SAGOME
di MEDUSA. In questo numero leggerete di famiglie a pezzi e pezzi di bravura, di scrittrici e cani, di grandi città e piccoli libri, di pioggia nel deserto.
Benvenuti, questo è il numero centocinquantotto di MEDUSA, una newsletter a cura di Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi – in collaborazione con Not.
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In questo numero leggerete di famiglie a pezzi e pezzi di bravura, di scrittrici e cani, di grandi città e piccoli libri, di pioggia nel deserto.
In questo numero vi parleremo di una manciata di libri.
#1 NEON PER ZANZARE
È uscita una raccolta di saggi personali e articoli sparsi di Rachel Cusk, si chiama Coventry (Einaudi, traduzione di Anna Nadotti). Cusk è nata in Canada, è cresciuta a Los Angeles e poi nel Suffolk, in Inghilterra. Nella sfera anglofona è tra le firme più celebrate degli ultimi tempi, soprattutto a seguito della sua trilogia autobiografica Outline, Transit e Kudos.
La proposta della trilogia, uscita ormai circa dieci anni fa, è una scrittura autobiografica dove l’io si mostra come il riflesso delle persone che lo rendono possibile; una letteratura della relazione che non ha paura di pendolare nel nulla, fatta delle chiacchiere infinite degli altri, che parlano e parlano e si specchiano nelle parole. Dopotutto molti dei nostri discorsi sono fatti di nulla, come i corpi sono fatti di vuoto.
Leggendo Cusk ci si abitua al suo ritmo e alla sua pulizia esagerata, uno stile lysoform, che in certe pagine rischia di dare alla testa (nei momenti meno controllati vengono fuori le stesse smorfie di Didion, per esempio l’uso sfrenato dell’anafora): ma è stile, qualcosa in cui l’autrice stessa può credere, appendersi: e più la scrittura si avvicina alla verità, che è la fede di Cusk, più insisterà questa lingua disinfettata.
Cercando di combinare le opposte filosofie di sembrare ed essere, si crea uno statuto fallace le cui norme, sempre che uno riesca ad attenervisi, tradiscono una sostanziale e inquietante mancaza di logica.
Uno dei fili della raccolta è la maleducazione come sintomo evidente di questo presente fuori controllo. Allora la cravatta dozzinale di un doganiere all’aeroporto, alienato nel lavoro robotico, diventa un affondo sulle necessità di questa maleducazione, sul veleno che sparge per moltiplicarsi, affondo imprescindibile – o forse no – per andare alla fonte psico-sociale del successo politico della Brexit. Tuffi a chiodo, salti in avanti, speculazioni: eppure resti persuaso, è necessario parlare di maleducazione, farlo senza pathos, e un saggio sulla trasformazione antropologica degli autisti, precedenze e frecce di segnalazione e enormi SUV guidati da pensionati assassini, viene elevato dai tic che deformano Cusk, quel tono metallico da telecamera di sicurezza.
In Coventry la prima persona singolare è scoperta, manifesta. Nei primi saggi la seguiamo nella sua vita con la sensazione che ci accompagna quando ascoltiamo quelle persone che, tornate a casa la sera, raccontano del giro di disavventure senza fine che hanno dovuto attraversare; di come la gente in giro non sa più comportarsi, oppure forse è colpa nostra, secondo te?; come se uscissero da casa in cerca di incidenti, di quello schema di incontri e contrattempi che finisce per tracciare la tua figura per contrasto, l’outline; vittime sacrificali dell’iperanalisi, come chi nella vita scrive.
Ho spesso osservato fotografie di scrittori nei loro eleganti studi tappezzati di libri, meravigliandomi di quello che a me sembra quasi un miraggio, l'allinearsi pressoché perfetto dell'apparire con l'essere, la convincente illusione di processi mentali esibiti, come se scrivere un libro non fosse opera di persone capaci di tutta la malvagità, la perversione e la spietatezza del mondo.
Poi nel libro arrivano i genitori, il suo divorzio, le figlie adolescenti, la spietatezza del mondo, che è il solito egoismo, e il vento forte e le porte che sbattono.
Siamo d’accordo, l’autofiction (la scrittura del sé) genera mostri, anzi, uccide romanzi. Ha fatto il suo tempo: nel senso che viviamo il suo tempo, non è “una moda”, o soltanto “un genere”: come la televisione che si aggiunge alla radio, internet alla televisione, è l’apertura di uno spazio. È un abisso dove sprofondano tante belle idee, e la colpa è di questi libri scritti troppo bene.
