarsi invece verso meccaniche di comportamento collettivo, in un reame forse più affascinante di quello delle infezioni batteriche, ancora più sbilanciato sull’invisibile.
Secondo Matt Bell, professore e direttore del Dipartimento di Agricoltura dell'Università Hartpury a Gloucester (Inghilterra), il comportamento stereotipato potrebbe essere dovuto alla frustrazione del recinto.
Si parla di comportamento quindi, di una serie di azioni che trovano origine in fattori ambientali e psicologici. In questo caso, forse, dovute all’elevato grado di stress del gregge. Lo stress è una delle maschere di Satana.
#3 PK
Il 15 dicembre del 1922 a Modena nasceva Pier Domenico Colosimo, che sarebbe diventato famoso con il nome d’arte di Peter Kolosimo. Per celebrare il centenario, vi riproponiamo il profilo che Matteo scrisse qualche anno fa su Kolosimo per Not, dedicato a “il fascino, l’improbabilità, l’ambigua eredità del padrino italiano della fanta-archeologia”.
Alla fine degli anni cinquanta Peter Kolosimo si mise a scrivere di scienza per il grande pubblico. Unì in un solo calderone astronomia, archeologia, psicologia e ingegneria, e usò quel miscuglio per dar forma alle storie dell’occulto: ufologia, mistero, storia esoterica. In Italia fu il primo.
Uno dei cavalli di battaglia di Kolosimo era la cosiddetta teoria degli antichi astronauti. Nel pozzo della civiltà umana, nelle sue profondità ormai dimenticate, ancora prima del nostro tempo – scriveva – si nasconde una fonte di conoscenza arcaica, detrito di una cultura superiore, magari extraterrestre. La perizia costruttiva delle popolazioni antiche, per esempio, potrebbe essere proprio la conseguenza dell’uso di tecnologie aliene, trasmesse agli esseri umani da qualche civiltà proveniente da altri mondi. Le prove? Da ricercare nei misteri delle piramidi di Giza e delle linee di Nazca, tra i massi di Stonehenge, nei fili rossi che uniscono le civiltà precolombiane. Vi sono particolari propri ai miti delle più antiche e lontane civiltà, che non permettono di dubitare della loro origine comune.
Il resto qui.
Secondo un nuovo report delle Nazioni Unite, cinque miliardi di persone dovranno affrontare almeno un mese di carenza d'acqua da qui al 2050.
Il che significa due terzi della popolazione mondiale.
Nello stesso report si legge che tra siccità, allagamenti, inondazioni, scioglimenti dei ghiacciai, già tra il 2001 e il 2018 il 74% dei i disastri naturali è stato legato all'acqua.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 416,99 ppm (parti per milione) di CO2.