AMBIGUA
di Matteo De Giuli. Qual è la differenza tra un romanzo politico e il ricatto di una predica? Una lettura di "Il mondo della foresta" di Ursula K. Le Guin.
Benvenuti, questo è il numero centottanta di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di crepe e avatar, omini verdi e omini blu, paperback e impegno, world building e altrove.
Ursula K. Le Guin costruiva mondi paralleli come specchi deformanti, strumenti per mettere alla prova, per quanto possibile, le crepe del presente. Con la meticolosità di un’ingegnera e la curiosità di un’antropologa, approcciava la realtà come fosse un congegno da smontare e poi rimontare, sostituendo qua e là una rotella, una vite o un ingranaggio. È un metodo che lei stessa racconta in questi termini. Prendeva il pianeta Terra, le sue ingiustizie, le tensioni, e cominciava a porsi delle domande. Cosa accadrebbe se uomini e donne fossero esattamente come li conosciamo, ma con una sola differenza fisica, piccola eppure decisiva? E se invece a cambiare fosse un comportamento innato, o un’inclinazione impercettibile? Quale sarebbe l’effetto sulle classi sociali, sui rapporti di potere, sulle vite di tutti? Quali problemi svanirebbero e quali, invece, prenderebbero il loro posto?
Un gioco di minime variazioni e conseguenze imprevedibili, come accade nei sogni, quando un dettaglio fuori posto è sufficiente a rendere estraneo e nuovo tutto il resto.
Finché era viva, i romanzi di Le Guin son stati portati in Italia a singhiozzo, in maniera spesso confusa. In questi mesi Mondadori sta però pubblicando negli Oscar Moderni nuove edizioni di molti dei suoi libri più importanti. Qualche settimana fa è uscito Il mondo della foresta, premio Hugo 1973 nella categoria short novel, uno dei suoi capolavori minori.
Il mondo della foresta fa parte del cosiddetto “Ciclo dell'Ecumene”, un universo narrativo in cui l’umanità, spinta da un inesausto istinto di espansione, ha conquistato colonie su una moltitudine di altri pianeti e ha tentato poi, con ambizione e disordine, di darsi una struttura di potere all’altezza della vastità galattica.
In questo romanzo i terrestri sbarcano su Athshe, un piccolo mondo lussureggiante di vegetazione, con l’intenzione dichiarata di depredarne le risorse. Lo occupano militarmente e sottomettono la popolazione locale, umanoidi di bassa statura ricoperti da una stenta peluria verde, per natura estranei alla violenza di massa. Gli athsheani sono una specie capace di linguaggio e di pensiero complesso, vivono in una relazione epidermica con la foresta e sono immersi in una cultura ancestrale che intreccia il sogno e la veglia, l'immaginazione, le paure, i desideri. È una tela di vita che ai terrestri sembra tutt'al più oziosa, e infatti li schiacciano, considerandoli meno di animali, li riducono in schiavitù, li costringono ad abbattere gli alberi di Athshe.
Tra le popolazioni nascono anche tentativi di riparazione, ma per un solo colonizzatore che conquista la fiducia degli ominidi verdi ce ne sono altri dieci che stuprano, uccidono e umiliano gli athsheani senza farsi avvicinare dall'ombra del rimorso.
Il dominio degli oppressori non è eterno e – in maniera prima invisibile e poi di colpo dirompente – gli ominidi rispondono ai soprusi umani, trovano le forze nella potenza magica, subliminale e impalpabile del sogno, trasformano la loro resistenza in un contrattacco capillare. L’esercito terrestre è costretto alla ritirata. Il finale però non è lieto, è claustrofobico, chiude le vicende in uno spazio sfinto, Athshe viene liberata ma i terrestri hanno ormai seminato un terrore che non se ne va con la loro partenza, il legno storto della esistenza umana lascia per sempre traccia nella vita degli athsheani.
Se non avete mai letto Le Guin, potete iniziare dall'attacco del secondo capitolo, che vale come dimostrazione della sua perizia:
Ci si potrebbe costruire un’intera lezione di scrittura. Le Guin deve raccontare un elemento centrale del libro, la vegetazione del pianeta Athshe, un luogo talmente rigoglioso che, nel linguaggio della popolazione locale, la parola per mondo è foresta. Sceglie di farlo imponendo una descrizione frontale, prendendosi cioè una pagina e mezzo che tenta di esaurire l'atmosfera della giungla. Qui il rischio potrebbe essere quello di indugiare sulla perfezione della natura, renderla un cliché, trasformare Athshe in un pianeta idilliaco, dipingere un quadretto consolatorio oppure sottolineare l’irenico equilibrio tra specie, il rigoglioso e felice connubio della sua biodiversità. Le Guin evoca invece, in maniera anche piuttosto sfacciata, la sovrabbondanza "il chiaroscuro, la complessità", la cacofonia della foresta che copre tutto, anche la vista, impedendo di ragionare, confondendo i sensi.
Da questo estratto si intuisce perché Le Guin sia considerata una scrittrice straordinaria e inusuale, una poeta del paperback capace di levigare la propria lingua avvicinandola a una chiarezza chirurgica senza mondarla però di una certa gravitas lirica.
Mi accorgo che in fin dei conti la sua letteratura si può ricondurre quasi tutta a questo gioco di ossimori. Da una parte l'attenzione studiata per le questioni macro-narrative, tipica del fantastico, e dall’altra l'acuta sensibilità per i micro eventi peculiare del romanzo borghese. Il world building coerente, compatto, che unisce i suoi libri in universi e saghe, non fa sparire l'interesse tenace per le psicologie dei suoi protagonisti. Da una parte c’è la creazione di distopie senza moralismi e dall’altra, speculare, quella di utopie macchiate di ambiguità.