#2 DALLA PRIMA ALLA TERZA, E RITORNO
Non si può riassumere in poche righe il percorso che Cusk sviluppa nel suo “Le sorelle di Shakespeare”, il saggio di Coventry sulla condizione della cosiddetta “scrittura femminile” (così la chiama e la problematizza); si può dire però che nel finale arriva a una conclusione chiara, ovvero che per le scrittrici nel mondo - per quanto cambino i tempi, le stanze per sé, i ruoli e gli attributi - “la narrativa che si occupa di ciò che è eterno e immutabile, della maternità e della vita domestica e familiare” incontrerà spesso fastidio e ostilità, nei migliori casi indifferenza.
Ecco, c’è un caso italiano di cui vogliamo parlare, pubblicato nel 2006 da nottetempo e rilanciato da Quodlibet nel 2022, ed è Una quasi eternità di Antonella Moscati. Nata a Napoli, Moscati negli anni ha scritto su Kant, Schelling, Freud, Benjamin, Arendt e Nancy, e ha pubblicato soprattutto per nottetempo e la stessa Quodlibet.
Moscati in queste memorie brevi accenna all’altro lato della maternità, cioè il fatto di non perseguirla, ma soprattutto affonda in un’esperienza che indubbiamente – rivoluzioni o meno – non si trova al centro della produzione e della critica letteraria: la trasformazione del corpo della donna quando si avvicinano i cinquant’anni. L’autoanalisi, in questo caso, viene processata attraverso la terza persona. Ecco l’incipit:
Per la strada gli uomini avevano smesso di guardarla. Non che fosse mai stata bella, ma una certa qualità della sua carne, una materia ferma e un po' eccessiva che non era facile rinchiudere nei vestiti, si era spesso attirata occhiate e commenti. Non era successo all'improvviso, ma progressivamente: per primi erano scomparsi gli sguardi nelle città del centro e del nord, poi erano finiti quelli nelle grandi aree metropolitane, e ora non la guardavano più neanche al sud. Da ragazza aveva provato imbarazzo e fasti-dio, qualche volta perfino paura per quegli sguardi: ancora si ricordava di uno che in una strada del Vomero aveva fatto il gesto di morderle un seno.
Perché i corpi sono fatti di tempo? E perché il piacere ci illude?
A lei non era mai stato chiaro quando e dove cominciasse il piacere. Non cominciava, ma improvvisamente c'era, e più che finire ogni volta s'interrompeva, come se, anziché esaurire la sua forza, l'aumentasse. Se qualche volta l'esauriva, l'esauriva solo momentaneamente, interrompendola per permetterle di continuare a crescere. A sfinirsi erano sempre stati gli uomini, lei mai. (…) A volte pensava che fosse proprio a causa di questo diverso rapporto col tempo, cioè per via di quella certa eternità contenuta nel loro piacere, che i corpi delle donne si adattavano così male al passare del tempo. Come se, congegnati per la ricerca d'infinito, fossero colti senza mezzi adeguati da quella linearità inesorabile.
Nel poscritto aggiunto per la ristampa, comparsa a sedici anni di distanza, Moscati dice che Una quasi eternità è nato da una scrittura “dolorosa e lenitiva”. Non tanto per l’ingresso nella mezza età, ma per l’abbandono sofferto della giovinezza, fino ai suoi ultimi residui. Sedici anni dopo, aggiunge, non soltanto si è riusciti ad abbandonare la giovinezza, ma anche l’affanno per la sua scomparsa. È sbocciata un’altra forma di affetto, e un’altra scoperta: il passato lontano è metafisica, foto di costellazioni, quello prossimo pulsa ancora.
La terza persona sta lì, e ci guarda dal passato. Nell’ultimo libro di memorie invece, Patologie, la scelta ricade sulla prima persona: se si accompagnasse al passo ispirato del precedente, la prima persona si potrebbe scambiare per quella di Annie Ernaux: ma Moscati è napoletana, e la parabola di questa antiepica familiare finisce tra Bernhard e Troisi.
Nel libro l’autrice racconta l’ipocondria del padre, della peggior specie perché vissuta da un medico, e tramandata sapientemente nella generazione a seguire. Siringhe di antibiotici, pastiglie di zolfo, tonsilliti infernali, scarlattine e apocalissi. Il padre rassicura la giovane figlia: si invecchia a strappi, e non per gradi: ma tra la vita e la morte la scienza ha inventato una varietà di sfumature. A perseguitarci però, in ogni grado e sfumatura, questo corpaccio ingombrante. Perché non possiamo togliercelo come una tuta da lavoro allora,
E così immaginare di danzare di qua e di là, diventando una volta questo e una volta quello, fra stelle esplose e implose, buchi neri e spazitempi che si allargano e crescono come noi, immersi o forse neanche immersi ma continuamente capovoltati, non in quel guazzetto da pesci che è la broda panica onto-oncologica che abbiamo escogitato, ma in un'infinita materia fisica e metafisica, di cui noi siamo, con tutte le nostre beghe e patologie, una parte talmente trascurabile che neanche importa se siamo vivi o morti, perché in quell'infinita materia fisica e metafisica morire non è nemmeno come galleggiare e respirare al ritmo e al passo delle brezze e delle onde marine, ma solo come scomparire o comparire nell'aritmia del soffio di venti poderosi, nei movimenti delle onde e delle tempeste cosmiche, delle turbolenze che spazzano le giganti rosse disperdendo le sabbie stellari.
Non puoi capire cosa significa essere qualcun altro, ma puoi sentirlo. Per quanto breve, per quanto sommesso, il libro di Moscati ci è riuscito: chiunque e qualunque cosa si trovi di fronte a queste pagine – un veneto, un giglio, una spugna – vive per un istante l’altra vita. A volte chi scrive ha capito qualcosa, il tempo se ne accorge e si ferma.
(Grazie Ton)
#3 MUSTANG
Un paio di numeri fa abbiamo citato Schiavi di New York – da poco ripubblicato in Italia da Accento con la traduzione di Rossella Bernascone. Aggiungiamo qualcosa di più.
Nella seconda metà degli Anni Ottanta, Tama Janowitz era considerata una delle voci più dirompenti della nuova generazione di scrittori nordamericani assieme a Bret Easton Ellis e Jay McInerney. La stampa aveva radunato tutti e tre sotto l'etichetta di Brat Pack, banda di scapestrati, lo stesso soprannome con cui, da qualche tempo, veniva chiamato il gruppo di giovani attori che si ritrovava sui set dei film adolescenziali tipici di quegli anni: Robert Downey Jr, Emilio Estevez, Rob Lowe... Certo era solo una trovata della stampa, un'operazione di marketing. Ma qualcosa che accomunava i tre scrittori c'era: erano belli, popolari, ricchi – come degli attori, appunto–, e i loro libri avevano una dissolutezza e una modernità nuove, che erano delle novità per l'epoca.
I romanzi del Brat Pack avevano un allure sperimentale ma uno stile pulito, minimalista – superficiale dicevano i critici. Le loro storie erano un Armani cucito su misura per il decennio che incarnavano: feste selvagge, giovani annoiati della classe media, cocaina, sesso, eccessi, culto delle merci e perdita del sé.
Ellis e McInerney erano amici davvero, e in coppia diventavano, per la stampa i Toxic Twins, i gemelli tossici – altro soprannome in prestito, coniato qualche anno prima per Steven Tyler e Joe Perry (che se l'erano guadagnato sul campo). Janowitz era esterna al gruppo. All'inizio ebbe un successo fulminante, proprio con Schiavi di New York, una raccolta di racconti che la portò a venir contesa da editori e riviste, e dagli sponsor (Apple, Amaretto di Saronno...). Dopo quel libro, da cui venne tratto un film, non riuscì davvero a ripetersi. Finì anche per litigare con McInerey: i due si diedero del “marchettaro“ e della “troia” a vicenda. Ma questo è rotocalco. Cosa rimane invece di un libro che sembrava abbacinante e che ormai pochi si ricordano?
Intanto questo incipit fulminante:
Da quando mi ero messa a fare la puttana avevo dovuto vedermela con peni di ogni forma e dimensione. Certi grossi, altri raggrinziti e coi testicoli penduli. Certi venati di blu che puzzavano di stilton, altri avari. Peni bisbetici, fatati, cosparsi di perle come i grandi minareti del Taj Mahal, peni burloni, striati come la coda di un procione, ardenti, crestati, impossibili, profumati. Più passava il tempo e più ero contenta di non possedere una di quelle appendici.