I sogni si spiegano da soli, la raccolta di saggi, articoli e discorsi pubblicata tre anni fa in Italia da Sur con la traduzione e la cura di Veronica Raimo (e tornata in questi giorni in una nuova edizione ampliata), restituisce bene il pensiero di una scrittrice che è stata anche una critica tagliente, una filosofa femminista e un'abile conferenziera. "I libri non sono solo merci", disse per esempio quando accettò il National Book Award alla carriera, nel 2014. "Le ragioni del profitto spesso non vanno d'accordo con il senso dell'arte. Viviamo nel capitalismo. Sembra non si possa sfuggire al suo potere. Ma lo stesso valeva per il diritto divino dei re. Gli esseri umani possono opporre resistenza a qualsiasi potere umano, e cambiarlo. La resistenza e il cambiamento cominciano spesso con l'arte, e ancora più spesso con la nostra arte: l'arte delle parole".
Come mi è già capitato di scrivere altrove, quel libro è una porta d’accesso essenziale anche per comprendere, in maniera più ampia, il metodo letterario di Le Guin, il suo approccio cioè alla lingua, la consuetudine di una scrittura che sfugge alla linearità, che procede per inciampi e scarti in una forma di costruzione spesso anarchica, sebbene controllata (ecco un altro ossimoro).
Le Guin rivendica lo spazio della fantascienza e del fantastico come territorio di esplorazione e sperimentazione, dove si può tentare di mettere in crisi il pensiero dominante senza per questo rifugiarsi in nuovi dogmi. Sa che scrivere significa attraversare zone oscure, lasciarsi condurre da movimenti che restano in parte indecifrabili, e così anche quando lavora a un romanzo “politico” rimane consapevole del fatto che le opere impegnate finiscono troppo spesso vittime del proprio fervore. Affronta l’argomento proprio nella prefazione al Mondo della foresta, un ulteriore esempio dell’eterno cantiere di analisi, commento e autocritica che per lei era la letteratura.
Dice di aver scritto il libro durante un periodo piuttosto concitato della propria vita, le proteste contro la guerra del Vietnam, quando era molto attiva nel movimento pacifista. Nella lotta trovava quindi un canale diretto per agire ed esprimere le proprie idee al di fuori della scrittura, eppure il libro riverbera inevitabilmente del pathos di quei mesi. E qui iniziano i suoi patemi da autrice. “Non ho mai scritto una storia in modo più facile, scorrevole e sicuro – e con meno piacere”. Racconta di essersi sforzata, per quel che ha potuto, di non scrivere una predica, di salvaguardare la complessità psicologica dei personaggi “buoni”, i virtuosi del romanzo, e di aver viceversa cercato nel suo stesso inconscio le torbidità di quelli malvagi. In un moto di autodenigrazione ironica e sublime, conclude però di non essere certa dei risultati, lasciando il giudizio al lettore. “L’opera deve reggersi in toto su quello che è riuscita a conservare del desiderio che muove tutte le proteste o indignazioni specifiche, su qualunque timido slancio abbia preso, nella rabbia e nella disperazione, verso la giustizia o il buon senso, la grazia o la libertà”.
Aggiungo un’ultima appendice.
Nel 2009 James Cameron si ispirò senza troppi scrupoli al Mondo della foresta per costruire l'universo del suo Avatar. Nel film Jake Sully, ex marine paraplegico, arriva su Pandora, un pianeta coperto di giungle fluorescenti e abitato dai Na’vi, esseri alti e blu – e non bassi e verdi, d’accordo – in perfetta simbiosi con la natura. Gli umani bramano le risorse del pianeta, cercano di ottenerle con la forza, Jake si innamora di una creatura locale e si schiera con i Na’vi, guidandoli in una guerra contro gli invasori terrestri. Il film si conclude con la cacciata degli umani da Pandora.
Secondo Le Guin, fatte salve le somiglianze, il messaggio di Avatar era molto diverso da quello del libro. Nel suo romanzo, gli alieni pacifici sono costretti a imparare dai terrestri come fare la guerra, e questa esperienza li cambia in peggio, mentre i terrestri non imparano nulla da loro. Le Guin presenta questa dinamica come una tragedia. In Avatar una vicenda del tutto simile è vista invece come una vittoria, la battaglia viene glorificata e il film, nonostante le premesse, si trasforma alla fine in un’opera militarista.
Quando una selezione dei suoi romanzi venne pubblicata nella prestigiosa edizione della Library of America, Le Guin si sentì costretta ad aggiungere una nota prima del Mondo della foresta:
"Un film ad alto budget e di grande successo somiglia in così tanti aspetti a questo romanzo che spesso le persone hanno dato per scontato che avessi avuto un ruolo nella sua realizzazione. Poiché il film ribalta completamente il principio morale del libro, presentando il problema centrale e irrisolto del romanzo – la violenza di massa – come una soluzione, sono felice di non averci avuto nulla a che fare".
Nel 2022 sono stati introdotti 263 elefanti nel parco nazionale di Kasungu, il secondo parco più grande del Malawi, da cui erano praticamente scomparsi a causa del bracconaggio.
Le persone che vivono ai margini dell'area protetta hanno però deciso di intraprendere ora un'azione legale: secondo loro gli elefanti hanno ucciso in questi anni almeno 10 persone.
Alla ONG del parco è stata richiesta la costruzione di recinzioni adeguate a proteggere i 167 villaggi nelle vicinanze.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 429,16 ppm (parti per milione) di CO2.