Schiavi di New York è ancora un gran libro. Divertente, spiazzante, libero. È il ritratto grottesco – a volte fiabesco, mai consolatorio – di una società newyorkese frenetica e feroce, rapita dalle promesse di notorietà. Un mondo di scultori, pittori, scrittori, musicisti, artisti e puttane tanto quanto di colletti bianchi. Esaltati in molti, amareggiati e delusi quasi tutti, cercano di dare un senso ai loro sogni di gloria spenti ormai dallo squallore della realtà. Si ritrovano a odiarsi e a litigare durante cene di gala a cui si sono imbucati, o per aste immobiliari di case che non possono permettersi.
Quasi tutte le persone che conoscevo facevano una cosa ma si consideravano qualcos'altro: tutte le cameriere erano attrici, tutti quelli che lavoravano nei negozi di fotocopie erano scrittori, tutti i portieri erano artisti.
Schiavi di New York è una miscela postmoderna, iper-realistica, ironica, pop, camp. I finali dei racconti sono quasi sempre aperti – o, meglio, sono chiusi in loro stessi: non c'è progresso, non c'è salvezza, non c'è catarsi.
Alcuni dei personaggi appaiono in più di un racconto. Come Marley Mantello, un pittore autoproclamatosi genio della scena artistica, incredibilmente pieno di sé, che passa la vita a rendere infelici gli altri. O Eleanor, ragazza ventottenne, di provincia, che è a New York per svoltare e che non svolta: osserva, però, con ironico distacco, le idiosincrasie di questa bizzarra carovana umana di carrieristi, spacciatori e scrittori (è "una testimone ideale, una Dorothy in questa terra di Oz", scrisse McInerey nella sua recensione per il New York Times all'epoca; parlava di Janowitz come una "acuta osservatrice" capace di inventare e plasmare la realtà a suo piacimento, una scrittrice dotata di un "talento unico": evidentemente non avevano ancora litigato).
Schiavi di New York è insomma una raccolta corale, come un film di Altman. Ci sono però anche alcuni racconti fulminanti, brevissimi e surreali. E forse sono proprio queste schegge isolate che restituiscono meglio lo spirito del libro intero libro. Come la storia (raccontata in seconda persona) di una donna che dà una botta in testa alla moglie di Bruce Springsteen e ne prende il posto, senza che nessuno se ne accorga, neanche il marito. Sembra un sogno, non lo è: il Boss è borioso, è noioso, pensa solo alla sua poetica working class, vuole sempre sentirsi dire che è bravo.
Le uniche occasioni in cui gli viene voglia di fare l'amore sono quando siete in macchina voi quattro: tu, Bruce e le due guardie del corpo. Gli piace parcheggiare la Mustang in qualche discarica intorno a Newark e, con le guardie del corpo che aspettano fuori, insiste perché tu ti metta sul sedile posteriore. Trova l'atmosfera – ratti, frigoriferi a pezzi, vecchi materassi, lattine – molto stimolante. Preferisce che non ti svesta, gli piace che tu faccia finta di respingerlo. Il sole tramonta nell'aria inquinata, scende lentamente, la palla rosso acceso si fa a poco a poco viola, e poi è notte.
La miseria della vita non sopravvive neanche al mito.
#4 NUOVE MANCANZE
Un gruppo di quaranta donne è rinchiuso in una prigione sotterranea. Non si conoscono gli eventi o le motivazioni che hanno portato alla loro cattura. I ricordi delle prigioniere sono vaghi. Dei carcerieri non si sa nulla. Ma le donne li temono, si paralizzano al solo schiocco delle loro fruste. Per questo si attengono al protocollo imposto dalla prigionia: non si abbracciano, non fanno attività fisica, non esprimono troppo vistosamente i propri sentimenti.
Le provviste che hanno a disposizioni sono abbondanti ma monotone: dispense di carne e verdure, che possono bollire su un fornello. Non ci sono spezie o aromi con cui condire il cibo. Le prigioniere sono condannate a una sopravvivenza senza piacere.
Siamo sul pianeta Terra, o forse è un suo gemello, e c'è stata una fine del mondo. La donna più giovane è la narratrice, è una ragazza, ed è l'unica tra loro che non ha un passato, non ha un prima, ha sempre vissuto in catene. Eppure solo lei riesce a scrollarsi l'apatia di dosso, solo in lei il tormento del desiderio inizia di nuovo a sbocciare: fa domande sul mondo di prima, immagina, spera, e cerca – invano – di sedurre una giovane guardia.
Io che non ho conosciuto gli uomini della scrittrice e psicanalista Jacqueline Harpman, uscito per la prima volta nel 1995, ha goduto negli ultimi mesi di un rinnovato interesse dopo un'ondata di consigli su TikTok. Blackie lo ha pubblicato qualche settimana fa per la prima volta in Italia (con la traduzione di Sara Clamor).
A metà del libro succede qualcosa di inaspettato: le guardie scompaiono. Le donne si ritrovano libere, ma solo per scoprire di essere le ultime creature viventi sul pianeta. Trovano cadaveri, scorte di cibo, cercano di dare il via a una nuova civiltà. Passano gli anni, c'è qualcuna che muore, ma poi cosa cambia? Nulla. Le attende solo altro vuoto, nuove mancanze e ancora insoddisfazioni.
Mi sono seduta sotto la volta del cielo alcune volte, quand'era terso, e ho guardato le stelle dicendo con la mia voce ormai rauca: Signore, se sei da qualche parte, lassù, e non hai troppo da fare, vieni qui a dirmi una parola, sono così sola e mi farebbe tanto piacere. Non è successo niente. Sono giunta alla conclusione che l'umanità, di cui mi chiedo se realmente faccio parte, avesse davvero molta immaginazione.
Siamo intrappolati in una allegoria kafkiana con qualche elemento di distopia alla Urania. Il romanzo è spoglio, la scrittura è pulita, la storia è essenziale, la strategia narrativa è scheletrica. Io che non ho conosciuto gli uomini è snervante per quanto riesce a essere statico, e poco seducente. Ma è anche difficile liberare la mente dalle sue atmosfere di sconfitta. L'inedia che appesantisce la lettura è un tarlo che continua a scavare.
#5 IL PRINCIPE, IL CITTADINO CANE
Cittadino Cane è un brevissimo romanzo (70 pagine) di Giordano Meacci, l’autore di Il Cinghiale che uccise Liberty Valance. È uscito nel 2022 per Industria & Letteratura, nella collana a cura di Martino Baldi.
Per quanto breve, il racconto si compone di una dozzina di specchi che ricompongono le fattezze del protagonista, Carlo Cane. Alcuni di questi capitoli sono molto brevi, come voci enciclopediche inventate, o copioni annotati, altri si allargano a scene d’infanzia, alle rese dei conti. Dopotutto, a dettare il passo è lo stesso Carlo Cane, morente, che ricombina le stagioni della sua vita.
Una delle intuizioni felici della novella di Meacci è che i suoi personaggi hanno capito quella cosa, che il futuro non è il mistero che si dice: è la solita trafila di incomprensioni, in tutte le direzioni, di affanni e insicurezze e rivelazioni: come oggi, con altre parole per altre immagini.
La struttura della novella allora viene sbullonata e rimontata come pare a Meacci, modulando gli ambienti e le epoche, grazie alla sua poliglossia: il capitolo più informativo sarà la pagina biografica della Treccani dedicata al protagonista, dove la vita politica di Carlo Cane - che per il politico coincide con quella affettiva - parte dai primi circoli aretini di Forza Nuova degli anni Ottanta alla successiva inclinazione leghista, forse più per opportunità che nordismo; poi a fine anno Dieci lo scatto, eccolo
Sottosegretario di Stato al Ministero delle Infrastrutture e Trasporti durante il primo Governo Conte. Fortemente voluto dal presidente della Repubblica da poco insediato, Silvio Berlusconi, è Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico durante il primo governo Meloni (2023-25) mantenendo lo stesso ruolo fino alla fine della XIX legislatura sia sotto il governo di transizione guidato da Roberto Fico (maggio-novem-bre 2025); sia durante il dittico governativo Crosetto-Fontana (dicembre 2025-2028). All'inizio del 2027, perso l’appoggio di Berlusconi molto probabilmente per uno screzio tutto interno alla Destra italiana, fonda il movimento politico ItaLega accogliendo al suo interno il gruppo misto dei fuoriusciti del Movimento 5 Stelle, di Italia Viva e della Lega. Alle elezioni del 2028 ItaLega raggiunge il 14 per cento dei consensi, risultando determinante nella formazione del governo dopo il ripristino percentuale e le modifiche della legge elettorale Di Maio del 2027. Ministro delle Privatizzazioni nel Il governo Meloni (2028- febbraio 2030); Ministro dello Sviluppo Economico e Industriale du-rante il I (in realtà II) governo Fontana (marzo 2030-2033).
Ecco. La mia prima lettura risale al 2022, quando Meloni non era ancora Presidente ad libitum. Per l’autore è stato più facile immaginare la presidenza meloniana della morte di Berlusconi: e noi siamo con lui.
Al centro della novella c’è un vuoto a forma di carlocane, di nuovo, l’“outline”: un uomo che è stato amato per i motivi sbagliati, votato per un mondo più brutto, e abbandonato dalla madre.
Perché “Cittadino Cane”? Perché come nel film di Welles si rimugina, tutti insieme, su questa sfortuna dei potenti, di credere troppo nel mondo delle cose e degli umani, delle relazioni, dell’inculata: nessuno che gli faccia un cenno, un’occhiatina, “ohi, è tutto uno scherzo”. Vi notiamo, vi vediamo. Beati.
#6 PTSD
In un'intervista del 2018 a Lit Hub, la scrittrice argentina Mariana Enriquez ha detto: "la violenza politica lascia cicatrici, come un nazionale PTSD [disturbo da stress post traumatico]. I militari qui hanno dato il via alla materia degli incubi: persone scomparse, tombe comuni, ossa non identificate".
Di questa stessa materia sono fatti i racconti – fantastici, gotici, grotteschi – di Enriquez. Storie di cannibalismo, di paranoia, necrofilia, storie di morti che non rimangono sepolti a lungo e che continuano a perseguitare i vivi, o a tener loro compagnia.
La raccolta I pericoli di fumare a letto è uscita in Italia alla fine del 2023 – ma il libro è del 2009. Molti dei personaggi di questi racconti vivono a Buenos Aires: una metropoli fiera, scalcagnata, segnata da profonde divisioni di classe. Anche per questo l'horror dei Pericoli di fumare a letto è un horror politico: c'è il PTSD di una intera nazione, come dice Enriquez, ma ci sono anche, per esempio i timori meschini della classe agiata – come in uno dei racconti, dove la mostruosità di un senzatetto che defeca per strada fa sprofondare nel terrore esistenziale le signore di un quartiere bene.
È l'altro a fare paura. E non è un caso che i protagonisti di queste storie siano spesso adolescenti (Mariana Enriquez dice di essersi ispirata, qui, a Stephen King). In fondo è proprio l'adolescenza il periodo in cui iniziamo a prendere le misure con quello che c'è fuori da noi. Così in "La vergine della cava" i dispetti e le gelosie di un gruppo di ragazze diventano una forza mistica, atavica e atroce, che si abbatte sull'oggetto del loro desiderio, un ragazzo colpevole di essersi innamorato di una fuori dal gruppo.
La raccolta inizia invece con "L'angioletta disseppellita": una giovane donna riceve la visita di una neonata zombie, "l'angioletta" appunto, la sorella della nonna, morta in culla un secolo prima e seppellita con vergogna nel giardino di casa: non era una leggenda familiare allora! Non erano solo i deliri superstiziosi di una vecchia. Nonostante lo spavento, però, la ragazza accetta la presenza di questa presenza soprannaturale con fatalismo, e una certa ironia:
Mi alzai e corsi in cucina a prendere i guanti che usavo per lavare i piatti. L'angioletta mi seguì. Fu solo il primo segno della sua personalità esigente. Non mi spaventò. Con i guanti, la presi per il collo e la strinsi. Non è molto coerente cercare di strozzare un morto, ma non si può essere disperati e ragionevoli allo stesso tempo. Non riuscii nemmeno a farla tossire, mi trovai con dei resti di carne in decomposizione tra le dita guantate e lei rimase con la trachea in vista.
La scrittura di Enriquez è così: riesce a tenere dentro tutto, il baratro della storia, la noia quotidiana, la magia, il terrore e le scemenze umane.
Negli Emirati Arabi Uniti si stanno registrando le più grandi precipitazioni degli ultimi 75 anni.
A Dubai le piogge sono iniziate lunedì sera e nel giro di 24 ore hanno raggiunto i 142 millimetri, la quantità di pioggia che di solito sulla città cade in 18 mesi.
Nel frattempo in Oman le alluvioni hanno portato alla morte di almeno 18 persone, tra cui 10 scolari.
Al momento dell’invio di questa newsletter, nell’aria danzano 424,75 ppm (parti per milione) di CO2.